Nella storia di Beatrice Cenci, la nobildonna decapitata per parricidio nel 1599, raccontavo
della presenza sulla scena dell’esecuzione, di Caravaggio ed Orazio Gentileschi
assieme all’allora piccola Artemisia. Pittori questi due, che avrebbero portato
la poetica caravaggesca a Napoli e nel meridione, godendo così di una non
indifferente fortuna critica.
Ma così come Orazio
Gentileschi, anche altri artisti della Roma di fine ‘500 – inizio ‘600 erano
grandi amici del pittore lombardo arrivato nella capitale nel 1596: è possibile
anzi affermare, che la personalità complessa e geniale di Caravaggio non
lasciava adito a mezze misure. O lo si amava, o lo si odiava. E per tanti che
lo ammiravano e ne riconoscevano il genio, tanti altri lo odiavano e provavano
un invidia spropositata verso di lui, tanto da artefare il proprio il giudizio
in merito alle pitture del grande artista.
G. Baglione, bozzetto de' La Resurrezione, 1600 ca, Museo del Louvre, Parigi. |
La storia è presto
raccontata: ammirando una grande pala d'altare raffigurante una Resurrezione per
la Chiesa del Gesù, - oggi perduta, ma nota attraverso un bozzetto
custodito al Louvre – opera del Baglione, i due pittori Orazio
Gentileschi e Caravaggio rimasero così disgustati dalla composizione
dell’opera, che arrivarono a comporre un libello di poesie scurrili e
diffamatorie nei suoi confronti.
Quindi grazie a Tommaso Salini, detto Mao, pittore, amico e seguace del Baglione, pure lui preso di mira in una delle satire, che riuscì in modo infimo a procurarsi una copia del libello, arruffianandosi Filippo Trisegni, il Baglione denunciò i due artisti, insieme ai
compagni Onorio Longhi e lo stesso Trisegni, rei di aver collaborato alla
diffusione delle offese per le vie di Roma: Caravaggio però, protetto da
cardinali, che amavano follemente la sua pittura, se la cavò soltanto con un
mese di prigione.
G. Baglione, Autoritratto, 1610, olio su tela, Accademia di San Luca, Roma. |
Grande fu il
rammarico, probabilmente del Baglione quindi, che osava ribadire spesso quanto
Michelangelo Merisi fosse un uomo satirico ed altero, che parlava male di
tutti i suoi colleghi anche dinanzi al loro cospetto, sicuro e tronfio del
fatto che il suo genio fosse così apprezzato nella Roma che gli aveva aperto le
porte. E che ancora, col suo modo di fare accademico sbagliato, aveva spinto i
suoi seguaci a disegnare dal vero senza curarsi dello studio dei fondamenti del
disegno, smontando così l’aulicità appartenente all’arte.
Un lato del pittore
probabilmente veritiero, testimoniato anche da uno dei suoi ammiratori più
fedeli nonché primo biografo della vita del Caravaggio, l‘olandese Carel Van
Mander, che lo descriveva come un attaccabrighe, dedito poco al lavoro e molto
alle baruffe. Non di rado infatti, pare che facesse lo spavaldo con il suo
spadino per le vie del centro di Roma, seguito dai suoi fedelissimi amici
pittori, tra cui spiccava Carlo Saraceni, artista di origini venete,
narcisista, sempre elegante e così ammiratore di Michelangelo Merisi, che
pendeva puntualmente dalla sua bocca e chiamò il suo cane Cornacchia, come
quello di Caravaggio.
O. Leoni, Ritratto di Caravaggio, 1621, matita su carta, Biblioteca Marucelliana, Firenze. |
Ma l’atteggiamento iracondo
di quel pittore descritto come un uomo trasandato, sporco e barbuto, dal tabarro
e le vesti nere e dalla parlata bergamasca, temuto da tutti ed allo stesso
tempo amato, invidiato e rispettato, non portò a nulla di buono, se non all’omicidio
di Ranuccio Tommasoni nel 1606, dopo una disputa avvenuta a causa di un fallo
contestato in una partita di pallacorda.
Un omicidio che non
fece altro che accrescere la leggenda secondo cui Michelangelo fosse partito
giovincello alla volta di Roma per volere dei suoi, che volevano allontanarlo
in quanto, nella sua terra, aveva ucciso accidentalmente un suo pari durante un
litigio; culmine di un atteggiamento che lo ha consacrato come genio ribelle e
maledettamente anticonformista, e che per alcuni versi ha sancito la sua fortuna
critica, dalla sua morte sino a noi.
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