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mercoledì 10 settembre 2014

La rappresentazione della notte nella storia dell'arte

Rembrandt, La ronda di notte, 1642, 
olio su tela, Rijksmuseum, Amsterdam
Seguendo il tema della descrizione di un excursus che analizzi la rappresentazione delle diverse fasi del giorno, dopo aver visto quanto accade nel giorno e nella notte, è la volta di guardare a come nel corso dei secoli, diversi artisti hanno raffigurato l’idea della notte nei suoi molteplici significati.
Perché la notte non è da sempre stata vista solo come sfondo ideale a romantici paesaggi, ma anche come emblema del buio e del mistero; il luogo in cui accadono avvenimenti pericolosi o sovversivi: la più conosciuta La Ronda di notte di Rembrandt o il meno noto San Pietro liberato dall’Angelo di Stom, ne sono un esempio.

M. Stom, San Pietro liberato dall’Angelo, XVII sec.,
olio su tela, Pinacoteca Provinciale, Bari
In pittura però, esulando dal significato esoterico della notte, che è visibile in alcune interpretazioni oniriche delle pitture parietali egizie e delle primitive civiltà, tra le prime rappresentazioni della volta celeste vi sono i mosaici paleocristiani bizantini. Volte stellate, semplici nella bicromia blu – oro che riconducono alla dualità oscurità – luce divina; complesse nella composizione, in cui la disposizione geometrica degli astri luminosi tocca livelli di armonia assoluta: si veda tra tutti il mosaico della Volta stellata nel Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, opera del V secolo d.C.


Volta stellata, V secolo d.C., mosaico,
Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna
Un modo di rappresentare la notte, questo, fortunato e standardizzato per secoli, secondo i precetti della pittura bizantina, che vede la sua evoluzione con l’avvento della pittura latina, con Giotto. In diverse occasioni il pittore apre i suoi pannelli ad uno scenario notturno, anche se nonostante l’innovazione di una visione minimale del cielo scuro, il suo modo di rappresentare la notte non rende giustizia alla complessità atmosferica dell’arco temporale: il cielo notturno di Giotto è una semplice distesa di un blu verdastro molto chiaro, che ancora per alcuni versi rende la scena estemporanea al momento in cui sta accadendo, come ben si evince, per esempio, dal pannello riguardante il Sogno di Innocenzo III, tratto dal ciclo della Vita di San Francesco nella  basilica omonima di Assisi.

Circa 150 anni dopo, sarà Piero della Francesca a rendere giustizia alle sfumature ed alla “luce” che si diramano dalla notte: d’altronde il pittore è un artista che rivoluzionerà il concetto di luce e luminosità nella storia dell’arte, per cui è eccezionale notare come i suoi studi si siano resi validi anche al periodo della giornata in cui paradossalmente regna l’oscurità. Piero della Francesca però illumina il cielo con le stelle, viste come piccoli puntini di luce in un cielo blu, e seguendo la stessa scia illumina la tenda in cui avviene Il sogno di Costantino ed i personaggi presenti, con la luce prodotta da una luna, però assente nell’affresco.

Giotto, Sogno di Innocenzo III, 1295 – 1300,
affresco, Basilica di San Francesco, Assisi
P. della Francesca, Il sogno di
Costantino, 1458 – 1466, affresco,
 Basilica di San Francesco, Arezzo

Circa dieci anni dopo l’esecuzione dell’affresco di Piero della Francesca nella Basilica di San Francesco di Arezzo, sarà Paolo Uccello a consegnare alla notte una nuova visione, non solo atmosferica ma anche e soprattutto mistica: la Caccia notturna, custodita all’Ashmolean Museum di Oxford, racconta una scena venatoria che si svolge in piena notte, dove le stelle e la luna (un sottilissimo spicchio) che sono alti e ben visibili nel cielo, fanno da preludio ad un forte sentimento di angoscia e mistero, in una visione onirica che ben si sposa con il disturbo creato dallo spazio indefinito nella sua profondità, nella sua prospettiva e nella sua volumetria bidimensionale.


