Visualizzazione post con etichetta Pierre Auguste Renoir. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Pierre Auguste Renoir. Mostra tutti i post

sabato 29 novembre 2014

Le bagnanti di Pierre Auguste Renoir: la bellezza che nasce dalla sofferenza

P. A. Renoir, Le bagnanti, 1918 - 1919, olio su tela, Musèe d'Orsay, Parigi. 

Pierre Auguste Renoir intento a dipingere
nel suo studio di Cagnes. 
Quando Pierre Auguste Renoir dipinse questo olio su tela, era ormai allo strenuo delle sue forze: quasi ottantenne, rimasto vedovo durante la guerra, viveva i suoi ultimi giorni trascinandosi dalla sua dimora al suo studio con l'aiuto di una carrozzella e dei suoi familiari. 

"Si lasciava trasportare come fosse un cadavere", scrisse a tal proposito Henri Matisse nel suo "Scritti e pensieri sull'arte", dopo essere stato ricevuto dal sommo artista nella sua tenuta di Les Collettes, a Cagnes, nella primavera del '19. 
Acciaccato, scarno, in più parti bendato e troppo paralizzato dall'artrite per riuscire a tenere un pennello, Renoir visse i suoi ultimi anni solo per dipingere, cosa che faceva ogni giorno attraverso un pennello legato ad una maniglia imbottita e incuneata tra il pollice e l'indice destro.

"Lo si poteva sorreggere abbastanza facilmente con una sola mano", scriveva ancora Matisse circa la sua debolezza, "ma i suoi occhi rivelavano tutta la vita ancora presente in corpo."
Tant'è vero che, assistendo al suo lavoro, lo stesso pittore affermò di Renoir che, vederlo approcciare alla pittura, vederlo rianimarsi nonostante il lacerante dolore che si tramutava in qualche smorfia ed in qualche lamento, era come guardare la morte che prendeva vita. 

"Il dolore è passato, Matisse, ma la bellezza rimane" fu quello che Pier Auguste Renoir affermò candidamente a Matisse con un sorriso radioso per giustificargli la sua ostinazione a dipingere nonostante la sofferenza provocatagli dalla cosa, e ancora in quell'occasione gli confidò che intendeva vivere finché non avesse finito il suo ultimo canto d'amore: Le bagnanti.
E così fu: nel dicembre dello stesso anno, dopo aver terminato il dipinto, il sommo pittore morì, portando con sé quanto ancora di più bello avrebbe potuto creare.

mercoledì 2 luglio 2014

Il gatto nella storia dell'arte

Gatto di Gayer – Anderson,
VII – IV sec.
A.C., bronzo,
 British Museum, Londra
L’amore per i gatti si perde agli albori delle prime civiltà riconosciute. Per gli egizi, questi assunsero persino un valore divino: basti pensare alla dea Bastet, impersonata proprio dal gatto (in alcune varianti anche dalla personificazione antropomorfa di una gatta). D’altronde non era poi così strano che un gatto fosse visto come un elemento divino, dato che questi padroneggiavano ogni casa, tempio ed edificio, con lo scopo di salvaguardare chi ci abitava dalla presenza dei topi. La statua bronzea del Gatto di Gayer - Anderson, conservata al British Museum, ben testimonia questo attaccamento votivo del popolo egizio al gatto: in una posa regale ed austera, la dea gatta Bastet, munita di orecchini pendenti e anello al naso d’oro, longilinea ed anatomicamente perfetta, osserva - quasi supervisiona - quelli che erano gli abitanti della struttura in cui fu rinvenuta.

Xenia - soggetto di gatto, II sec. A.C.,
 mosaico, Museo Archeologico, Napoli
Già trascinandosi avanti con le civiltà greca e romana, devote ad un politeismo di stampo antropomorfo, il gatto perde di quella divinità acquisita con gli egizi, per ridimensionarsi a semplice animale domestico, il cui compito principale non cambia: quello di cacciare topi. Nel mosaico dello Xenia con soggetto di gatto, proveniente dalla Casa del Fauno di Pompei e conservato attualmente al Museo Archeologico di Napoli, ben si evidenzia la spensieratezza del gatto, intento ad agguantare un uccello. È strabiliante la resa precisa dell’animale domestico nel suo manto striato e nell’azione della cattura: gli occhi sgranati, le zampe posteriori indietro per darsi lo slancio e quella anteriore sinistra sul collo dell’uccello.

