lunedì 30 settembre 2013

Una scaramuccia di Adolfo Venturi: l'infamante giudizio al restauro del 1913, agli ottagoni del Tintoretto a Modena

Prestando occhio critico a questa e quella galleria in Italia, partendo dalla Pinacoteca di Bari, passando per il Museo Regionale di Messina, sino a toccare le più rinomate Galleria Borghese o gli Uffizi, spesso mi capita di disquisire in merito a particolari aneddoti documentati o questioni riguardanti qualche ente museale della penisola.

Galleria Estense di Modena, facciata. 
Chi mi conosce sa che particolare attenzione per gusto personale, l’ho sempre prestata per le collezioni e le strutture dell'Emilia Romagna, da Ferrara, a Parma, sino a Piacenza e ancora Bologna, trovandola una terra ricca di artisti e monumenti, nonché una regione che, senza dubbio, è tra le poche che sa gestire in maniera dignitosa l’intero assetto turistico.

In quest’ottica di predilezione, si inserisce perfettamente la Galleria Estense di Modena,  un museo che espone sia le collezioni artistiche, una volta appartenuti ai  Duchi d'Este, sia opere acquisite in seguito dallo Stato, nel corso degli ultimi due secoli.


In questa svirgolettata però non vi parlerò della galleria, - che per altro scopro non avere un sito internet ad hoc, aggrappandosi ad altri della sovrintendenza o dei diversi musei modenesi ed emiliani, come ben visibile da questo link – scrigno che contiene opere di artisti quali Dosso Dossi, Raffaello, Cosmè Tura, Correggio, El Greco, Velasquez, Rubens, Veronese, Rosalba Carriera, Guercino, Guido Reni e Ludovico Carracci, ma porterò alla luce un piccolo quiproquò simpatico e singolare, che so sarà fonte di apprezzamento tra gli estimatori ed i critici.

A seguito delle mie ricerche all’Archivio Centrale di Stato, infatti, circa i restauri ai dipinti mobili in Italia nei primi due secoli del Novecento, sono stato ben lieto di scoprire che la Galleria Estense di Modena fu sede di restauri in diverse occasioni, tra cui quella del 1913, quando i restauratori Grandi e Boschi, operarono sui grandi ottagoni che coprono il soffitto della struttura.

Tintoretto, Deucalione e Pirra, XVI secolo, olio su tavola,
Galleria Estense, Modena 
Per una storia sintetica dell’opera protagonista del restauro, i quattordici grandi ottagoni raffiguranti episodi mitologici, sono tavole dipinte ad olio dal Tintoretto, acquistati nel 1653 a Venezia, dove probabilmente decoravano il soffitto di una sala del palazzo dei Conti Pisani di San Paterniano. In seguito poi, nel 1658, gli stessi furono offerti a Francesco I, che li acquistò e li rese parte integrante delle sue collezioni di arte. 

Tornando al restauro avvenuto quindi nel 1913, proprio questa operazione, ben cinque anni più tardi dal lavoro finito,  nel 1918, si rivelò causa di amare disquisizioni tra due grandi personalità del calibro del Soprintendente alle Gallerie di Parma. Ladaudeo Testi, e dell’allora Direttore della Galleria, Giulio Barriola, colui che al tempo, aveva ordinato che venissero effettuati i restauri, senza previa autorizzazione della Soprintendenza.

Tintoretto, Marsia, XVI secolo, olio su tavola,
Galleria Estense, Modena. 
L’oggetto del contenzioso, era dato dalla constatazione - a detta del Testi – che la decisione presa dal Barriola di non consultarsi con la sua autorità per ordinare i restauri agli ottagoni, avesse portato alla resa di restauri estremamente malfatti, così come desumibile da una stroncante relazione di Adolfo Venturi che, in qualità di Ispettore, si recò presso il palazzo a visitare gli effetti dell’esecuzione.
Da quella relazione infatti, si evinceva l’entità dei restauri effettuati sugli ottagoni, che presentavano i cieli ridipinti per intero, secondo un lavoro di rifacimento, più che di restauro. Per altro gli stessi, dopo solo sei anni, già presentavano nuovamente sollevamento di colore.

Una situazione quella, che creò un clima molto teso tra l’allora Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, Corrado Ricci, il Barriola e il Testi; clima che si stemperò con il chiarimento della faccenda, avvenuto nel dicembre 1918.

Un chiarimento reso possibile solo dopo che Laudadeo Testi ebbe modo di confrontarsi con il consigliere Comunale di Modena, tal signor Campori: questo infatti ebbe modo di raccontare al Testi, diversi aneddoti riguardanti la figura di Adolfo Venturi, la sua preparazione in materia di restauro ed il rapporto conflittuale col Barriola, trascinando quindi ogni attenzione sul giudizio da attribuire a quella relazione stilata proprio dal Venturi. 

Tintoretto, Piramo e Tisbe, olio su tavola,
Galleria Estense, Modena. 
Allorché, analizzando i fatti secondo i racconti del Campori, si veniva a delineare del Venturi, il profilo di uno storico dell’arte probabilmente incompetente in materia di restauri e poco oggettivo nei suoi giudizi: nel caso specifico, nonostante tempo addietro il Barriola fosse stato allievo del Venturi, questo si trovò in più occasioni a denunciare i restauri effettuati dal discepolo, a Napoli e Parma, senza aver le competenze tecniche per farlo.

E ancora, volgendo la questione sul piano personale, non era da sottovalutare in quell’occasione, un chiaro intento dell’Ispettore (sempre Venturi) nel voler gettar fango proprio sulla figura di Laudadeo Testi, che non aveva mai nascosto di ritenere un avversario personale, sin da quando proprio il Testi, vinse suo figlio in un concorso con notevole premio in denaro.

Alla luce di questa visione dei fatti, il bandolo della matassa fu sciolto quindi in una missiva destinata al Direttore Generale Ricci, dove il Testi, dimostrando di aver ritenuto veritiero quanto detto dal Campori, confermò di aver personalmente interrogato il Boschi circa i ritocchi al Tintoretto, e di aver ricevuto da questo come risposta, un’estraneità da parte del restauratore, ai visibili ritocchi.

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