sabato 26 aprile 2014

Otto Dix e l'orrore della guerra.

O. Dix, Autoritratto con garofano, 1912,
olio su tela, Institute of Arts, Detroit
Uno degli artisti che ricompare spesso nei discorsi con cui mi intrattengo con amici ed altri colleghi storici dell’arte, è il tedesco Otto Dix, tra i miei pittori preferiti perché, come lo definisco io, è stato uno storiografo artistico del suo tempo. Dico questo perché nessuno più di lui ha saputo raccontare la società e nel complesso, la storia del dopoguerra, in maniera nuda e cruda per quello che era, cosa che gli valse in qualche modo, purtroppo, il ritiro dalle scene.

Otto Dix, classe 1891, nato a Gera, in Turingia, fu un artista tedesco formatosi presso la Scuola d’Arte Decorativa di Dresda a partire dal 1910, sino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, dove lui, interventista convinto, partecipò attivamente sui Fronti Occidentale e Orientale. Una presa di posizione politica che mutò a guerra ultimata, quando scosso e traumatizzato dopo quanto vissuto, si professò non solo pacifista, ma addirittura dedicò la sua maturità artistica al racconto della guerra e della vita quotidiana postbellica: una mutazione quella raccontata, non così strana da riscontrare nella letteratura e nell’arte del post I Guerra Mondiale; basti pensare, uno fra tutti al poeta italiano Giuseppe Ungaretti, che interventista prima della Grande Guerra, cambiò la sua visione politica dopo aver vissuto la trincea sul fronte austroungarico, denunciando nelle sue poesie l’orrore della guerra.

O. Dix, Via Praga, 1920, olio su tela, Galerie der Stadt, Stoccarda
Lo stesso orrore fu denunciato quindi da Otto Dix a fine guerra, secondo una visione artistico stilistica molto vicina a quella dell’espressionismo fauvista che era di Matisse, de Vlaminck, Kirchner o Munch, ma meno intriso di soggettività emotiva e più intenso di denuncia sociale sotto uno sguardo più oggettivo possibile: un oggettivismo così glaciale però, che non poteva esulare dal toccare alcune corde di forte espressività; un nuovo espressionismo, di stampo tedesco, definito Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) dal tema della mostra tenutasi a Mannheim, nel 1925.

E la posizione di Otto Dix a riguardo fu piuttosto dura, considerando l’incisività delle sue opere artistiche: dipinti e acqueforti che si dipartivano in un bivio argomentativo: se da un lato, infatti, forte impatto ebbero i dipinti denuncianti gli orrori della guerra, dall’altro non di meno lo erano quelli denuncianti la società tedesca, lasciata alla deriva di sé stessa dopo l’acclamazione della nuova Repubblica di Weimar.

Un società tedesca divisa tra chi aveva vissuto passivamente la guerra, rimanendo ferma nei suoi prestigi nobiliari e nelle sue ricchezze economiche, e chi l’aveva vissuta attivamente, rimanendo tristemente reciso fisicamente e nell’animo dall’evento: i reduci di guerra, mutilati e ormai impossibilitati a qualunque lavoro, un tempo eroi della patria, adesso feccia della società, rifiuto umano difficile da smaltire.

O. Dix, Il venditore di fiammiferi, 1921, 
olio su tela, Galerie der Stadt, Stoccarda.
Ne sono esempio tre dipinti del biennio 1920 – 1921, che raccontano per l’appunto la triste figura del mutilato di guerra. In Via Praga, olio su tela del 1920, sita alla Galerie der Stadt, nel Kunstmuseum di Stoccarda, la figura centrale del mutilato di guerra, monco di entrambe le gambe e del braccio sinistro, sostituite da rozzi e improbabili protesi lignee, è attorniata da gente che fugge via inorridita, come la donna in gonna rosa, o da fanciulli dall’aspetto così orrendo che neanche Bosch nel Cristo Portacroce avrebbe osato tanto; un reduce ormai impossibilitato a qualunque altra azione che non fosse l’elemosina: un gesto disperato, evidenziabile nello sguardo ormai spento dell’uomo che chiede pietà.


