sabato 31 agosto 2013

Il museo Palazzo Sinesi a Canosa, ci apre le porte: ma sarebbe stato meglio se le avesse tenute chiuse

Passeggiando tranquillamente per il centro di Canosa durante una classica mattinata soleggiata di fine agosto, trovandomi a transitare dinanzi al portone del Palazzo Sinesi, una struttura che ospita importanti raccolte di vasi, monili e reperti antichi, ho ben pensato di farci una capatina furtiva, così da poter integrare con il mio punto di vista, la svirgolettata su una delle realtà (o almeno dovrebbe essere tale) più concrete della mia terra.

Già qualche ora prima, mi ero piacevolmente trattenuto con una cara amica, nella villa comunale, che era già stata oggetto di una mia osservazione per via delle are, delle steli e dei capitelli lasciati incuranti al degrado ed all'azione vandalica (vedi svirgolettata); quindi non mi sarebbe dispiaciuto trovar la controprova alla mia idea di fondo per cui, in linea di massima, il nostro stato non sa valorizzare l'arte che custodisce. 

Per chi non fosse habitué del mio paese di origine, è giusto spiegare che (e cito come da fonte):
Palazzo Sinesi è un edificio privato del XIX secolo, di proprietà del Ministero dei Beni Culturali, destinato dal 1994 a spazio espositivo per mostre tematiche e temporanee. È la sede della Fondazione Archeologica Canosina e sede di supporto della Soprintendenza ai Beni Archeologici della Puglia. Il palazzo non è una vera e propria sede museale, ma ospita, assieme all’esposizione permanente di una collezione privata di ceramiche canosine e daune, mostre tematiche temporanee, l’ultima delle quali si occupa di Canosa in età romana. La creazione di questa sede espositiva vuole anche sensibilizzare il pubblico sulla drammatica dispersione di materiale archeologico locale a causa di saccheggi e immissioni clandestine di reperti nel mercato antiquario.
[Fonte: viaggiare in Puglia‎]

Palazzo Sinesi a Canosa. 
Ed infatti, Palazzo Sinesi quale luogo di “deposito” (giacché di musealizzazione a quanto pare non si può parlare) di reperti archeologici, è una realtà ragionata già dal 1992, quando a Bari si tenne una mostra dal titolo “Principi, Imperatori e Vescovi”, che raccoglieva quasi totalmente la suppellettile canosina di età dauno – romana. Un monito significativo al fatto che, per quanto Canosa già dal 1934 avesse all’attivo un Museo Civico Archeologico, sito a Palazzo Casieri – attualmente la sede del museo è a Palazzo Iliceto – la città non godesse di un vero e proprio punto di riferimento, che raccogliesse sotto si sé quanta arte sia stata prodotta nei secoli della civiltà classica.

Con tali premesse quindi, mi sarei dovuto aspettare di riscontrare nel palazzo attenzioni particolari volte alla tutela ed alla valorizzazione di quanto abbiamo da offrire, dato lo scopo primario della sua fondazione; devo ammettere per altro che ci ero stato da piccolo per mia volontà – già, ero un bambino strano, mi piaceva l’arte e andavo per musei e biblioteche – e allora non mi era parso affatto mal tenuto o mal gestito.  Cosa confermatami dal virtual tour dello pseudo – museo, che è possibile fare sul sito Virtual Tour.

Però, purtroppo, lo spettacolo che si è presentato oggi ai miei occhi, è stato ben diverso da quanto credevo: entrando mi sono imbattuto in un atrio ospitante vasi antichi e suppellettile, lasciato in balìa di se stesso, non sorvegliato da telecamere o custodi di alcun tipo. E ancora, in bella vista, cartoni da imballaggio e polvere e scope nascoste dall’anta del portone; la stessa che viene lasciata spalancata nonostante l'atrio ospiti un affresco romano, che sicuramente non merita ogni sorta di aggressione climatica che ne può scaturire da simili scellerate decisioni. 

Vaso appulo, ritrovato nella Tomba Varrese
a Canosa di puglia.
Per non parlare delle stoviglie e dei reperti in vetrina, accatastati l'uno sull'altro, senza alcun cura; ignoranti probabilmente del fatto che un possibile terremoto di magnitudo e intensità media, potrebbe provocare un disastro ad effetto domino tra un piatto e l’altro. 

Dopo aver visto ciò e aver fotografato, ho preferito andare via. E vi dirò di più! Azzardo nel dirvi che non mi stupirei se qualcuno un bel dì arrivasse di tutto punto con un martello, squarciasse le vetrine e facesse incetta di ogni bene; che tanto, con la scarsa attenzione di cui gode il sito, ogni reperto è ben che espatriato illegalmente prima che qualcuno se ne accorga.


Capisco che non sia un museo ufficiale Palazzo Sinesi, così come ammetto di essermi fermato solo all'entrata senza esser salito ai piani superiori, probabilmente meglio amministrati. Ma signori miei, quant'è vero il detto che spesso sono le prime impressioni quelle che contano? E dico ciò in quanto, proprio perchè Palazzo Sinesi è la realtà più concreta testimoniante il valore di Canosa quale città archeologica più importante della Puglia, dovremmo curarlo nel minimo dettaglio e spenderci dietro energie ed investimenti.

Perché per tenerci stretti quei pochi turisti che si presentano alla nostra porta, dovremmo accogliere loro con un "tappeto rosso", un "buongiorno - good morning - guten morgen - bonjour" e non con il silenzio catacombale del menefreghismo e cumuli di polvere tenuti su da una scopa ormai inutilizzabile.

Situazione attuale e allestimento dei reperti archeologici

venerdì 30 agosto 2013

Seraphine Louis de Senlis, il genio e la pazzia dell'artista che dipingeva la natura

Le pittrici da sempre sorbiscono in me un certo fascino. Ricordo quando ero un liceale affatto innamorato della storia dell’arte, che, nonostante seguissi con molta noia le lezioni della mia professoressa, mi lasciai però incantare dalla storia di Artemisia Gentileschi, figlia del caravaggesco Orazio; pittrice sulla quale nel 1997, Adrienne Clarkson sceneggiò il film che per l’appunto prese il nome di Artemisia.

Il suo genio e la sua tenacia nel prevaricare la società poco incline ad accettarla, la sua voglia a non arrendersi e a combattere psicologicamente lo stupro che fu di Agostino Tassi, pittore anch’egli ed amico di suo padre, la relegarono per secoli tra gli esempi di virtù e pseudo - emancipazione a cui ogni donna avrebbe dovuto ambire; cosa che senza dubbio l’ha fatta risplendere ai miei occhi più di altri anonimi suoi pari di sesso maschile.