P. Uccello, Caccia notturna, 1470, tempera su tavola, Ashmolean Museum, Oxford


S. del Piombo, Pietà, 1516, 
olio su tela, Musei Civici, Viterbo
Nel XVI secolo la situazione non si evolve di molto: la notte continua ad essere raffigurata come un momento di oscurità in cui l’unica fonte di luce proviene dalla luna; una luna capace di assolvere l’onere di illuminare il mondo con i suoi delicati raggi. Anche Sebastiano del Piombo nella sua Pietà, racconta di una luna piena e magniloquente, che dall’alto della sua postazione, nascosto da un velo di nuvole rese da pennellate veloci e striate, avvolge con la sua luce la Vergine e la salma del Cristo defunto, regalando loro un momento intimistico che coincide con la preghiera della donna a Dio e con l’innalzarsi del suo sguardo al cielo.

Sicuramente i primi secoli in cui prende piede, si sviluppa e si irradia la pittura latina, vede sperimentazioni e valutazioni sul tema, nella tendenza a creare luce laddove vi è assenza di luce: un atto dovuto in pieno Umanesimo e Rinascimento, in cui è la curiosità, lo studio e la voglia di copiare perfettamente la natura a spingere gli artisti a superarsi il più possibile.

Caravaggio, Conversione di 
San Paolo, 1601, olio su tela, 
 S. Maria del Popolo, Roma
Con l’arrivo del Seicento però, la concezione della notte prende risvolti diversi. Precursore del nuovo modo di vedere la notte è Caravaggio, il pittore che forse più di altri viene ricordato per i suoi giochi di luce e oscurità. Proprio lui racconta la notte attraverso gli interni; una notte in cui regna un buio totale e indefinito, che viene annullato in alcuni tratti da un’intensa luce, proveniente da fonti diverse: a volte è una luce divina a illuminare il contesto, a volte è una luce artificiale.
Nella Conversione di San Paolo, tela custodita nella Cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo a Roma, è ben visibile quanto detto: in un clima di oscurità notturna, il San Paolo caduto viene illuminato da un’esplosione di luce divina, che illumina il suo corpo e lo spazio che lo circonda. Una luce necessaria non solo a definire il racconto, ma anche a definire la natura divina dell’evento.

D. Corvi, La morte di Seneca, 1790, 
olio su tela, Fondazione Roma, Roma
Il gioco dettato dalla luce artificiale (piuttosto che divina) in piena notte, verrà poi ripreso in più vedute nei secoli a venire. Ben chiaro è il dipinto di Stom già nominato agli inizi di questa svirgolettata, ma ancor più evidente sono le tele dei secoli successivi, perché vedono la compresenza della luce artificiale e dello scenario notturno nello sfondo. Affascinante è il dipinto di Corvi della Fondazione Roma, che raffigura La morte di Seneca. La scena dell’esecuzione capitale del filosofo romano, viene illuminata da una fonte artificiale proveniente probabilmente dal fulcro in cui avviene il misfatto, per quanto non visibile (ma fanno fede le ombre proiettate); sullo sfondo però una luna piena luminosissima e candida, illumina un cielo nuvoloso e chiaro.

F. Goya, Le fucilazioni del 3 maggio,
1814, Museo del Prado, Madrid
Quello che però non accade in Goya e Pellizza da Volpedo, che ambientano i loro aneddoti storici in una notte che a differenza di quella del Corvi, non gode della luminosità della luna e delle stelle.
I due pittori infatti vedono il cielo notturno come una distesa di colore scuro, reso d'altronde tramite larghe campiture di colore, che fa solo da accompagnamento alla scena che si accingono a raccontare; scena che viene totalmente illuminata da fonti artificiali: nel caso della Fucilazione del 3 maggio di Goya, la luce proviene unicamente dalla lanterna dei soldati francesi, mentre il cielo nero è smorzato nella cromia da nuvole diradate, create con tonalità leggermente più chiare; nel caso del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, la luce arriva unicamente da una fonte non visibile proveniente dal punto di vista dello spettatore, mentre dietro il cielo, non è tetro come quello di Goya, ma appare comunque anonimo nelle sue tonalità di viola e blu scuro che sfumano tra loro.


G. Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, 1896 – 1901, olio su tela, Galleriad’Arte Moderna, Milano

J. A. Grimshaw, In Peril, 1879, olio su tela,
Leeds Museums and Galleries, Leeds
Ma questi casi non sono validi a rendere generica una visione della notte che non trova riscontri poi in altri pittori, in pieno Ottocento. Infatti il secolo si apre a numerose visioni di carattere scientifico, interpretativo ed espressionistico della notte: ne sono esempio Monet e Grimshaw, che a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, raccontano due modi totalmente diversi di vedere la notte. Grimshaw infatti, nella sua tela In Peril, racconta una visione tardo-romantica della notte, celata da un branco di nuvole soffici e biancastre, che nascondono non solo il cielo scuro, ma anche la luna piena.
Monet, nella sua Le port du Havre, del 1873, racconta invece una notte che è tutto un tripudio di svirgolettate vigorose di blu e azzurri; una notte che è una fusione cromaticamente armoniosa tra cielo e mare, il cui punto di rottura tra le due realtà viene definito meramente da intensi punti luce bianchi e rossi, mentre quello di ulteriore congiuntura viene reso dal groviglio indefinito delle barche a vela.


C. Monet, Le port du Havre, 1873, olio su tela, Collezione privata

A seguire Van Gogh, nel biennio 1888 – 89, si concede ad una visione della notte, che nelle sue molteplici rivisitazioni, viene comunque resa luminosa dalla presenza di stelle meravigliose.
E se la Notte sul Rodano lascia negli animi il lontano ricordo delle stelle bizantine dei mosaici ravennati, in un cielo reso da pennellate veloci ed estremamente materiche, la  Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, dello stesso anno, vede già il modificarsi degli astri del cielo da stelle a più punti, in circolari punti luce che aprono ad aloni più dolci, che si stemperano nella notte scura.


V. Van Gogh, Notte stellata sul Rodano, 1888,
olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi
V. Van Gogh, Terrazza del caffè la
sera, Place du Forum, 1888, olio su
 tela, Museo Kroller Muller, Otterlo

Una modifica che giunge all’apice nel dipinto custodito al MoMA di New York, La notte stellata, il cui cielo notturno che sovrasta la città di Saint Remy de Provence, si rivela un turbinio delicato e inquietante, luminoso, quieto ed esplosivo, di luci e colori. La pasta materica del colore, le pennellate veloci ma metodiche, l’andamento curvilineo ondeggiante preciso, lo rendono tra le rappresentazioni notturne più favolistiche di tutti i tempi.


V. Van Gogh, Notte stellata, 1889, olio su tela, MoMA, New York.

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giovedì 4 settembre 2014

La rappresentazione del tramonto nella storia dell'arte

Il tramonto nella storia dell’arte è stato rappresentato in diversi modi, con diverse tecniche, ed ha spesso assunto vari significati simbolici: la sua magia effettivamente si riscontra nel suo ruolo di transito tra due realtà ben definite come il giorno e la notte, che simboleggiano da sempre bene e male, bianco e nero, vita e morte. Spesso il tramonto infatti connubia il sonno dei soggetti rappresentati o preannuncia un triste destino, altre volte conclude un'azione, spesso illumina paesaggi di colori caldi e morbidi.

Come già asserito nel post propedeutico riguardante la raffigurazione del giorno nella storia dell’arte, prima dell’avvento della pittura cosiddetta latina, è praticamente raro riscontrare la presenza di un tramonto in un dipinto, essendo ormai quotato lo sfondo dorato bizantino, e ancora nel Trecento non è del tutto affermata. Ma a partire dal Quattrocento, il nuovo interesse per la natura, le attenzioni verso il clima, la luce e il paesaggio, portano il tramonto ad avere un ruolo del tutto particolare.