Pantaleone, Raffigurazione di gatto, 1165, mosaico,
Cattedrale di Santa Maria Annunziata, Otranto
Un altro mosaico raffigurante un gatto rossiccio, è riscontrabile nella Cattedrale di Otranto. Esso fa parte di un ciclo musivo che decora interamente il pavimento dell’edificio religioso, voluto nel 1163 - 1165 dal vescovo della città ed eseguito dal monaco Pantaleone. Come si può notare, l’esecuzione del Gatto di Otranto perde quella perfezione raggiunta con i romani e dimenticata a seguito delle orde barbariche, a vantaggio di una resa più semplicistica e stilizzata. Secondo alcuni pareri, quello raffigurato potrebbe non essere un gatto, ma una lonza, felino molto simile al suo parente domestico. Ad ogni modo è interessante notare come l’animale sia stato in alcuni punti “umanizzato”: le zampette diventano mani, gli occhi diventano amigdaloidi,  addirittura su due zampe indossa un paio di calzature.

G. Romano, Madonna della gatta, 1523,
olio su tela, Museo di Capodimonte, Napoli
Con l’avvento della pittura cosiddetta moderna (da Giotto in poi per intenderci) è molto più riscontrabile la presenza del gatto nei dipinti degli artisti, soprattutto quelli di stampo religioso. Ne sono esempio le diverse madonne, talvolta rinominate “della gatta” per via dell’animale presente.
Una gatta che non sempre è il soggetto protagonista del quadro o è ben visibile nella composizione, ma che, per via di un particolare atteggiamento o di una particolare curiosità trasmessa, diviene il punto d’attenzione.

È così ad esempio nella Madonna della gatta di Giulio Romano, conservata a Capodimonte. La scena è complessa, perché si apre a diversi ambienti di un edificio abitativo, nel migliore dei giochi prospettico - volumetrici, e vede protagonisti una Sacra Famiglia con Sant’Anna in primo piano assieme alla Vergine, il Bambino e il San Giovannino, e Giuseppe ben visibile in un'altra stanza, attraverso una porta aperta. Tutto sembra tranquillo e appartenente ad un mondo che non ci riguarda e di cui siamo solo passivi spettatori, se non fosse per il gatto ai piedi della vergine, in basso sulla destra, che fissandoci con uno sguardo scettico e profondo, ci coinvolge completamente nella scena.

F. Barocci, Madonna della gatta, 1598, 
olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Non accade lo stesso nella Madonna della Gatta di Federico Barocci, dove l’ambiente raccontato è molto più colloquiale e scenico di quello di Giulio Romano. Quello che nel primo dipinto era il ruolo della gatta, adesso è del San Giovannino, mentre proprio la gatta ha un ruolo di protagonista, trovandosi al centro della tela, stesa nel suo splendido manto grigio, in contrasto con il tessuto rosa della Madonna. È una gatta, quella del Barocci, consapevole di essere la padrona degli ambienti in cui abita, amata dagli altri coinquilini e ormai abituata alla presenza di tutte quelle persone.

Tutt’altro fa Lorenzo Lotto nella sua Annunciazione di Recanati, ambientata anch’essa negli interni della casa di Maria. Tutto è da racconto del Vangelo: Maria serena riceve l’arcangelo annunciante la buona novella con la supervisione di Dio (su una nuvola come nel Dio de’ La creazione di Adamo di Michelangelo). Ma quel che è da notare è la reazione del gatto accanto all’Arcangelo, che, spaventato visibilmente dal suo arrivo, non riconoscendone l’entità fugge a zampe levate guardandosi indietro.


L. Lotto, Annunciazione di Recanati, 1534, olio su tela, 
Museo Civico Villa Colloredo Mels, Recanati. 

Un atteggiamento animalesco, perché in fondo di animali si tratta, seppur addolciti dalla vita domestica. Lo sa bene Francisco Goya, che nel suo dipinto degli anni ’80 del Settecento, raffigura due gatti intenti a litigare tra loro. Tutto racconta uno studio mirato del pittore, agli atteggiamenti dei due felini irati: la schiena esageratamente arcuata, le zampe irte, il muso spalancato con denti in bella vista, quasi si potesse sentire il miagolio fastidioso, lo sguardo sbarrato che avvisa dell’aggressione pronta per essere sferrata.