Seraphine Louis de Senslis
È quindi con la stessa curiosità, che ho indagato e raccontato storie di altre artiste del calibro di Pamela Bianco, Aelita Andre o Marina Abramovic. Ed è con la medesima, che, su consiglio di un amico sempre attento alle rivalutazioni di personalità poco conosciute ai più, ho svolto le mie ricerche su una pittrice francese della seconda metà del XIX secolo,  Seraphine Louis de Senlis.

Parlare di questa artista, segregata nel dimenticatoio per decenni, sino alla rivalutazione critica avvenuta solo nel 2009, in seguito al film di Martin Provost, Sherapine, vincitore di sette premi César, non è affatto facile, perché complicata è stata la sua visione del mondo e delicata la sua psiche, tanto da farla finire all’età di 64 anni, segregata in un manicomio.

Ma andiamo per gradi. Nata da una famiglia di domestici, Seraphine seguì sin da subito le orme dei genitori, lavorando per diverse famiglie come governante e cameriera sino a quando, lavorando ai servigi del collezionista d'arte Wilhelm Uhde, nel 1912, questi scoprì le sue pitture.

Mentre risiedeva nella città dove viveva la pittrice, Senlis (che diverrà un epiteto di riconoscimento della pittrice, un po’ come accade tutt’oggi per Leonardo da Vinci), Uhde scoprì casualmente una natura morta raffigurante delle mele nella casa dei vicini, rimanendo esterrefatto nel sapere che proprio la sua domestica, fosse l’autrice di quel dipinto.

“Erano delle vere mele, modellate in una bella pasta consistente. Cézanne sarebbe stato contento di vederle”, avrebbe detto più in là Uhde, del dipinto ammirato; così convinto di quella pittura primitiva, verace e così vera, tanto da guidare la pittrice in un excursus improntato ad uno studio sempre più intimo della sua coscienza e personalità.

Fu da allora, dalla veneranda età di 48 anni, che Seraphine Louis vide riconoscersi una sorta di talento di stampo naif; un talento che si esplicava però soltanto nell’incondizionata rappresentazione di fiori, piante e vegetazione e che esulava da qualunque altro stampo iconografico.

Ma la carriera della fragile pittrice crollò di lì a poco. Dopo una tregua temporale negli anni della Prima Guerra Mondiale, (quando Uhde fu costretto ad allontanarsi dalla Francia perché tedesco e quindi mal visto dalla popolazione di Senlis), nel 1927 i due tornarono a collaborare: il critico, di ritorno a Senlis, comprò infatti le tre enormi tele che la Louis espose alla mostra collettiva Amici dell’Arte, dimostrandole così un affetto non indifferente ed una voglia a lavorare con lei.

Ma le attenzioni del critico non portarono che ad un annientamento delle poche certezze della pittrice. Vinta da una voglia di superare ogni volta di più i suoi limiti, soggiogata da un’ambizione più grande evidentemente delle sue possibilità, Seraphine si lasciò trascinare dalla nefasta illusione di essere una pittrice affermata, tanto da spendere gran parte dei suoi risparmi in acquisti inutili e roba futile.

La crisi americana del ’29 però, trascinando nel baratro gli investimenti di Uhde tanto da farlo quasi fallire come mercante d’arte e curatore di mostre, porta via con sé anche le ultime certezze di una Seraphine sempre più insicura ed instabile, sino a quando nel 1931, viene rinchiusa in un manicomio, in seguito ad atti scellerati dell’artista, abbandonata dal mondo e lasciata macerare a se stessa sino al 1939, quando morirà di stenti e fame, in una struttura che a ridosso della seconda guerra mondiale, non poteva più garantire una vita dignitosa ai malati che ospitava.

Ma la fortuna critica di Seraphine Louis de Senlis, continuò a coinvolgerla anche quando la sua psiche l’aveva già abbandonata: Uhde, che morirà nel 1947, non si lasciò vincere dall’ abbandono della sua artista di punta: il mercante espose le sue opere nel 1932, alla mostra “The Modern Primitives” di Parigi; ancora nel 1937-38 in una mostra dal titolo “The Popular Masters of Reality”, che si tenne in diverse fasi a Parigi, Zurigo ed al MoMA di New York; nel 1942  presso i “Primitivi del secolo ventesimo” in mostra a Parigi, e infine, nel 1945, in una mostra personale delle sue opere sempre nella capitale francese.

Per chi volesse ammirare i dipinti di Séraphine Louis, può recarsi  in questi musei, che espongono diverse opere dell’artista: il Musée Maillol di Parigi, il Musée d’art de Senlis, il museo d’arte naif di Nizza ed il Musée d’Art moderne Lille Métropole a Villeneuve d’Ascq. 

Quando una scelta fa la differenza: il caso Bresca e il caso Gimenez in ambito di restauro

Indagare per la mia tesi, sulle misure conservative ed i restauri effettuati alle tavole ed alle tele delle istituzioni museali ed ecclesiastiche italiane, ha sicuramente sviluppato in me una coscienza, probabilmente sino ad allora non sviluppata a tal punto da inquadrare i fenomeni di rischio legati ad un affidamento improprio di determinati lavori.

Giotto, Cappella degli Scrovegni,
1300 - 1306, affreschi, Padova
Penso per esempio alla figura di Filippo Fiscali, che negli ultimi anni dell’800, nella sua attività di restauratore, - ruolo che ricoprì in Emilia e nei centri minori dell’Italia centrale, - trasportò diverse pale e foderò diverse tele di artisti validi quali Del Cossa e Pietro Lorenzetti, Perugino e Pier della Francesca, rendendosi però altresì responsabile di alcuni restauri poco fortunati, come nel caso dell'Ultima cena del Garofalo alla Pinacoteca nazionale di Ferrara, che gli costò l’esclusione da ogni commissione ministeriale.

O in ambito di restauri a pitture parietali, a Guglielmo Botti, pupillo di Giovanni Battista Cavalcaselle che, nonostante non avesse mai mostrato sul campo grandi doti durante il suo operato,  si rese nel 1872, responsabile di restauri mal eseguiti sugli affreschi di Giotto nella Cappella Scrovegni, fermando le pitture con chiodi di ferro anziché di ottone o rame. 

Lettera del sign. G. B Bresca al
Ministro dell'Istruzione.
 