V. Foppa, Fanciullo che legge Cicerone, 1464,
affresco staccato, Wallace Collection, Londra
A partire dall’affresco di Vincenzo Foppa raffigurante il fanciullo che legge Cicerone. Il seguente, un tempo facente parte del Banco Mediceo di Milano ed attualmente pezzo cardine della Wallace Collection di Londra, è uno degli emblemi del Rinascimento: il fanciullo che legge Cicerone, raffigura la riscoperta delle civiltà classiche e il nuovo interesse nei confronti della filologia. Un emblema che respira un’aria particolare grazie al tramonto che fa da sfondo al dipinto murale: l’atmosfera rappresentata dal Foppa è rarefatta e multicolore, calda e così delicata da trascinare la scena in un mondo indefinito, per alcuni tratti appartenente al mondo coevo al pittore, per altri rimasto ancora agli anni della magniloquenza romana.

Il Foppa d’altronde non era nuovo alla resa del tramonto in un’opera d’arte: già circa otto anni prima, nella sua tavole de’ I tre crocifissi ora all’Accademia Carrara di Bergamo, aveva ambientato la scena in un ambiente dalle colline dolcemente scoscese e arrotondate, a cui fa da sfondo un tramonto che non è quello stemperato dell’affresco del Banco Mediceo, poiché a differenza di questo, presenta un contrasto più netto tra i colori caldi del sole ancora presente e quelli freddi della notte incombente, attraverso pennellate orizzontali di luce, parallele tra loro, su un cielo reso per larghe campiture.

Ed è interessante notare come circa un secolo dopo, Jacopo Bassano nella sua Crocifissione, riprende in considerazione alcuni elementi presenti nel dipinto del Foppa, ma al tempo stesso ne modifichi drasticamente altri. Rimane nella tela del Bassano il contrasto tra il blu della notte nella parte bassa del cielo e gli aranci e i marroni della parte alta, nonché l’andamento orizzontale delle pennellate; viene altresì modificata la resa delle nuvole, più vaporose anziché diradate e nette nella loro definizione.

V. Foppa, Tre crocifissi, 1456, tempera
su tavola, Accademia di Carrara, Bergamo
J. Bassano, Crocifissione, 1562,
olio su tela, Museo Civico, Treviso

Ma la sintesi dei due pittori analizzati, è riscontrabile agli inizi del XVI secolo nel massimo esponente della pittura tonale veneta: Tiziano. Osservando il Polittico Averoldi, che regna nella Chiesa dei Santi Nazario e Celso a Brescia, è interessante vedere come siano presenti gli elementi base presi in considerazione nelle opere del Foppa e del Bassano (la cui opera è più tarda di quella di Tiziano): simile al primo è la resa della parte bassa del tramonto del polittico (presente anche in altre opere del Tiziano come il Ritratto di Carlo V a cavallo), simile al secondo è quella nuvolosa della parte alta, per quanto, sia notevole l’influsso giorgionesco.

Tiziano, Polittico Averoldi, 1520, olio su tela,
Chiesa di San Nazario e Celso, Brescia
Tiziano, Ritratto di Carlo V a cavallo, 1548,
olio su tela, Museo del Prado, Madrid

Domenichino, Riposo di Venere, XVII sec., olio su tela,
 Ermitage Museum, San Pietroburgo
Si veda infatti la Venere dormiente del Giorgione, datata 1508, le cui nuvole volumetriche e ovattate disegnano forme similari a quelle di Tiziano. Il tramonto che fa da sfondo alla tela, è qui necessario perché parte integrante del racconto: il riposo del sole, concilia con quello della dea, in un tripudio di colori caldi che sfumano l’atmosfera, il paesaggio e la pelle della Venere. Ed è la stessa idea che toccherà il Domenichino circa un secolo dopo, quando raffigurerà una Venere adagiata e attorniata da putti, in procinto di riposarsi cullata da un tramonto che è un armonioso fondersi di azzurri del cielo ed aranci dei cirri e dei cumuli in piena campagna.

