In tv ultimamente, sui nuovi canali Mediaset,
vengono ritrasmessi programmi di dieci – vent’anni fa, per il piacere di una
generazione nostalgica come la mia, che ha vissuto nel trapasso alla
successiva, un cambiamento così radicale da non vedere la nuova come papabile
erede.
Insomma a conti fatti noi degli anni ’80 eravamo
abituati a vivere l’infanzia in modo del tutto differente dalla generazione
supertecnologica nata negli anni ’90. Noi eravamo quelli che non portavano in
tasca un cellulare a dodici anni quando si usciva con gli amici e la mamma
preoccupata doveva attendere il nostro ritorno alle nove di sera, facendo la
calza e gettando, tra una maglia e l’altra, un occhio furtivo all’orologio, che
come nel più classico dei casi quando sei impaziente che arrivi l’ora che tanto
attendi, sembra spostare le sue lancette in senso antiorario anziché il
contrario.
Tra i diversi Tira e molla e Mai dire Goal,
in un momento in cui ero chino a spulciare ed acquisire un nuovo modo di intuire
l’arte contemporanea, analizzando la metodica del buon vecchio caro Bonito
Oliva, la tv, volume al minimo indispensabile a renderla “modalità sottofondo”,
iniziò a trasmettere una sigla che attraverso le orecchie navigò alla velocità
della luce sino al cuore, che riconobbe appartenere alla fiction Caro Maestro, datata 1995 con Marco
Columbro ed Elena Sofia Ricci.
Nel 1995 avevo dieci anni e ricordo che
aspettavo con ansia quelle puntate perché quella fiction mi entusiasmava. La
adoravo. Alzare gli occhi dal
Bonito Oliva (cosa difficile da fare) e puntarli sullo schermo che rivangava
anni di piacevoli ricordi e prime emozioni, mi trasmise una sensazione
piacevole ai sensi, lacrimevole addirittura se vogliamo, perché come una bomba
azionata, esplose in me una marea di ricordi legati all’infanzia nel mio paese
di origine. Un’infanzia fatta di sole, terra, mare, aria e povertà. Quella povertà
che è stata la mia salvezza perché ha stimolato la mia fantasia e creatività,
quando la pistola che i miei non potevano comprarmi diventava due mollette
disposte a “L” e il mio superliquidator era una bottiglia da 2 litri con un
foro sul tappo!
I ricordi più cari mi hanno rimandato alle estati da bambino,
quando il sole cuoceva, la strada scottava e noi non ci si stancava uguale di
rimanere a giocare a palla, sognando il mare. Quando la mamma ci intimava di
salire al tramonto, quando ‘fanculo computer, Playstation e Xbox, un Super Tele
costava duemila lire e una bustina di figurine panini poco più di duecento ed
eri felice per una settimana: finché il Super Tele non ti veniva sequestrato
dalla vicina o si forava sui vetri di una bottiglia di birra frantumata al
lato della strada. Eh, ma inutile prenderci in giro, tutto questo “intender
non lo può chi non lo prova”.
Le estati più dolci le ho passate giocando al classico “guardie e ladri” o “mamma e
papà”. Ci son cresciuto giocando a mamma e papà! Tutti i bambini della mia
generazione hanno giocato a mamma e papà per la strada almeno una volta durante
la loro infanzia! Ah quanto era duro simulare il signor Dario che andava a
lavorare mentre la mamma Giusy e la figlia Silvana (paradossalmente Silvana ha
un anno in più di Giusy, eppure si accontentava di lasciare il ruolo di leader
alla seconda) restavano a casa a far i servizi.
Andar a lavorare per me
coincideva con restare almeno un quarto d’ora dietro il muretto del palazzo, in
panciolle ad attendere di poter tornare a casa (il muro a cinquanta metri di
distanza) da moglie e figli. Ed era terribilmente noioso rimanere lì, sotto il
sole di luglio, seduto al gradone e rigirarsi i pollici. A volte lanciavo un
urlo alla mia consorte “Posso tornare!?” e lei mi rispondeva puntualmente “Non
ancora! Aspetta!” e lì il borbottio prendeva il sopravvento. Finché guardandomi
intorno in un età di curiosità e scoperta, notavo i papaveri non ancora dischiusi,
che nel loro bozzolo verde rugoso si affacciavano al marciapiede e iniziavo a
strapparli e ad aprirli per scoprirne il colore della corolla.
“Ora puoi tornare!” mi veniva gridato ad un certo punto ed io
lì, strappavo quattro fiori alla rinfusa, e li portavo a mia moglie che mi
chiedeva come fosse andata la giornata lavorativa.
“Un inferno! Non ho avuto un attimo di pace!”, recitavo, io che
ero stato lì a borbottare e raccogliere bozzoli di papavero per un quarto d’ora.
E oggi accade puntualmente che i ricordi favolosi di un tempo andato che non tornerà
mai più, ma che hanno deciso chi sono oggi e che riaffiorano in modo piacevole
al grido di un bambino, alla sigla di un programma, alla visione di una biglia
di vetro, accendono in me la voglia di tornare a casa, di rivedere gli amici di
infanzia, di tornar a far il padre che andava a lavorare dietro il muretto di
casa.
Perché
giocavamo a fare i grandi nel 1995. Non capendo che forse, avremmo dovuto giocare
qualche minuto in più a fare i bambini.
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