Tale coscienza di cui vi parlavo, si esplica all’atto pratico, quando mi ritrovo ad analizzare documenti che rivelano una cauta attenzione del Ministero – ieri come oggi, ieri più di oggi (?) – circa i procedimenti da attuare ai diversi restauri, le innovazioni tecniche da omologare ufficialmente alle già testate, la credibilità da porre nei confronti di sedicenti appassionati in materia che puntualmente si propongono di portare a termine lavori per i quali non sono preparati professionalmente.
 E a dimostrazione di ciò, trova luogo anche l’istanza del professor G.N. Bresca, del 1916, nativo di Alessandria.

Professore, di cui non risultano collaborazioni con le Sovrintendenze o contributi tecnici nell’ambito del restauro, ma di cui sappiamo non essere un chimico, né un restauratore, scrisse in tale data all’allora Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, Corrado Ricci, per denunciare una sua scoperta con il chiaro intento di rivenderla allo Stato.

Questo personaggio emblematico, premettendo nella sua missiva, come le tele soffrissero gli agenti atmosferici, dal caldo al freddo, dall’umidità alla secchezza, espose quindi all’illustre Direttore storico dell’arte e primo Sovrintendente d’Italia, di aver creato “un preparato di quattro elementi, per preservare i dipinti dalla inevitabile rovina.. senza toccare l’opera dell’artista”.

Detto ciò, il professor Bresca chiarì che non era disposto a svelare i componenti della pozione segreta, ma specificò che, avendo egli settantadue anni, l’avrebbe lasciata una volta venuto a mancare; intanto disponeva nella stessa lettera, che un kg della sostanza da lui creata veniva a costare 5 lire al Kg. Questa sembrò essere una forma di tutela nei suoi confronti, poiché a seguire chiariva che si sarebbe messo a disposizione dello Stato, concedendo le sue prestazioni o su stipendio mensile o su applicazione della sostanza per metro quadro.

Ovviamente la risposta della Direzione Generale non tardò ad arrivare: Ricci, conosciuto come una personalità abbastanza sanguigna e appassionata, seppe rispondere con diplomazia al professore suddetto, non senza però far trapelare dalle sue parole una vena di polemica mista a derisione; qui spiegò come non fosse possibile al Ministero sottoporre i quadri appartenenti al patrimonio artistico dello Stato, ad uno speciale trattamento mediante un preparato di cui si ignoravano gli elementi costituitivi.

Con la lettera a seguire, il Bresca chiarì in diversi punti quindi, che il pericolo non si veniva a creare poiché il principio consisteva nell’isolamento del tergo della tela; che la soluzione consisteva in massima parte di cera, da spalmarsi appunto sul tergo.
Ma la Direzione Generale ancora una volta non tenne conto della nuova specifica e la storia fu archiviata.

Questo aneddoto ben rivela una particolare attenzione alle conseguenze drammatiche che possono seguire a scelte avventate e non ponderate, al fine di una completa tutela e preservazione del bene in atto. Purtroppo però, tali lungimiranze non sempre sono agli occhi di chi ha potere decisionale.

La restauratrice Cecilia Gimenez.
Mi riferisco, tra i tanti casi, a quanto accaduto all'affresco Ecce Homo, un'opera del pittore spagnolo Elías García Martínez (1858-1934), situata nel Santuario de Misericordia della città spagnola di Borja. Magari ai più l’affresco citato non riconduce a niente, eppure questa pittura parietale di non inestimabile valore, è stata al centro dell’attenzione mediatica mondiale, perché deturpata dal pessimo restauro della ultraottantenne pittrice amatoriale Cecilia Gimenez.

Accadde infatti nell'agosto 2012, che la parrocchiana, senza esperienza né qualifica alcuna in restauro, con il lasciapassare del parroco, prendesse l'iniziativa di mettere mani all'affresco, alterando cromia e disegno del volto del Cristo raffigurato, tanto da renderlo alla stregua di un disegno naif o infantile.

Confronto tra il prima ed il dopo dell'affresco restaurato.
La notizia allora fece il giro del mondo; l’affresco di Elias Garcìa Martinez da quel momento gode di una fortuna critica senza pari, per quanto traslata ad una visione negativa dell’opera a causa del restauro incredibilmente orrendo.

Insomma, questi due aneddoti ci dimostrano che spesso le scelte di un momento possono cambiare nel loro piccolo, - così come nel loro grande – la storia dell’arte mondiale. Probabilmente se Bresca avesse avuto modo di metter mani alle opere dello Stato, ad oggi avremmo una soluzione a base di cera, utilizzata in ogni museo mondiale, o forse non avremmo più alcun dipinto sito nelle gallerie italiane; così come allo stesso modo sicuramente ancor oggi avremmo potuto godere dell’affresco dell’Ecce Homo di Borja, sempre che avessimo saputo di cosa si trattasse.  

mercoledì 28 agosto 2013

Dio, la Chiesa e l'omosessualità: intervista doppia a due ragazzi gay

La società sta cambiando; questo è un dato di fatto. Omofilo convinto e sostenitore dei diritti LGBT nello stato in cui vivo, ho seguito molto attentamente la diatriba riguardante la legge anti omofobia che prevedrebbe pene severe per chi si lasciasse trasportare dal sentimento astioso nei confronti di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. Una legge che per il momento ha lasciato solo strascichi di riflessione e dubbi, in attesa di essere ridiscussa a settembre, mentre dall’altro capo d’Europa, nella glaciale Russia il Presidente Vladimir Putin ha varato asperrime leggi anti gay, stimolando la popolazione alla persecuzione di questi.

D’altro canto, vivendo l’amicizia di persone appartenenti alla comunità LGBT, spesso mi ritrovo a confrontarmi con loro circa argomenti di carattere sociale, politico e culturale, ma soprattutto religioso: un fattore curioso è dato dal fatto che in materia di fede e religione, non vi è unanimità di schieramento; da un lato infatti il disciplinamento religioso e l’attaccamento agli insegnamenti cattolici incidono o addirittura convivono armoniosamente con la sessualità vissuta nel privato, dall’altro invece, essi sono stati debitamente allontanati perché non sposabili con la condotta di vita intrapresa.

Spinto quindi da una curiosità non indifferente, ho coinvolto due amici miei gay, uno fortemente credente in Dio, l’altro invece libero da ogni vincolo di fede, ma entrambi lontani da un attaccamento di qualunque genere alla Chiesa cattolica, in un’intervista doppia che tenterà di indagare la ragione di tale scelta. Per convenzione chiameremo il primo Mario e il secondo Giuseppe, secondo il buon costume italiano di riconoscere in Mario Rossi e Giuseppe Bianchi, i due nomi utilizzabili per garantire l’anonimato di chi non vuole esporsi.
PS: Mi sarebbe piaciuto molto poter integrare l'intervista con il punto di vista di un credente nella Chiesa cattolica, ma non sono riuscito a trovare tra i miei conoscenti, una persona disposta a partecipare all'intervista.