Giorgione, Venere dormiente, 1508, olio su tela, Staatliche Kunstsammlungen Gemalde Gallerie, Dresda
C. Lorrain, Porto con villa Medici,
1637, Galleria degli Uffizi, Firenze
Anche il Domenichino si interessa infatti alla copia del paesaggio così come tanti suoi colleghi del secolo: il Seicento infatti come si sa, vede approfondirsi un interesse mirato allo studio degli spazi aperti fra i pittori fiamminghi, ma non solo: anche in Italia, soprattutto nell’area pontificia, si sviluppa questa nuova rivisitazione del genere. Tra i massimi esponenti vi è Lorrain, che in più di un’occasione si apre allo studio del tramonto nei suoi paesaggi italiani: si veda nello specifico Porto con Villa Medici, del 1637. Quello che spicca immediatamente, decentrato ma punto luce della tela, è il sole ormai tangente allo specchio d’acqua, dal quale si dirama una luce omogenea che sfuma nell’azzurro del cielo e illumina le nuvole relegandole un volume delicato.

Rembrandt, Il mulino, 1650 ca, olio su tela,
National Gallery of Art, Washington
Ovviamente però, parlando di pittura paesaggistica del Seicento, non si può non tenere in considerazione Rembrandt; in particolare del suo meraviglioso dipinto de’ Il mulino.
Il paesaggio è semplice quanto maestoso: su una rupe a strapiombo su un lago, si erge maestoso un mulino di tre quarti, fiero delle sue quattro eliche. A chiudere l’armonia del quadro un tramonto “stratificato” perché luminosissimo nella parte centrale, molto più cupo e spento in quelle periferiche della tela, che si apre a grosse nubi scure.

Un soggetto che un giovane Mondrian riprenderà nel 1907, riproponendolo nella sua tela Mulino di sera. Per quanto l’impostazione del soggetto paia similare a quella di Rembrandt, cambia in Mondrian la concezione del tramonto, vista da questo come un’esplosione armoniosa di calda luce: il tramonto di Mondrian è poetico, tiepido, atmosferico nei leggeri tocchi di colori caldi accostati ad un bianco comunque sempre presente. Infine le sagome degli uccelli fanno da nitido contrasto al cielo, rendendo quest’ultimo ancora più luminoso di quanto dovrebbe apparire.

P. Mondrian, Mulino, 1907, olio su tela, Geemente Museum, L’Aja

Tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX, in pieno clima neoclassico e romantico, anche il tramonto diventa un simbolo cromatico del sentimento storico del tempo. È chiaro in Angelica Kauffman, che nel ritratto di Francesco e Alessandro Papafava, rappresenta un tramonto fatto di rosa, viola, blu luminosi che si fondono tra loro a creare un’atmosfera intimista e romantica; è ancora più chiaro nall’Allegoria della Russia di Veit, che trascina nella sua idea di tramonto, le stesse cromie e gli stessi effetti che sono stati della Kauffman, che sono in genere della pittura tedesca.

A. Kauffmann, Ritratto di Alessandro e Francesco Papafava,
1803, olio su tela, Palazzo Papafava, Padova
P. Veit, Allegoria della Russia, 1840, olio su tela,
Ermitage Museum, San Pietroburgo
L’idea di tramonto quindi, come fattore utile a rivelare un sentimento, come simbolo di un sentire comune o di un avvenimento. È quanto accade peraltro nella Zattera della Medusa di Gericault, in cui la tragedia della nave coloniale si apre ad una visione tragicamente drammatica e cruda in cui la morte e la disperazione sono le protagoniste assolute. Il tramonto qui, con i suoi colori, non solo fa da triste cornice cromatica al triste avvenimento, ma quasi ne preannuncia la tragedia, simboleggiando esso per primo una fine: quella del sole, che è vita, e l’irruento intercedere della notte, che è buio, notte, oscurità.

T. Gericault, La zattera della Medusa, 1818, olio su tela, Museo del Louvre, Parigi

J. F. Millet, L’Angelus, 1858,
olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi
Il tramonto visto come fine della giornata, fine di un momento, sarà ripreso quarant’anni dopo da Millet nel suo L’Angelus, un dipinto dai forti connotati sacrali. Quello di Millet però, non è un tramonto esplosivo come quello di Rembrandt, né caldo come quello di Lorain, né romantico come quello di Veit: è un tramonto intimistico, educato e silenzioso. In punta di piedi, arriva e sancisce la fine della giornata dei due contadini che vivono alla giornata e vivono secondo la giornata: la loro sveglia coincide con l’alba, il pranzo con il sole alto nel cielo, e la fine dei lavori con il tramonto e la recita dell’Angelus, secondo un incastro solido ed una convivenza  equilibrata tra religione e natura.