F. Goya, Due gatti che litigano, 1786, olio su tela, Museo del Prado, Madrid

E. Manet, Olympia, 1863, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi
Oltre a Goya anche altri pittori si lasciano andare al racconto del gatto nella sua quotidianità, nei suoi istinti animaleschi. Lo racconta Edouard Manet nella sua Olympia, dove un gatto nero si erge sul letto della donna sensuale. Anche questo, sembra irritato da quanto gli sta accadendo intorno: la sua posa è sull’attenti, con il posteriore ben più sollevato della zona anteriore, gli occhi aperti, la coda in alto e il pelo rizzato. E ancora Pablo Picasso, nel suo Gatto che divora un uccello del 1939, racconta di un animale che si lascia andare al suo istinto bestiale, che, ben saldo al suolo con i lunghissimi artigli, squarta un uccello, affamato più che mai.


E. Manet, Olympia (part.),
1863, olio su tela, Musèe
d’Orsay, Parigi
P. Picasso, Gatto che divora un uccello, 1939, 
olio su tela, Musèe Picasso, Parigi. 

Oltre che come soggetto di un quadro e in un quadro, il gatto diviene parte essenziale anche della ritrattistica a tema. Diverse sono le tavole e tele che raffigurano personaggi di spicco della società del loro tempo, o semplici modelli, posare con il gatto in grembo o tra le braccia. Due esempi su tutti sono la Dama con il gatto di Francesco Bacchiacca, e la Julie Manet con il gatto, di Pierre Auguste Renoir.

La prima è ritratta di profilo, con lo sguardo ammiccante verso lo spettatore, consapevole della sua beltà e della meraviglia dei suoi abiti e dei suoi gioielli. È il gatto che tiene tra le braccia, dimostra la stessa sensualità della sua padrona, accavallando le zampette quasi come se fosse stato educato a farlo, smuovendo leggermente la testolina verso un lato e guardando con occhi sornioni anch’esso lo spettatore. La seconda racconta di una ragazza molto più ingenua, un’adolescente, che nella dolcezza del suo volto sereno, mostra piacevolezza ad accarezzare il gatto tigrato che ha tra le braccia; gatto che ricambia la sensazione positiva, contraendosi in smorfie di piacere.


F. Bacchiacca, Dama con gatto, 1525,
 olio su tavola, Collezione privata, New York
P. A. Renoir, Ritratto di Julie Manet con il gatto,
1887, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi

Il dipinto ricorda non poco nell’impostazione della ragazza, la ritrattistica cinquecentesca della dama accompagnata da un animale tenuto tra le braccia. Nella fattispecie due dame, entrambe però munite di un animale atipico o persino fantastico: la Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci e la Dama con il liocorno di Raffaello. Particolarmente il primo animale ricorda però l’eleganza e l’anatomia longilinea del felino, che segue quella della sua padrona, sinuosa nelle sue magre forme.


Leonardo, Dama con l’ermellino, 1489,
olio su tavola, Castello di Wawel, Cracovia
Raffaello, Dama con liocorno, 1505,
olio su tavola, Galleria Borghese, Roma

T. A. Steinlen, Tournèe
du Chat Noir avec
Rodolphe Salis, 1896,
 litografia, Zimmerli Art
 Museum, New Brunswick
La sinuosità di un corpo agile e longilineo in fondo è sempre stato il riconoscimento del gatto; elementi che convergono tutti, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nelle opere d’arte contemporanee francesi e tedesche. Si paragonino ad esempio il poster di Theophile Alexandre Steinlen della Tounèe du Chat Noir, con il Gatto nero di Ernst Ludwig Kirchner: entrambi i soggetti sono gatti neri, fieri della loro possanza e del loro carattere. Il gatto de’ Tournèe du Chat Noir, ha uno sguardo più malizioso, aiutato dall’andamento verticale delle sopracciglia finissime, dal pelo irto e dagli artigli rifiniti; il gatto nero di Kirchner invece, nelle sue forme un po’ più burrose e nella dolcezza del suo sguardo dai tratti mistici, ricorda non poco la statua egizia di Gayer - Anderson.





E. L. Kirchner, Gatto nero, 1926,
olio su tela, collezione privata
Gatto di Gayer – Anderson, VII – IV sec. A.C.,
bronzo, British Museum, Londra

M. Chagall, Parigi dalla finestra, 1913, olio su tela,
Peggy Guggenheim Museum, Venezia
Ma il gatto è stato anche fonte di studi mirati a carpirne il lato più astratto della sua personalità. Già con Picasso abbiamo visto come il suo Gatto che divora l’uccello, sia fortemente stereotipato nella sua natura animalesca. Con Marc Chagall invece, assistiamo all’esatto contrario: l’umanizzazione del gatto. Si veda nello specifico la tela de’ Parigi dalla finestra, in cui il gatto all’esatto centro della composizione, mostra un viso ed una malinconia di stampo umano, quasi come fosse una nuova creatura mitologica contemporanea, che mischi i sentimenti dell’uomo alla natura zingara ed indipendente del gatto.