D: Perché hai deciso di continuare a credere o di smettere di credere in un Dio che secondo la Chiesa non accetta la tua condizione? Quanto ha inciso la tua tendenza sessuale nella scelta intrapresa?

R Mario: Dopo aver scoperto me stesso, ho continuato a credere in Dio, meno nella Chiesa, poichè è risaputo che essa, sin dall’alba dei tempi, approva solo ciò che le conviene, nonostante sia investita da numerosi scandali. Credo che una istituzione umana non possa sostituire un essere divino e che quindi il Dio in cui credo non è ben rappresentato da essa: siamo tutti essere umani e nessuno è esente dal peccato.

R Giuseppe: In realtà da sempre non ho mai realmente creduto ciecamente nei dettami della Chiesa, anche perché da piccoli è un attimo infrangere uno dei 10 comandamenti o uno dei 7 vizi capitali. Con il crescere, poi, ci si rende conto che è anche peggio. Del resto, con la pubertà ognuno di noi inizia a capire i propri gusti e quali sono le vie più coerenti da scegliere. La Chiesa non ammette i gay e io non ammetto la Chiesa, di conseguenza non credo in un Dio che non accetta la mia condizione.


D: Come ti rapporti nei confronti delle dichiarazioni degli esponenti della Chiesa (Papa, Cardinali, Vescovi, Sacerdoti) argomentanti la condanna verso l’omosessualità e inneggianti alla famiglia quale nucleo familiare composto da madre, padre e figlio frutto dell’amore dei due? Sposi tali dichiarazioni con il volere di Dio?

R Mario: Credere che il nucleo familiare sia composto solamente da madre, padre e figlio è sbagliato. Questo è ciò che ha imposto la società, la Chiesa, ma non Dio.
Esistono tanti tipi di amore, a seconda dell'inclinazione di ognuno; certo, se fossimo tutti omosessuali, la nostra specie non esisterebbe più; così come l'amore di una donna e di una madre è imparagonabile, ne sono consapevole, ma omosessuali si nasce, non si diventa; non è una malattia e nemmeno una scelta. Di conseguenza anche gli omosessuali hanno diritto a una famiglia, ovviamente quando si parla di amore; condanno anch'io chi lo fa per curiosità o per perversione. Amare, nelle sue molteplici forme, non è mai peccato. Se sono attratto da un uomo, è il mio cuore che poi agisce; se fosse una scelta, come crede la maggior parte, sceglierei di essere etero, non vi pare? Eviterei tante sofferenze!

R Giuseppe: Per quanto mi riguarda, mi appropinquo alle dichiarazioni dei prelati come un qualsiasi cittadino italiano lo fa nei confronti di un Obama, di una regina Elisabetta o di un Putin: comprendo sia un Capo di Stato ma la cosa non mi riguarda. In merito al razzismo ideologico fatto sui temi come l'omosessualità e le famiglie Arcobaleno ricordo che da qualche parte, nella Sacra Bibbia, c'è scritto “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Evidentemente c'è prossimo e prossimo anche per Dio, se esistesse.


D: Cosa ne pensi del pontificato di Papa Francesco, in relazione alle sue dichiarazioni circa l’omosessualità, sicuramente lontane da quelle lasciate durante il cardinalato, ma decisamente più moderate e speranzose ad un riavvicinamento della Chiesa alla causa?

R Mario: Credo in Papa Francesco e credo che ci sarà finalmente una svolta con lui, anche se credo che i matrimoni gay non verranno mai approvati, poichè il Vaticano sopprimerebbe ogni proposta di legge attinente. Ma aprire le menti verso nuovi orizzonti, abolire dei tabù bigotti e ignoranti è già un grande passo avanti. Alla fine il resto del mondo l’ha già fatto, manca solo l'Italia!

R Giuseppe: La Chiesa vive di regole rigide, che molto spesso però non rispetta. Quindi sebbene abbia recentemente espresso delle parole di quasi-pentimento (“Chi sono io per giudicare?” Cit.), sono certo che non farà alcun tipo di passo in avanti rispetto ad una tiritera che va avanti dall'anno zero. E' un Papa e deve ricoprire tale ruolo: rappresentare la Chiesa.


D: Cosa ne pensi degli scandali legati all’opulenza ed alla ricchezza del Vaticano; alla presenza (dichiarata da Papa Francesco) di una Lobby Gay in Vaticano; all’evidenza di preti omosessuali o pedofili? Quanto incide sul tuo credo/rafforza le tue convinzioni?

R Mario: Gli scandali della Chiesa, dei preti omosessuali e pedofili, della ricchezza del Vaticano, sono cose che sappiamo tutti, anche se poi preferiamo chiudere gli occhi di fronte a queste oscenità. Il perché ovviamente non lo capisco, è risaputo che chi predica bene razzola sempre male! Per questo non credo più a chi rappresenta la Chiesa, allontanandola dalla mia concezione di Dio: la corruzione è un peccato grave, credo che in fondo neanche Dio ammetta quanto accade sulla Terra!

R Giuseppe: Gli scandali citati in questa domanda sono scoppiati pochi mesi fa ma... quanti di noi già sapevano di tutto ciò prima degli shockanti dichiarazioni di Bergoglio? Il Vaticano come stato indipendente ha sempre vissuto nella ricchezza, benché il Clero debba sostenere voti di povertà; seguirebbe anche un voto di castità ma sappiamo benissimo che così non è. A questo s'aggiunge la pedofilia su cui la Chiesa non pone delle reali risoluzioni. Il fatto che ci sia una lobby gay nella Chiesa mi ha abbastanza divertito però ricordando la celebre Seminarista Sfranta, tutto sommato la cosa non mi ha lasciato stranito o sbigottito: gli omosessuali c'erano, ci sono e sempre ci saranno. Nello sport, nel mondo dello spettacolo, nella vita “normale” e... anche nella Chiesa. 
Tre sono i voti che un prelato deve rispettare secondo i dettami del Dio che rappresentano: Castità, Povertà e Obbedienza. E se loro sono i primi a non rispettarli...


D: Ultima domanda. Cosa modificheresti dell’assetto istituzionale della Chiesa, se potessi? Cosa diresti all’altro intervistato per aprirlo ad una visuale più conforme al tuo modo di vedere le cose?