V. Van Gogh, Seminatore al tramonto, 1888,
olio su tela, Museo Kroller Muller, Otterlo
Al dipinto di Millet si rifà Van Gogh nel suo Seminatore del Museo Koller Muller di Otterlo. Dal primo, il pittore olandese riprende la concezione della sacralità del lavoro nei campi, ma nulla di più. Perché il tramonto di Van Gogh è esplosione di vita, è l’irradiamento materico e vigoroso della luce emanata  dal centrale disco d’oro, che sfuma nella bionda distesa di grano. Il seminatore di Van Gogh non sembra accettare serenamente la fine della giornata come quello di Millet, ma pare non curarsene per continuare pacificamente il suo lavoro: d’altronde come potrebbe con un gioco di luci e calore così intenso?

E. Munch, L’urlo, 1893, olio su tela,
Galleria Nazionale, Oslo.
In fondo ogni pittore ha visto nel tramonto l’interpretazione che meglio ha preferito. E se per Millet il tramonto è la dolce fine di una serena giornata e per Van Gogh è l’esplosione di luce prima della notte, per Munch il tramonto è stato la rivelazione della sua angoscia esistenziale.
Infatti, celeberrimo è il suo dipinto de’ L'Urlo, che questo eseguì nel 1893, il cui protagonista fermo su un ponte, emana un urlo lancinante:
 “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.” 
Ben chiare allora, a lettura della descrizione, diviene l’atipica resa del tramonto, attraverso larghe pennellate ondulate di gialli, rossi e azzurri.


In totale antitesi Lusso Calma e Voluttà di Matisse, dipinto circa dieci anni dopo l’Urlo. In perenne ricerca della luce ideale, approdato sulle coste del sud della Francia, Matisse dipinse questa tela cercando di assorbire le influenze di Seurat per quanto riguarda la tecnica del puntinismo, e di Manet e Cezanne per quello dei soggetti (La colazione sull’erba del primo e le bagnanti del secondo). E Lusso Calma e Voluttà è il suo esperimento riuscito, l’esatto connubio tra la luce ideale – quella del tramonto – e il soggetto giusto, per arrivare al concetto di armonia, felicità e tranquillità, in un accostamento metodico di lingue di colore gialle, rosa, viola, rosse e azzurre, al fine di rappresentare quel luogo dove, come recita la poesia di Baudelaire a cui si era ispirato il pittore: “..tutto è ordine e beltà, lusso, calma e voluttà”.

H. Matisse, Lusso, Calma e Voluttà, 1904, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi

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martedì 2 settembre 2014

La rappresentazione del giorno nella storia dell'arte

Giardino del ninfeo della Villa di Livia, 40 d.C., 
affresco, Museo Nazionale Romano, Roma.
La lettura dell’info riguardo la mostra che si terrà alla Basilica Palladiana di Vicenza dal 24 dicembre 2014 al 15 giugno 2015 dal titolo “TUTANKHAMON, CARAVAGGIO, VAN GOGH. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento”, mi ha fatto riflettere circa un percorso che illustrasse l’evoluzione della resa (pittorica) delle diverse fasi del giorno nel corso della Storia dell’arte. Perché così come i diversi soggetti e temi già trattati, anche l’effetto climatico atmosferico ha avuto un forte ascendente nella fortuna critica di diverse opere d’arte se non proprio si è rivelato quale aspetto fondamentale di una determinata corrente artistica (vedi la pittura tonale veneta rinascimentale).

Trattando del tema del giorno in questa svirgolettata, inteso come arco di tempo che vede la nascita e la presenza del sole alto nel cielo, non posso che creare un preambolo molto sintetico che vede il difficile riscontro di una resa atmosfericamente “giornaliera”, negli affreschi e nelle pitture parietali delle civiltà classiche: vale uno per tutti, l’affresco raffigurante un giardino, originariamente sito nel ninfeo di Villa Livia e attualmente staccato e custodito a Palazzo Massimo a Roma, che vede l’innalzarsi delle foltissime e verdi piante su una distesa di un azzurro accesso, che relega piattezza e uniformità all’idea di cielo che l’artista voleva raffigurare.