O. Dix, Invalidi di guerra giocano a carte, 1920, 
olio su tela, Neue Nationalgalerie, Berlino.
La stessa consapevolezza che si riscontra ne’ Il venditore di fiammiferi, del 1921, conservato nella stessa galleria, seduto sui marciapiedi di Dresda (il pittore in quegli anni aderì alla Secessione di Dresda con Grosz e Schlichter, fondata nella stessa città, in cui rimase sino al 1922), allontanato ed abilmente schivato dalle persone probabilmente inorridite dalla visione di una realtà tanto sconvolgente e macabra, e disdegnato persino dal cane, che si serve di lui per i suoi bisogni.  E ancora ne’ Invalidi di guerra che giocano a carte, alla Neue Nationalgalerie di Berlino, è interessante notare lo storpiamento fisico al limite dell’inverosimile, relegato alle tre figure sedute al tavolo: nel pieno dell’impeto angosciante che può pervadere lo spettatore, le tre figure giocano divertite a carte, nonostante la privazione di gambe, braccia occhi, mascelle, fantasiosamente sostituite da protesi in legno o ferro, manco fossero cyborg.

O. Dix, Il ritratto di Sylvia Von Harden, 
1926, olio e tempera su tavola, 
Centre George Pompidou, Parigi.
Trasferitosi prima a Dusseldolf sino al 1925, poi dopo un breve soggiorno di due anni a Mannheim e a Berlino, stabilmente a Dresda dal 1927, dato che gli fu affidata una cattedra all’Accademia, Dix non cessò di raffigurare la sua visione del mondo attuale tedesco, concedendo i suoi sforzi verso la borghesia della città: una classe politica ormai nuova, all’avanguardia, come dimostra esserne degna rappresentante la giornalista Sylvia Von Harden, raffigurata dal pittore nel 1926, quale icona di un nuovo arrivismo professionale, esulante da qualunque attaccamento alla bellezza o al vezzo: la Sylvia Von Harden di Otto Dix è una donna affermata, dal pratico monocolo e dal moderno taglio corto di capelli; una donna che fuma e che non disdegna i piaceri della vita, dal cocktail alla sigaretta.

E due anni dopo è la volta del Trittico della Metropoli, un componimento artistico di tre tele, volto a raccontare i fasti ed il degrado della Dresda degli ultimi anni ’20, nella quale convivono i residui dell’orrore della guerra, ed il risentimento di rivalsa e di voglia di concedersi all’irrefrenabile.

Il trittico, una composizione che rimanda alla religiosità delle pale d’altare, probabilmente era stato inteso dal Dix quale suo contrapposto, visto i temi trattati: anche qui infatti, nonostante i colori caldi e l’addolcimento delle figure, il rimando ad una società ormai alla deriva è lampante; le donne si concedono facilmente e i reduci di guerra affollano le strade, pericolose e piene di insidie.

O. Dix, Il trittico della metropoli, 1928, olio su tela, Galerie der Stadt, Stoccarda. 

O. Dix, Suicidio in trincea, 1924, 
acquaforte, Coll.Van de Velde, Anversa.
Oltre che alla società a lui attuale, il ricordo traumatico di Dix si rivelò in alcune sue opere ben mirate, volte a denunciare i ricordi della guerra vissuta dall’artista: di forte impatto è la serie di acqueforti del 1924, conservate nella Collezione Ronny e Jessy Van de Velde ad Anversa; una serie che racconta in una visione macabra e aberrante, quanto accaduto su entrambi i fronti da lui combattuti.

Di forte impatto è Il suicidio in trincea, che raffigura un soldato ormai scheletrico (lo scheletro è il simbolo del male e della morte), morto in seguito alla sua decisione di togliersi la vita, evidentemente shockato da quanto vissuto in prima persona: il fucile impugnato contro di sé, giace ancora lì, con l’imboccatura inserita nell’apparato boccale del milite.