R Mario: Modificherei l'ignoranza che regna e il modo bigotto di vedere le cose; siamo tutti figli di Dio e la chiesa deve essere la prima a sopprimere le discriminazioni e a diffondere l'amore tra gli uomini; inoltre modificherei la vita solitaria, poichè sono umani anche loro e comunque agiscono di nascosto..tutti abbiamo peccato! All'altro intervistato direi solamente una cosa: il cielo è di coloro che credono, non di coloro che dubitano..e che Dio, essere divino, esiste e io ne ho avuto la conferma!

R Giuseppe:  Chiederei semplicemente una maggior coerenza rispetto a ciò che fanno professare in giro. Gli omosessuali in Italia non chiedono di ricevere una telefonata dal Papa per sapere come va la vita: al momento ci sono dei diritti fondamentali da conquistare; diritti  di un normale cittadino; diritti già acquisiti in moltissimi stati del mondo; diritti assenti in l'Italia  che, così facendo, continuerà a fare una pessima figura.
All'altro intervistato chiederei di aprire gli occhi maggiormente. Un omosessuale che appoggia il Papa fa ridere quanto un immigrato congolese supporter della Lega Nord.

martedì 27 agosto 2013

Giovani Talenti: Francesco Pastore


La straordinarietà delle persone, spesso non è legata direttamente alla carriera lavorativa, quanto al senso civile, alla cultura ed alla disciplina che le caratterizza.
È il caso di Francesco Pastore, laureando in Ingegneria Civile presso il Politecnico di Bari, che, tra i diversi impegni legati alla sua carriera universitaria, si destreggia nell’amministrazione di un blog davvero di qualità assieme alla sua fidanzata Alessia, ed al contempo si occupa (e si preoccupa) di sensibilizzare il popolo della sua città di origine ed in cui risiede, a comportamenti civili ed alla consapevolezza del patrimonio culturale di appartenenza.
Dico questo perché, essendo riconosciuta Canosa di Puglia, quale la più importante città archeologica della Puglia, così allo stesso tempo come una delle città in cui vige sino all’estremo un’anarchia di fondo se rapportata al modus vivendi della popolazione, spesso mi è capitato di rapportarmi a lui e conoscere progetti e idee volte al disciplinamento del cittadino medio.


D: Come anzidetto, una delle pecche della città in cui risiedi(amo) è appunto data dal mancato disciplinamento della popolazione ad un’educazione civica ed ambientale basata sul rispetto verso il prossimo. Ricordo a tal punto una discussione che riguardava una zona verde della zona 167 della città, inondata di bottiglie e immondizia, nella quale esponevi un tuo progetto volto ad una significativa dimostrazione del modo giusto di rapportarsi al problema, mettendoti in prima fila nella raccolta dell’immondizia da differenziare, documentando l’avvenuta pulizia e postando le foto sul gruppo ufficiale dell’amministrazione di Canosa, per dare il buon esempio al prossimo.
Cosa che mi porta a chiederti, notando una sviluppata coscienza legata al territorio: a tuo parere quali sono i punti deboli della città, ai quali l’amministrazione odierna dovrebbe porre attenzione?

R: Per onestà intellettuale è giusto precisare che l’iniziativa di cui si parlò in quella occasione è rimasta, a distanza di un mese, un chiacchiera da bar, a causa di impegni personali miei e di chi cercai allora di coinvolgere. Ma cercheremo di realizzarla, quanto prima. Tanto l’immondizia non manca.
Veniamo alla domanda. Con tutta franchezza ritengo che il punto debole di Canosa siano proprio i canosini, poco inclini al cambiamento, poco dotati di senso civico, perennemente in attesa di un intervento dall’alto (lo Stato? il “Comune”? Dio?) quasi fossero ospiti e non padroni della terra che calpestano. Un esempio a caso: ricordi il corteo per l’inceneritore? Quanti di quei presunti “ambientalisti” stanno ora svuotando spazzatura nelle periferie, magari per ripicca nei riguardi di un servizio di raccolta differenziata non condiviso o ritenuto insoddisfacente? E te li vedi che inveiscono contro chi amministra, a prescindere. Non è un problema di amministratori (che pure hanno avuto e certamente continueranno ad avere le loro lacune) ma di mentalità degli amministrati, su questo come su altri temi: l’archeologia abbandonata a se stessa (l’investimento dei privati, altrove presente e capace di produrre posti di lavoro e ritorno economico, qui a Canosa si ferma all’illuminazione della festa patronale); l’agricoltura orientata solo alla produzione di materia prima, con una perenne incapacità di chiudere la filiera a tutto vantaggio delle cantine e gli oleifici del Nord Italia; il lavoro nero, di cui tutti si lamentano come operai, ma a cui tutti fanno ricorso in veste di datori di lavoro. Poi c’è il settore industriale che, salvo sporadici esempi, praticamente è inesistente. Potrò sembrarti pessimista, ma qui le cose non cambieranno mai.
L’idea di raccogliere l’immondizia,visto che l’hai tirata in ballo, vuole essere un graffio nella coscienza di molti. Ma temo che, se mai qualcuno se ne accorgerà, finirà col pronunciare la classica frase: “ma a quelli chi gliel’ha fatta fare?”.   


D: Il fil rouge che unisce questa e le altre interviste è la domanda sul rapporto con il territorio. Sono del parere che il territorio formi, motivi, educhi e plasmi in qualche modo alcuni lati del carattere di una persona. Quanto ha inciso sul tuo essere, la terra in cui sei nato e hai vissuto? Qual è il rapporto che vivi con il paese in cui risiedi?

R: Come certamente avrai capito, il rapporto con il mio (amato) paese è tremendamente conflittuale. Hai presente la canzone “Pietre” di Antoine? Ecco, potrebbe essere la colonna sonora della vita qui a Canosa. Però se ci si rassegna alla realtà, se ne viene inghiottiti: da questa constatazione è nata, quindi, la mia volontà di diventare (ormai a breve) ingegnere, pur essendo (come ben sai) figlio di un contadino. Ma non dimentico da dove vengo: ogni anno a settembre la vendemmia la vivo da protagonista. Meglio, da umile operaio.


D: D’altronde il tuo interesse verso il territorio in cui vivi, si dimostra nella tesi intrapresa per il conseguimento della laurea triennale, in cui approfondisci gli studi sulla calcarenite di Canosa e sulla presenza di cavità sotterranee nella zona.
In che modo il territorio ha influito in secoli di popolamento della città? Su quali particolari elementi si è svolto il tuo lavoro?