Buon Pastore con il gregge, V sec., mosaico,
Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna
Una situazione che con l’arte paleocristiana vede un’evoluzione non solo cromatica, ma anche temporale. Perché seppur vero che si riscontrano mosaici che vedono la collocazione di un soggetto o di un evento in un periodo giornaliero definito dalla chiarezza di un cielo limpido, come nel mosaico del Buon Pastore con il gregge nel Mausoleo di Galla Placidia, in Europa si va ormai delineando un elemento di stampo bizantino che si trascinerà per circa un millennio: lo sfondo oro, colore nobile dal triplice scopo: rendere più luminosi mosaici e pitture, annullare l’idea di spazio e tempo, donare ieraticità e sacralità ai santi raffigurati: un esempio fra tutti, rimanendo a Ravenna, la Trasfigurazione con Sant’Apollinare nel catino absidale della basilica omonima.

Trasfigurazione con Sant’Apollinare e il gregge, VI sec.,
 mosaico, Basilica di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna
È nel pieno basso medioevo, con l’avvento della pittura di carattere “latino”, che torna a farsi spazio l’idea di giorno vista come cielo azzurro e laddove possibile, sole giallo. Giotto, ad esempio, nel ciclo delle Storie di San Francesco nella Basilica di Assisi, semplifica il cielo come larghe campiture di toni diversi di azzurro, non discostandosi di molto dalla resa romana vista nell’affresco del giardino di Villa Livia. Sicuramente più avvincente è quello che fa Maestro Venceslao invece nel suo Ciclo dei Mesi nel Castello del Buon Consiglio a Trento, circa un secolo dopo: negli undici pannelli affrescati (il mese di marzo era stato dipinto su una tavola, andata persa durante un incendio), è di grande effetto la presenza del sole stilizzato come un cerchio argenteo con punte serpentinate, che fa da protagonista su un cielo di un blu molto intenso.

Giotto, La rinuncia ai beni paterni, 1295 – 1300,
affesco, Basilica di San Francesco, Assisi. 
Maestro Venceslao, Ciclo dei Mesi, 1400,
affresco, Castello del Buonconsiglio, Trento

La stessa iconografia che riprende poi il Bramantino agli inizi del 1500 nelle sue opere: il sole del pittore lombardo però, perde le punte serpentinate per acquistare fattezze antropomorfe. Così accade nel Ciclo dei mesi, dal cui cartone per l’arazzo raffigurante il mese di luglio, si evince al centro del primo quadrante dell’opera un sole umanizzato, provvisto di occhi, naso e bocca e addirittura espressivo; così accade nella Crocifissione custodita nella Pinacoteca di Brera, che vede la compresenza durante il giorno non solo del sole – fisiognomicamente molto simile a quello del Ciclo dei mesi – ma anche la luna.

Bramantino, Il ciclo dei mesi - luglio, 1504, cartone d’arazzo,
Civici Musei del Castello Sforzesco, Milano
Bramantino, Crocifissione, 1501 – 1511,
olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano

J. Van Eyck, Polittico dell’agnello mistico (predella),
1426 - 1432, olio su tavola, Cattedrale di San Bavone, Gand
Negli stessi anni a Roma sono attivi Raffaello e Leonardo, che a differenza del Bramantino, rendono l’idea del giorno in modo sicuramente più verosimile. Entrambi attingono molto da quella che è la pittura paesaggistica fiamminga sviluppatasi nel Quattrocento, di cui esemplare degno di nota è Polittico dell’agnello mistico del Van Eyck nella Cattedrale di San Bavone a Gand (nel quale appare anche un sole reso splendidamente): il primo nell’armonia bicromatica del cielo azzurro e delle nuvole bianche vaporose - vedi la Madonna del Belvedere; il secondo nell’accordo tra paesaggio ed effetto atmosferico di stampo nordico – vedi la Monna Lisa e la Monna Vanna. Effetto che però non supera quello dei pittori veneti come Giorgione e Tiziano, maestri della pittura tonale atmosferica.