E ancora, Andy Warhol, che si divertì ben bene a ritrarre il gatto Sam, colorandogli il manto e gli occhi di diverse tinte. Nella serie omonima, si può ravvisare come lo stesso gatto passi dal rosa acceso all’arancio ed i suoi occhi si colorino di viola, giallo e rosso. In fondo Andy Warhol fu quell’artista che serigrafò con diverse tonalità grandi personalità dello spettacolo come Marylin Monroe e Liz Taylor, quindi perché non fare lo stesso con il gatto Sam?  


A. Warhol, (4 esempi di) Sam cat , 1954, litografie, Sims Reed Gallery, Londra
Post correlati:

mercoledì 6 novembre 2013

La danza nella storia dell'arte

Wikipedia definisce la danza come “un'arte performativa che si esprime nel movimento del corpo umano secondo un piano prestabilito o improvvisato detto coreografia”.
Sicché, scorporando la frase in termini concreti, è importante notare che la danza non entra nella sfera dell’arte, ma è essa stessa arte: arte che si esplica in una performance dettata dal movimento del corpo.

Tribù africana esegue danza rituale 
Inutile delineare l’importanza che, quindi, l’arte della danza ha avuto sul piano sociale di ogni civiltà che sin dall’alba dei tempi ha abitato la Terra; ancora oggi, etno - antropologicamente parlando, essa è un elemento essenziale per centinaia di tribù e popoli che basano i loro rituali sull’attuazione di balli e movimenti ritmici.

Anche sul piano della storia dell’arte però, la danza ha goduto di un suo percorso, che non sempre è stato costante e ha seguito dettami lineari: dalle civiltà classiche sino ai giorni nostri, è infatti possibile notare l’evoluzione del ballo che, dall’essere arte di performance nell’arte (la danza raffigurata in dipinti e sculture per intenderci) diviene addirittura arte di performance nella performance. Un’arte di performance2 per intenderci.

Già nelle civiltà greca, classica per eccellenza, notiamo la raffigurazione della danza sia nell’arte vascolare, che pittorica murale e scultorea. La danza raffigurata dai greci nelle loro opere era tendenzialmente rituale ed orgiastica; donne ballavano schematicamente muovendo gli arti al suono dei musicisti o si mischiavano a uomini in una coreografia molto lineare ma allo stesso tempo energica: la stessa energia per altro è ravvisabile nel Satiro danzante di Mazara del Vallo, scultura ellenica del III – II secolo a.C., che trascinato dalla musica e dal coinvolgimento dei riti dionisiaci sembra concedersi anima e cuore gettando in avanti il corpo e lasciando indietro gli arti.

Vaso attico, Danza di figure mitologiche. 
Autore ignoto, Satiro danzante, III - II sec. a.C.,
Museo del Satiro danzante , Mazara del Vallo. 

Danzatrice nuda, II sec. a.C., affresco, Pompei
Anche la danza nell’arte romana risente ovviamente della greca; cosa non così strana se si considera che i romani erano soliti assimilare la cultura e le tradizioni dei paesi che assoggettavano al loro potere. Ma quella romana diventa una danza non solo erotica, orgiastica ed extrasensoriale, ma anche sensuale, elegante, eterea, così come è possibile notare dalla danzatrice nuda, protagonista di uno degli affreschi di Pompei, che si esibisce accompagnata da una stoffa leggera ed avvolgente a creare giochi di linee e movenze.

Saltando un millennio di “assestamento” (crollo dell’impero, avvento dell’arte barbarica e della bizantina – una pittura quest’ultima, decisamente statica e ieratica a differenza di quella che arriverà nel XIV secolo con Giotto, definita latina) la danza nell’arte va a raffigurarsi come l’insieme di corpi a creare movimenti e climi armoniosi.

L. della Robbia, Cantoria (formella part.)
1431, marmo, Santa Maria del Fiore, Firenze
Questo è ben visibile in tre composizioni molto simili tra loro: l’affresco raffigurante il Buon Governo che Ambrogio Lorenzetti eseguì nel 1339 nel Palazzo Pubblico di Siena; la formella della Cantoria che Luca della Robbia scolpì per Santa Maria del Fiore tra il 1431 ed 1438, e l’olio su tavola della Danza di Apollo con le muse, che Giulio Romano dipinse agli inizi del XVI secolo, conservato oggi a Palazzo Pitti a Firenze.