R: Vedo che sei ben informato. Sostanzialmente il problema delle cavità è riassumibile nel seguente schema: chi abitava in superficie se ne fregava di chi scavava in sotterraneo; chi scavava, a sua volta, se ne fregava di chi abitava in superficie. In perfetto stile canosino, insomma. Agli inizi (almeno a partire dal Seicento, stando ai documenti storici da me consultati, ma certamente da molto tempo prima), quando la popolazione viveva arroccata sul Rione Castello, le due realtà (quella abitativa e quella estrattiva), vivevano in perfetto equilibrio: si estraevano conci di calcarenite nelle zone “periferiche” dell’epoca (il Quartiere Rosale, il Rione Capannoni, la Via Lavello, Via agli Avelli, ecc…), un po’ dove capitava, purché la calcarenite fosse affiorante in modo da limitare gli sforzi di estrazione. Per darti un’idea circa il volume di materiale estratto, pensa che i “tufi” canosini venivano venduti a Cerignola, Trinitapoli e San Ferdinando, oltre che alimentare il mercato edilizio locale.
Il problema emerse nel momento in cui l’espansione urbanistica superficiale e l’estensione degli scavi in sotterraneo giunsero ad un punto di conflitto: nel 1925 si ebbe il primo crollo, in via Saffi, e da allora fu il panico. Si scoprì che alcune leggi erano state ignorate e si finì, bruscamente, con l’interrompere gli scavi. Ma il problema era ed è ancora lì, con strade che sprofondano e case sospese sulle volte di questi immensi vuoti sotterranei.
Il mio lavoro si concentrava sulle verifiche di stabilità (statica e sismica) di una delle decine di cavità rinvenute negli anni: insomma, cose noiose da ingegneri. Però devo ammettere che l’indagine storica ha avuto un fascino innegabile. Ovviamente ti ringrazio per avermi dato occasione di parlare di un tema sconosciuto ai più, spesso confuso con gli ipogei archeologici che nulla hanno a che vedere con gli scavi in questione.


D: Rimanendo in tema di rapporto col territorio, è recente un articolo che hai postato sul tuo blog A destra e a manca, nel quale descrivi diversi luoghi da voi visitati in qualità di turisti, in cui discuti circa la presenza dell’Ipogeo Monterisi – Rossignoli, una struttura dimenticata dal mondo e lasciata all’aggressione climatica e della micro fauna, nei pressi del camposanto canosino. Ma non solo. Da turisti curiosi, tu e Alessia viaggiate saltuariamente in cerca di nuove realtà da raccontare, quasi come se foste i nuovi Susy Blady e Patrizio Roversi. Ma a differenza loro, se e quando necessario, aprite a riflessioni legate a tutela e valorizzazione del territorio. Da dove nasce l’idea della gestione a quattro mani del blog A destra e a manca?

R: Precisiamo, si tratta di viaggi “low cost”. Nell’era del redditometro la precisazione è doverosa.
Il blog nasce da una banale constatazione: prima di andare in posti esotici, impariamo a conoscere il territorio che ci circonda. E dato che molte mete si sono rivelate difficili da raggiungere, anche a causa di una scarsa disponibilità di informazioni a riguardo sul web (mi vengono in mente le Terme di Cerchiara, ad esempio, che non a caso sono ad oggi il post più visualizzato del nostro blog) abbiamo deciso di facilitare la fruibilità delle bellezze che abbiamo visitato, indicando la strada da percorrere e fornendo una descrizione accurata dell’attrazione.
Non aspettatevi viaggi rilassanti: abbiamo risalito torrenti controcorrente, percorso sotto il sole cocente di Ferragosto la Gravina di Matera per raggiungere le chiese rupestri, visitato ipogei infestati dalle pulci. Potremo sembrare un po’ fuori di testa, ma partendo dalla banale considerazione che certi monumenti oggi ci sono, domani non si sa, l’istinto ad intraprendere il viaggio ci viene immediato.


D: L’ultima domanda è destinata ad indagare circa i tuoi progetti futuri in materia professionale. Hai progetti avviati o idee in programma da sviluppare dopo la laurea? Quanto credi incida la crisi economica di stampo nazionale, ma anche locale, nonché la sempre più palese limitata possibilità di fare carriera nel settore di formazione?

R: Sinceramente non è facile leggere i segnali che la società di oggi lancia a noi giovani: parlano di noi come di una risorsa, ma a ben vedere siamo per molti solo un problema.
Si parla di tutto, spesso a vanvera, ma la realtà è che ad un giovane di oggi (ritenuto un “bamboccione” da chi ha la pancia piena, avendo vissuto nell’epoca delle due sedie disponibili per un solo sedere) viene richiesto ingiustamente di accontentarsi.
Quello che i nostri genitori potevano fare con un diploma o la terza media, noi siamo obbligati a farlo previa laurea. E una volta ottenuta, ci dicono che serve esperienza, ferma restando un’età del candidato non superiore ai 29 anni. Il tutto ad uno stipendio da fame. Sempre che sia previsto. E nel frattempo c’è chi riscuote pensioni senza mai aver versato un contributo all’INPS, lamentandosi che non arriva a fine mese. Mentre per noi la pensione potrà solo esserci a patto di una reincarnazione.
In questa realtà idilliaca (sono sarcastico), non escludo la possibilità di lasciare il mio paese natale o addirittura l’Italia. D’accordo che c’è crisi, ma noi questa crisi l’abbiamo ereditata. Guai a dimenticarlo. 

lunedì 26 agosto 2013

Marina Abramovic e la sua idea di marketing: come è nato il MAI (Marina Abramovic Institute)

Era il 10 luglio 2013 quando rimasi leggermente scosso da un articolo postato da una collega d’università sul gruppo degli storici dell’arte di Roma Tre di Facebook, che raccontava la performance di una Marina Abramovic in stretta collaborazione con il rapper Jay-Z, presso la Galleria Pace di New York.

Marina Abramovic
Il rapper americano, infatti, in quell'occasione, aveva deciso di riproporre per il video di Picasso Baby, il singolo con numerosi riferimenti all’arte contemporanea, la performance dell’Abramovic, The Artist is Present, tenutasi nel 2010 al MoMA di New York, modificata in un vis a vis con l’artista.

Già in quell’occasione la totale fede verso una Marina Abramovic lontana da un qualunque mercato dell’arte vacillò; difesi la sua performance giustificandola come un atto di filantropia generale, nello specifico un insegnamento al teenager medio che ama la musica ma snobba l’arte perché la crede elitaria e di settore: se anche solo uno degli utenti di quel video, alla fine di esso, fosse stato curioso di andare a ricercare la performer su un qualunque motore di ricerca, allora l'azzardo avrebbe portato a risultati validi.

Ahimè però, l’ultimo suo progetto mi lascia credere che anche l’inarrivabile artista montenegrina alla fine abbia capitolato al mercato dell’arte.
Infatti, è notizia del 25 agosto, la messa al termine del progetto fortemente voluto dalla signora dell’arte, un istituto nel quale diffondere attraverso diversi insegnamenti, il metodo Abramovic.