Raffaello, Madonna Belvedere, 1506, olio su
 tavola, Kunsthistorisches Museum, Vienna
           Leonardo, Monna Vanna            Leonardo Monna Lisa
             1510 ca, olio su tavola,           1503 - 1514, olio su tavola,
         Collezione privata, Svizzera.       Museo del Louvre, Parigi. 





Un’attenzione particolare, resa ancor più meticolosa dai pittori fiamminghi del XVIII secolo, che aprono ad una visione decisamente sublime del paesaggio, visto come un’armoniosa unione di colori, sensazioni e visioni prospettiche. La veduta di Deft di Vermeer è un masterpiece dell’artista, che oltre alla tela raffigurante la stradina della stessa città, non si era aperto allo studio dei paesaggi e delle vedute cittadine. Indiscutibile il talento con cui rappresenta gli edifici che si affacciano al fiume, inondati della luce del sole mattutino e scuriti dalle ombre dei lati non toccati; affascinante la resa ovattata delle nuvole: un tripudio di sfumature di diversi bianchi e grigi.

J. Vermeer, Veduta di Deft, 1660, olio su tela, Mauritshuis, L’Aja

J. Constable, Studio di nuvole, 1822, olio su carta,
The National Gallery of Victoria, Melbourne
Simile al suo modo di ritrarre il cielo mattutino nuvoloso è Constable, che nel 1822 si dà allo Studio delle nuvole: un olio su carta in cui è ben visibile lo studio meticoloso del cielo e delle nuvole che lo governano. Seppur mantenendo un effetto vaporoso tipico dei pittori fiamminghi del Seicento, Constable in questo dipinto consegna al cielo una volumetria non indifferente, ed un gioco di colori  che ben raccontano l’incontro delle nuvole con la luce del sole.

Canaletto, Il canal grande e la Chiesa della Salute,
1730, olio su tela, Collezione privata.
Diversa invece è la visione del cielo giornaliero del Canaletto, che in pieno Settecento rimane fedelissimo alla copia dal vero dei paesaggi (soprattutto veneti), pur consegnando al cielo un tocco di vigore: si veda nello specifico la tela raffigurante il Canal Grande e la Chiesa della Salute, sul cui sfondo si apre un cielo stratificato da nuvole caratterizzate da svirgolettate corpose che le rendono sin troppo materiche. Molto simile a quello del Canaletto sarà il cielo raffigurato da Monet nella tela de’ La passeggiata, in cui dietro la statuaria figura della moglie Camille, si erge un cielo azzurro contrassegnato da larghe e vigorose svirgolettate di un bianco “illuminato e scaldato” dalla presenza di un sole nascosto.

C. Monet, La passeggiata, 1875, olio su tela, National Gallery, Washington

V. Van Gogh, Olivi con cielo giallo e sole, 1889, olio su tela,
The Minneapolis Institute of Art, Minneapolis
Poetica è la visione di Van Gogh del cielo che si erge sull’uliveto da lui rappresentato, che vagamente ricorda nel suo effetto dorato la concezione di tempo indefinito bizantino; al centro del dipinto, in alto, si erge il sole, una fiera e magniloquente palla d’oro: da esso scaturisce tutta l’energia che inonda il quadro, sottoforma di leggere ma intense pennellate parallele alla circonferenza del sole, che trascinano da questo il calore ed il colore lucente dell’astro.


Quell’astro che permette la vita e che scandisce ciclicamente il tempo dell’uomo, nascendo e morendo ogni giorno, per poi rinascere ancora: una visione mistica quella dell’alba, ripresa da più pittori, tra cui Giuseppe Pellizza da Volpedo, che regala alla stella un’ode dipinta in cui proprio il sole è il protagonista assoluto, nel bagliore accecante della sua sfera luminosa e nello straripante calore emesso dai delicati raggi che inondano tutta la tela.  

G. Pellizza da Volpedo, The sun, 1904, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.