A. Lorenzetti, Buon Governo, 1339, affresco, Palazzo Pubblico, Siena

G. Romano, Danza di Apollo con le Muse, inizi XVI sec., pittura su tavola, Palazzo Pitti, Firenze. 

Armoniosa però non sembra essere la danza raffigurata nei dipinti del nord europa, qui vista come un elemento di coinvolgimento popolano e di sfogo dai problemi quotidiani: nella Danza Nuziale di Pieter Bruegel del 1556 e nella Danza di Personaggi mitologici di Pieter Paul Rubens del 1635, la danza diviene un momento di gioia e festa, che ritrova un tempo e uno spazio più reale di quelli raffigurati negli stessi secoli dai pittori italiani.

P. Bruegel, Danza Nuziale, 1566, olio su tavola
Detroit Institute of Arts, Detroit.  
P. Rubens, Danza di Personaggi mitologici, 1635,
olio su tela, Museo del Prado, Madrid 

A. Canova, Danzatrice con i cembali, 1812,
Gipsoteca di Possigno, Possigno
Con l’affermazione del Neoclassicismo, che si ripropone di riprendere in considerazione lo stile artistico delle civiltà classiche, anche la danza torna ad essere tema di studi. Antonio Canova, per la sua  Danzatrice con i cembali, scolpita nel 1812 e custodita nella Gipsoteca di Possagno, fonde la perfezione della statuaria greca con la sensualità della danza della civiltà romana: una rielaborazione necessaria a rendere la sua creazione quasi divina nei movimenti eleganti e leggiadri. Per onestà intellettuale va chiarito che le braccia sono state aggiunte solo dopo il 1917, basandosi comunque su documentazioni ed assecondando lo stile dello scultore veneto.

Le stesse componenti di leggiadria ed eleganza, le riprende di lì a mezzo secolo Edgar Degas con le sue ballerine: una tra tutte, L’Etoile del 1878, ben si presta al gioco di cui era capace l’artista impressionista, volto a fondere la figura della ballerina con la restante composizione. La ballerina classica quindi diviene eterea e leggiadra perché si fonde attraverso i veli di tulle indefiniti con la realtà circostante.
Il concetto di Degas in fondo fu quello di molti artisti della nuova corrente che spezzava con la visione accademica dell’arte, basti pensare a Pierre Auguste Renoir, che nel 1874 dipinse la sua Ballerina, che non si discosta per nulla dalla visione di Degas sul tema.

E. Degas, L'Etoile, 1878, olio su tela,
Musèe d'Orsay, Parigi. 
P A. Renoir, Ballerina, 1874, olio su tela,
National Gallery of Art, Washington.

H. Matisse, La danza, 1909, olio su tela, Ermitage Museum, San Pietroburgo
Ma a partire dal primo decennio del Novecento, con l’avvento del Fauvismo e dell’Espressionismo, le due prime avanguardie del colore e delle forme, Henri Matisse ed Emil Nolde negli stessi anni riproposero un nuovo concetto di danza. 
La danza raffigurata da Matisse nell’omonimo dipinto del 1909, sito all’Hemitage, è un’esecuzione armoniosa ma allo stesso tempo viva. I colori accesi, le figure in movimento e lo trascinamento emozionale delle figure, raccontano un rituale che vuole rappresentare la vita e la semplicità di godere delle cose belle.

E. Nolde, La danza attorno al vitello d'oro, 1910,
olio su tela, Staatsgalerie moderner Kunst, Monaco di Baviera. 
E ancora La danza attorno al vitello d’oro di Nolte, del 1910, è un’esplosione di colori e vitalità che sfocia quasi nella brutalità. Le donne nude sembrano saltare euforicamente quasi fossero tarantolate; le svirgolettate vigorose di colore accompagnano i movimenti e li accentuano, le tinte forti rendono il tutto mistico e angosciante.

In questi stessi anni però, la danza non trova un nuovo senso solo con i pittori contemporanei, ma addirittura, come anticipato nella premessa, diviene essa stessa arte di performance al quadrato con Isadora Duncan, la danzatrice che dei veli fece la sua fortuna e la sua morte.