Manifesto di sponsorizzazione del MAI
Il MAI (Marina Abramovic Institute) è un’idea che prevede l’apertura nel 2015, di un centro sperimentale ad Hudson, nel cuore dello stato di New York, in un ex teatro al 620 di Columbia Street; una struttura acquistata dalla stessa per 950mila dollari, a cui poi ha aggiunto i rimanenti 1,5 milioni dei risparmi di una vita per i lavori di manutenzione e ristrutturazione dell’edificio.

Per i rimanenti 600.000 dollari necessari a coprire l'intero finanziamento, l'artista ha quindi deciso di appellarsi al crowdfounding tramite il sito Kickstarter, che in soli pochissimi giorni ha portato i frutti sperati. Ordunque dato che secondo il fare machiavelliano, il fine giustifica i mezzi, personalmente avrei potuto anche accettare la cosa se ogni donazione avesse avuto una base di incondizionato amore per l’arte, fuori da una qualunque mercificazione della persona e dell’arte dell’Abramovic, cosa che invece non è accaduta.

Il MAI fortemente voluto da Marina Abramovic
I sostenitori della causa infatti, hanno beneficiato di premi e rivelazioni in cambio del loro denaro.
Con un dollaro ogni donatore si assicurava un abbraccio da parte della performer, durante un evento già in programma il cui nome ne lascia presagire il contenuto: The Embrace; per 25 dollari, l’artista svelava via internet alcuni trucchi del suo metodo; con una donazione di 100 dollari, ogni donatore avrebbe ricevuto a casa un DVD completo con gli esercizi da praticare per acquisire il metodo Abramovic; con 1.000 dollari, quel metodo veniva spiegato vis a vis via chat.

E ancora, per tutti gli estimatori di arte facoltosi, che hanno contribuito con il massimo della cifra donabile, 10.000 dollari, esistevano due opzioni non tralasciabili al caso: la partecipazione all'evento Spirit Cooking with Marina, una sorta di cena con l'artista, che in sede insegna a cucinare e rivela le ricette delle sue zuppe macrobiotiche, ideali per il corpo e per la mente, e l’angosciante esercizio del nulla: nulla seguirà alla donazione; nessuna proclamazione o esternazione in merito.

Lady Gaga durante alcuni esercizi performativi
Un’opzione quest’ultima, che per quanto pesante da scegliere, pone il donatore di fronte ad una realtà per alcuni versi benevola per altri angosciante: l’idea di aver contribuito ad uno sviluppo pedagogico e pratico dell’arte, senza che mai nessuno possa saperlo; una scelta forte da affrontare, ma che vale un insegnamento di per sé: la spiritualità di un'azione benefica, vince sul materialismo di un riconoscimento enfatizzato.

Intanto, per i più curiosi e gossipari, ricordo che già Lady Gaga, che in maniera sempre più preponderante si sta avvicinando al mondo della Performance Art, discostandosi allo stesso tempo dalla musica, ha iniziato a collaborare con l’Abramovic ed a sponsorizzare il MAI. Dal mio canto, sono sicuro che non sarà l’unica artista a farlo, ricordando il precedente Jay – Z o Orlando Bloom e James Franco che hanno posato da guest star nel 2010 al MoMA di fronte a Marina.

Che quindi Marina Abramovic si sia commercializzata o meno, non è dato a me giudicarlo, né mi è dato giudicare le scelte di marketing applicate al Kickstarted o la collaborazione con l’icona mondiale del pop e del trasformismo.
Qualunque sia la verità, le jeux soint fait; il MAI è stato fondato e ora non ci resta che attendere il 2015 per conoscerne meglio la didattica, il metodo ed i programmi.  

Per chi ne volesse sapere di più, il sito ufficiale del MAI è: 

domenica 25 agosto 2013

Aelita Andre, enfant prodige a soli sei anni

Sorprendentemente, mi capita non di rado che qualche amico e seguace di Svirgolettate, mi segnali un articolo o un evento che in qualche modo possa spingermi a raccogliere le idee ed enunciare le mie considerazioni a riguardo.

Particolarmente curioso è stato quanto accaduto nel corso delle ultime 24 ore, poiché Leonardo e Roberto, a differenza di poco tempo, hanno pubblicato sulla mia bacheca di Facebook, due differenti articoli, entrambi però aventi due oggetti in comune: l’arte e il mercato legato ad esso.

Scrutando e leggendo i due suggerimenti, per quanto sia rimasto piacevolmente colpito dall’articolo postami da Leonardo, che analizzava nel dettaglio il progetto MAI di Marina Abramovic, artista della quale ho già discusso per la sua performance al MoMA nel 2010, The Artist is Present, mi ha letteralmente divorato dalla curiosità l’imbeccata di Roberto circa una giovane bambina, artista affermata e quotata già all’età di sei anni.

La piccola Aelita Andre all'opera.
La bambina australiana di genitori russi, rivela già dal suo nome un’eleganza non indifferente: Aelita infatti è uno dei primi kolossal sovietici degni di nota; film muto fantascientifico del 1924, diretto da Protanazov, su storia di Tolstoj. E già il suo nome lascerebbe intendere il forte senso di attaccamento alla terra dei due emigranti russi in Australia, dove la piccola avrebbe, su direttiva del padre, intrapreso la carriera di pittrice –inconsapevole – già dall’età di 9 mesi.

Aelita Andre, che oggi ha sei anni – è nata nel 2007 – da cinque dipinge quadri dal gusto estremamente pollockiano e nel complesso astratto, equilibrati nel colore e nella composizione, un pugno di caos colorato sulla tela vergine. Una passione, quella della piccola, nata casualmente seguendo l’orma della mamma, pittrice anch’essa e spinta sino all’estremo da suo padre, che già dalle sue prime opere, aveva carpito le potenzialità della piccola.

A. Andre, Asteroid, 2010, pittura su tela. 
Lo stesso, che ha fortemente permesso che la piccola potesse esporre le sue opere in giro per il mondo, alimentando attorno al mito della bambina enfant prodige, un mercato dell’arte non indifferente né sottovalutabile: basti pensare che i dipinti di Aelita, sono quotati tra i 5.000 ed i 150.000 dollari e ad oggi vengono esposti in gallerie di tutto rispetto e partecipano a mostre rinomate in tutto il globo.