A distanza di un secolo anche la nota artista montenegrina Marina Abramovic ha dedicato una sua performance all’arte performativa per eccellenza. Nel luglio 2013, la performer ha infatti danzato su una pedana bianca al centro di una sala della Pace Gallery di New York, per sei ore assieme al rapper Jay-Z, sulle note dell’ultimo singolo del secondo, Picasso Baby, dimostrando così concretamente, che la danza non è un subordinato dell’arte, ma è essa stessa arte in tutto e per tutto. 

venerdì 27 settembre 2013

La grassezza nella figura femminile dell'arte

Nell’arte la figura della donna ha da sempre avuto un’importanza incredibile; raffigurata in tavole, tele, sulle pareti e a tutto tondo in blocchi di porfido o stampi di bronzo di ogni periodo artistico, questa ha visto un’evoluzione legata non solo alla fisionomia ideale ma anche allo status attribuitale.

Kate Moss, stereotipo della donna
moderna filiforme.
Già mi ero occupato di raccontare precedentemente il ruolo della donna nell’arte. In due articoli complementari avevo analizzato il senso di bellezza e di bruttezza riscontrabile nelle donne di ogni epoca artistica: ed in ognuno di essi queste caratteristiche o il senso dato a questi due fattori erano correlabili all’evoluzione della società nei secoli dei secoli, se non proprio vedevano modificarsi nel trapasso tra arte moderna ed arte contemporanea.

Con un occhio critico quanto basta per analizzare la questione, questa volta proverò ad incentrare il discorso sulla grassezza della donna nella storia dell’arte.
Oggi tendiamo senza dubbio a riconoscere nelle donne magrissime lo stereotipo di  bellezza assoluta: non è un caso che la taglia perfetta sia da riscontrarsi in una 38 – 40, che induce chi ambisce a queste misure a dimagrire sino ad ottenere un vitino di vespa.

Eppure la sensualità della donna non è sempre stata legata allo stereotipo della magrezza assoluta, anzi al contrario, come riscontrato dalle civiltà preistoriche che ci hanno lasciato in eredità le loro statuette raffiguranti donne presentanti caratteristiche di steatopigia, la donna perfetta del loro tempo era quella che presentava un adipe pronunciato su seno, cosce, fondoschiena ed addome.

Come nel caso della conosciutissima Venere di Willendorf, una statuetta in pietra calcarea oolitica, presente al Naturhistorisches Museum di Vienna, che nella sua burrosità esagerata, l’ingrossamento sproporzionato della vulva, delle cosce e del seno, ben raffigura l’ideale della madre terra fertile, venerato dalle tribù paleolitiche; caratteristiche confermate già nella più antica Venere di Savignano del Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini a Roma.

Venere di Willendorf, 25.000 a-C., pietra calcarea, 
Naturhistorisches Museum, Vienna
Venere di Savignano, 35.000 a.C., serpentino,
Museo Nazionale Preistorico Etnografico Pigorini, Roma.

Danzatrice nuda, II sec. a.C., affresco, Pompei
E ancora la stessa tipologia di donna burrosa, seppur priva di un’esagerazione così pronunciata si può riscontrare cavalcando i secoli, nella statuaria greca e romana, nonché negli affreschi: a Pompei, tra le diverse pitture murali, ne spuntano alcune che inneggiano ad una donna proporzionata nelle forme ma dal fondoschiena ben pronunciato, così come le cosce.

Infatti, si può ben dire che la donna ideale, dalle civiltà classiche sino ai primi anni dell’arte contemporanea, abbia sempre presentato quelle rotondità così dolci e morbide, da relegare al corpo un senso di divinità, tanto ambito dai pittori.

Cosa riscontrabile percorrendo i secoli a cavalcate lunghe, nel Ratto di Proserpina del Bernini, sito a Galleria Borghese: le mani con cui Plutone afferra Proserpina con impeto, si affossano nelle carni della fanciulla, dando a chi la ammira, una sorta di sensazione per cui il marmo si trasforma in una materia malleabile e plastica.

G. Bernini, Ratto di Proserpina, 1621 - 1622,
marmo, Galleria Borghese, Roma. 
G. Bernini, Ratto di Proserpina, particolare. 

Di lì a due secoli, passando per un Settecento, per lo più rigoroso e rococò nelle sue vesti, negli artifizi esagerati delle parrucche, dei pizzi e dei merletti, l’Ottocento vide l’esploit della grassezza nella figura della bagnante, un tema affrontato da diversi pittori, tra cui Ingres e Renoir.

Il bagno turco di Ingres è un’apoteosi alla morbidezza delle donne che, lontane dagli occhi degli uomini, si confidano segreti, si denudano e lasciano respirare la loro pelle candida. Ovunque è sinuosità; ognuna di loro con un movimento, una posizione, disegna le curve perfette per la società di allora, che vedeva nella donna dipinta elementi di soprannaturalità.

Allo stesso modo la bagnante bionda di Renoir racconta la dolcezza infinita dell’adolescente dal seno prosperoso e dal fisico gonfio, in un atteggiamento tanto regale nella sua nudità quanto leggermente pudico nell’accostamento del lenzuolo sulle gambe.

J.A.D. Ingres, Il bagno turco, 1862, olio su tavola,
Museo del Louvre, Parigi. 
P.A. Renoir, La bagnante bionda, 1881, olio su tela,
Musèe d'Orsay, Parigi. 

E poi arrivando ai giorni nostri, in una sempre più assottigliata visione della donna, sino a plasmarle un corpo perfetto e delicato, si inserisce la visione allargata di Botero, che tocca le donne così come gli uomini, gli animali così come gli oggetti; una visione di allargamento spropositato di cose e persone quasi a fare da scudo ad ogni sorta di malessere o imprevisto che ognuno dei ritratti può incontrare nel corso della propria vita. 


F. Botero, Ballerina alla sbarra, 1988, olio su tela,
Guggenheim Museum, New York. 
F. Botero, Donna nel bagno, 2000, olio su tela. 

giovedì 2 maggio 2013

L' Angelico, il Sensuale ed il Bello, nella figura femminile dell'Arte


Uno degli argomenti fonte di dibattiti, a volte persino accesi, è l’attribuzione dell’aggettivo “bello” alla sfera soggettiva piuttosto che oggettiva (e viceversa), all’interno di una qualunque considerazione critica.

M. Rothko, No.5/No.52, 1950,
olio su tela, MoMA, New York
Già nel corso degli anni la situazione si era più volta ripresentata al mio cospetto durante discussioni di più o meno notevole spessore, soprattutto in occasione di giudizi riguardanti le opere d’arte contemporanea. Insomma, chi può decidere se Gli amanti di Chagall o, ancora meglio, No.5/No.22  di Rothko, siano dipinti degni di esser considerati belli?

Di certo la definizione tratta dal dizionario non aiuta: "che corrisponde ai canoni della bellezza”.
O comunque, non è sufficiente a poter chiudere il discorso, conferendo finalmente all’aggettivo la giusta relegazione: i canoni in quanto tale sono l’espressione di un’oggettività di fondo esplicata attraverso regole e criteri; ma gli stessi non possono definirsi di natura oggettiva, perché essendo l’uomo a giudicarne la validità, automaticamente applica a questi, una valutazione di carattere soggettivo.

Discutendo di questo con alcuni colleghi storici dell’arte, il discorso si è diretto su vie più leggere, nel tentativo di individuare concretamente “il bello” nella figura femminile; per cui l’aggettivo si è tripartito in tre etichette sui generis, decisamente contraddistinte tra loro eppure appartenenti alla stessa radice: 
“il provocante”, “il sensuale” e “l’angelico”.

Quindi, rimanendo fermi sull’accezione positiva dei tre termini, che inglobano implicitamente i canoni di equilibrio e gentilezza delle fattezze fisiche, il primo configura la bellezza che tende ad usare il suo corpo piuttosto che i suoi lineamenti probabilmente, altrimenti, anonimi, per arrivare al cuore o al desiderio di un uomo. Un abito scollato e volgare, una smorfia tesa ad accentuare un labbro di per sé carnoso o un tacco slanciante connotano questo tipo di donna.

L’angelico appartiene alla donna dai lineamenti fini e delicati, altera e fulgida ma nello stesso tempo innocente. La donna angelica non crea desiderio, ma è essa stessa il desiderio, è la rivelazione della perfezione o di quello che più le si avvicina.

Il sensuale è la via di mezzo tra il provocatorio e l’angelico: la donna sensuale è conscia della sua bellezza, che non è sconvolgente come quella della donna angelica né anonima come quella della donna provocante e la valorizza attraverso atteggiamenti sfuggenti che inducono alla curiosità, in un coacervo di dubbi esistenziali che portano l’uomo a scegliere se renderla oggetto della propria contemplazione o del gesto sessuale.