Per un piccolo excursus storico-artistico della piccola Aelita, al fine di poter dimostrare quanto appena asserito, basta segnalare che la bimba ha goduto di una notevole fortuna critica, esponendo ad Hong Kong nonché in Australia a Melbourne nel 2009 e nel 2010; alla Biennale di Chianciano ed all’Agora Gallery di New York nel 2011 e nel 2012; ed ancora a Melbourne ed alla Biennale di Londra, nel 2013.

Considerato quindi accertato che l’arte della pittrice naviga i diversi mercati dell’arte, provando a cercare quel quid che ha permesso il suo clamoroso successo, esso sicuramente non è individuabile in una qualunque sorta di talento: definire l’operato della piccola pittrice con l’aggettivo talentuoso, risulterebbe infatti alquanto azzardato, considerando che, come già dichiarato da diversi critici e giornalisti che hanno trattato l’argomento, la bambina in fondo non fa altro che eseguire quanto la maggior parte dei bambini fanno in presenza di un foglio bianco: prendere il colore e lasciarlo andare, scarabocchiare, e creare figure indistinte senza la minima idea compositiva; anche quando alla fine, come anzidetto, l'opera sembra costruita ad hoc: ma questo è sempre, solo un caso fortuito.

In fondo Aelita è solo una bambina; probabilmente sarà solo il tempo a rivelarci se quelli che oggi sono l’istinto e la voglia di esprimersi  della piccola artista, (che per certi versi ricorda molto la storia già raccontata di Pamela Bianco, enfant prodige degli Anni Venti), domani saranno individuabili in un talento innato ed in una professionalità encomiabile.
Intanto, nell’attesa di poter verificare quanto presupposto, invito a guardare i suoi Artworks, sul suo sito ufficiale: http://www.aelitaandre.com.

A. Andre, Pangea, 2010, acrilico e materiali misti su tela. 

martedì 20 agosto 2013

La ricchezza artistica della Pinacoteca di Bari

Come solitamente faccio quando sono in Puglia a casa dei miei, seguo attentamente il telegiornale regionale sul terzo canale Rai, per documentarmi delle diverse realtà e dei diversi fatti di cronaca che riguardano costantemente il mio territorio.

Premesso ciò, qualche giorno fa, a ridosso di un ferragosto senza fama e senza lode a causa del tempo incerto, mi sono lasciato incuriosire da un servizio del TG3, riguardante l'incremento dei visitatori al Castello Svevo di Bari, durante tutto il mese di agosto. Un incremento di addirittura il 189%, che non è un dato affatto trascurabile considerando che Bari non è meta turistica del calibro di Gallipoli o dell’intero Salento.

Castello Normanno Svevo, XI - XII sec., Bari
Ospite in studio la Professoressa Clara Gelao, direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari “Corrado Giaquinto”, che ha parlato di tutto fuorché della pinacoteca . 
Ha parlato del tempo poco stabile che ha favorito l'incremento; ha parlato del Museo di Ascoli Satriano che si è arricchito dei grifoni originari del paese, ceduti da Los Angeles, che li custodiva; ha parlato - non senza mostrare un velo di arcignità - dei castelli, che sono i beni culturali più visitati a discapito di musei e pinacoteche; ha parlato di tutte le realtà del territorio, si è lamentata dei buoni risultati di altre entità museali, ma ahimé, non ha nominato affatto la pinacoteca che gestisce.

Inasprito da questo modo di fare scialbo della dotta, mi sono chiesto sul perché se ne fosse uscita così poco felicemente – e a dirla tutta, guardando l’espressione che mostrava, anche disinteressatamente - con scuse del tipo che la gente va per castelli perché sono all'aperto e non nei musei per via del caldo afoso, senza riflettere sul fatto che  magari quella stessa gente non lo sa che a Bari, nella pinacoteca da lei gestita, sono custoditi dipinti mobili davvero preziosi. D’altronde Bari non pubblicizza i suoi beni come fa Roma, creando sconti legati ai biglietti dei diversi mezzi di trasporto o affiggendo gigantografie di quadri custoditi in questa e quella galleria.

P. Bordon, Madonna con Bambino in
trono, tra Sant'Enrico di Upsala e
Sant'Antonio da Padova, 1550 ca,
olio su tela centinata,
Pinacoteca Provinciale, Bari.
Dico questo perché, visitando la Pinacoteca Provinciale, o semplicemente guardando il sito per un monitoraggio più rapido, (dato che devo ammettere che è davvero ben fatto, mostrando sala per sala il suo contenuto e mostrando opera per opera la sua schedatura analitica): www.pinacotecabari.it, è possibile notare la presenza di opere di spessore straordinario, come un nutrito numero di quadri del Giaquinto, la collezione Grieco, che annovera dipinti del XIX secolo, ma soprattutto diverse tavole e tele di scuola veneta cinquecentesca e seicentesca, testimonianza di un’attiva collaborazione soprattutto commerciale tra Bari e Venezia.

Infatti, ripercorrendo l’attività pittorica e scultorea pugliese dal XII secolo sino al XIX, oltre ad opere di incommensurabile valore artistico quali le icone bizantine derivanti da diverse chiese del territorio, i polittici quattrocenteschi, i dipinti di Paris Bordon, di Palma il Giovane, di Micco Spadaro o del Solimena, solo per citarne alcuni, configurano il Il miracolo di San Rocco del Tintoretto e la Madonna con Bambino tra le Sante Caterina d'Alessandria e Orsola, con offerente del Veronese, un tempo custoditi nella Cattedrale di Bari.

Palazzo della Provincia, sede della Pinacoteca di Bari.
Ora, con cotanto ben di Dio, vien da sé rattristirsi del fatto che la suddetta direttrice  non abbia saputo sfruttare, abusare, monopolizzare lo spazio che il TG3 le aveva riservato. Perché in quei tre minuti di intervista, se solo avesse voluto, avrebbe potuto ricordare che la Pinacoteca contiene le opere succitate e ancora che il biglietto d’entrata a persona è di sole 2,58 euro, 0,52 euro per gli studenti e totalmente gratuito ad anziani, bambini ed in occasione di inaugurazioni, cerimonie e particolari iniziative da programma; cifre che se rapportate ad altre città che presentano listini esorbitanti che superano addirittura la decina euro, sono decisamente irrisorie.

Ragionamento che senza portarla per le lunghe, nel concreto si tramuta in un pensiero del tipo: "Famigliola perfetta, se la domenica non sapete cosa fare, portate i bambini alla Pinacoteca, che con 5 euro scarsi avrete fatto qualcosa di piacevole e costruttivo".
E se ci penso io che ho solo 28 anni e sono ancora nuovo e per alcuni versi inadeguato al mercato artistico, mi chiedo come sia possibile non ci abbia pensato una figura navigata come la Gelao.