Volendo argomentare visivamente queste definizioni nell’ambito specifico della storia dell’arte, ho iniziato a cercare quelli che secondo me possono essere i giusti esempi, al fine di ricostruire un articolo che raccontasse l’iconografia di ciò che corrisponde alla mia idea di Angelico, Sensuale e Provocante.
A tal proposito devo ringraziare la mia cara collega Silvia S. per aver contribuito alla stesura del testo analitico. 

Indirizzato proprio da Silvia, a prender visione dello scritto di Umberto Eco “Storia della Bellezza”, in cui l’autore analizza in maniera generica e totalizzante il concetto che io invece tento di marginare alla figura femminile nella storia dell’arte, sono rimasto meravigliato riguardo la copertina del libro in questione, che raffigura una delle donne che personalmente reputo incarni perfettamente l’idea di bellezza angelica: Eleonora Medici di Toledo.

Ritratta dal Bronzino, Eleonora Medici di Toledo, a mio giudizio è assunta a donna angelica, intesa come custode della beltà, della grazia, della raffinatezza, in una cornice di lineamenti delicati e di un carnato perlaceo. La sua sontuosa veste non le rende giustizia costringendo il suo seno ad esser parte integrante del tronco, però le attribuisce materialmente quella regalità d’animo che traspare dai suoi occhi di madre e di donna.

Bronzino, Eleonora di Toledo, 1545,
olio su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Bronzino, Cappella di Eleonora Toledo (part.), 1545 - 1550,
affresco, Palazzo Vecchio, Firenze. 

Eppure un Bronzino, così poeta nel catturare l’anima della signora, è lo stesso che si rende ardito quando nella cappella di Eleonora di Toledo a Palazzo Vecchio dipinge una donna dallo sguardo così magnetico e coinvolgente, ghiacciato e ipnotico, da inquietare lo spettatore che la immagina essere l’autrice di furbizie e astuzie maliziose. 

Rimanendo in tema e perseguendo consapevolmente un cliché, necessario però per arrivare ai profani d’arte, è quasi obbligatorio etichettare la Venere del Botticelli quale donna angelica ad excelsior. La sua nudità non è mirata ad uno scopo e non è indice di voluttà, bensì racconta un fatto che trascina alla contemplazione della dea bella per antonomasia, la cui chioma fluente color oro smorza la staticità della sua statuaria posa.

Quello della Venere è l’esempio ad hoc per dimostrare che la nudità della donna non è sempre sinonimo di piacere sessuale. L’esempio di una sua riconferma invece sembra dato da Ingres, che ne’ La Sorgente estremizza la sensualità dell’adolescente, matura nelle espressioni di desiderio, ammiccante con gli occhi, invitante con il suo braccio alzato a tenere l’anfora, quasi stesse  adagiata su un letto, leggermente genuflessa per poter evidenziare il fianco burroso.

S. Botticelli, Nascita di Venere (part.)
1484 - 1486, tempera su tela,
Galleria degli Uffizi, Firenze. 
J.A.D. Ingres, La sorgente,
1820 - 1856, olio su tela,
Musèe d'Orsay, Parigi. 

E poi c’è il Provocante. Che è un bello di carne, di passione e di trasgressione. E’ il bello contemporaneo, così lontano dall’Angelico botticelliano - rinascimentale e da quello Sensuale del Romanticismo - Impressionismo.

P.A. Renoir, Ragazza con il bouquet di tulipani,
1878, olio su tela, Collezione privata. 
Non è il Sensuale di Renoir, il quale attraverso il rosso dei ricci che cadono sulla schiena, lo stesso delle gote della fanciulla che non mostra i suoi occhi a causa di un cappello nero piumato, rende l’ardente desiderio individuabile nell’ingenuità della giovane donna col mazzolino di fiori.

È il bello dell’amore mercenario e ribelle. È il bello della consapevolezza e della fierezza, dell’individualità della donna che si fa strada in un mondo fatto di uomini per uomini.

E allora la spregiudicatezza delle modelle di Schiele, con le loro gambe divaricate, non sono più motivo di tabù: i loro sguardi inducono al tradimento ed al peccato, raccontano la voglia di descriversi nella loro totalità. 

Così anche ne Les Deimeselles d'Avignon di Picasso, dove le cinque prostitute, quasi derubate della loro privacy negli sparti lavorativi in una sorta di istantanea fotografica, rivelano il non detto attraverso la propensione a rendere caratteriali pose e posizioni professionali.  


E. Schiele, Wally Neuzil in le calze nere, 1913,
acquerello, collezione privata. 
P. Picasso, Les deimoselles d'Avignon, 1907,
olio su tela, MoMA, New York.