O. Dix, Il bombardamento di Lens, 1924, 
acquaforte, Collezione Van de Velde, Anversa.
Ma altrettanto significative sono le acqueforti che raccontano l’orrore della guerra nei centri urbani, come La guerra durante un attacco di gas ed Il bombardamento di Lens: nel primo disegno, l’effetto di terrore è dato dalla distorsione fisica provocata dalle maschere antigas indossate dai soldati; nel secondo, è dato dallo sguardo atterrito degli abitanti della città francese, che tentano di sfuggire alla distruzione causata dalle bombe scagliate dall’aeroplano. Un terrore che si esplica a pieno nel Trittico sulla guerra del 1929 – 1932; un’apoteosi di morte, sofferenza, strazio e angoscia, tramutati in mucchi di corpi morti, sangue, carne e ossa, come si evince dalla pala centrale; un rimando all’azione bellica cruenta e abominevole, come si evince dalle pale laterali; un inno alla morte, come si deduce dalla predella della pala centrale.

O. Dix, La guerra durante un attacco di gas, 1924,
acquaforte, Collezione Van de Velde, Anversa
O. Dix, Il trittico della Guerra, 1929 – 1932, olio su tela,
 Gemaldegalerie Neue Meister, Dresda. 

Orridi sentimenti, quelli raccontati da Dix, che nientemeno erano stati vissuti da molti tedeschi; gli stessi che avrebbero volentieri evitato di ricordare lo scempio a cui avevano assistito. Motivo per cui non di rado le opere a sfondo di denuncia bellica di Dix furono rifiutate dalla critica e fortemente ostracizzate: caso emblematico fu quello di un dipinto La trincea, comprato da uno dei musei di Colonia nel 1923 e poi restituito perché fonte di aspre critiche da parte dei fruitori.
Lo stesso dipinto andò perduto durante la Seconda Guerra Mondiale, probabilmente arso dai Nazisti che vedevano in Otto Dix un artista degenerato: ipotesi probabile data la definizione concessa al dipinto durante una mostra sull’arte degerata del 1937, per cui fu presentato come “Sabotaggio alla difesa”.

O. Dix, I sette peccati capitali, 1933, 
olio su tela, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe.
Infatti, lo stesso era stato catalogato come esponente dell’arte degenerata già nel 1933, ed invitato quindi non solo ad abbandonare il suo posto di docente dell’Accademia, ma anche a rinunciare alla sua poetica artistica di denuncia, lasciando che si potesse dedicare a soggetti paesaggistici.
Una poetica che lascia il suo ricordo nella tela dello stesso anno della sua etichetta, I sette peccati capitali; un dipinto denso di allegoria e simbolismo, il cui fine fu quello di denunciare per un’ultima volta la società ormai allo sbaraglio del suo tempo: in primo piano, una strega ravvisabile nell’avarizia, stringe a sé delle banconote; dietro di lei l’accidia, dalle sembianze di uno scheletro privo di cuore e di occhi, sembra costretto a vivere passivamente per l’eternità; a seguire la lussuria, una donna ridicola nella ricerca del piacere, che si tocca il seno, cerca di attrarre con la sua lingua, che forma una vagina gigante, aprendo le ginocchia.

Dietro la lussuria, si fa viva la gola, attraverso la goffaggine di un uomo che ha incastrato per il troppo desiderio di cibo, la sua testa nel pentolone, tanto da divenirne un tutt’uno; ancora, accanto, la superbia, gonfia e tronfia in modo spropositato, così attenta alla pienezza di sé, che ormai dalla sua bocca escono solo escrementi; a destra della superbia quindi, l’ira, le cui fattezze sono quelle di una bestia maledetta, che sbraita e tiene in mano coltelli pronta a scattare.

E infine l’invidioso, in groppa all’avarizia e attorniato da tutti gli altri vizi capitali; un ometto piccolo e raggrinzito su se stesso, che scruta, guarda e pare odiare il mondo che lo circonda, perché lui non è alla stessa altezza: un chiaro riferimento al Fuhrer, uomo che ha desiderato fortemente il potere per poter avere la sua rivincita su quel mondo che lo aveva deriso e denigrato. Come si capisce dai baffetti, che consegnano ad Hitler definitivamente l’identità dell’invidia; baffetti dipinti solo nel 1945 a regime nazista sparito, quasi come se quell’ultima pennellata potesse essere la firma di un romanzo di guerra durato vent’anni, in cui Dix aveva fortemente creduto. 

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mercoledì 23 aprile 2014

Lo specchio nell'arte: l'effetto, lo sconfinamento, la modifica della realtà.

Cratere proveniente dalla Magna Grecia,
IV secolo a.C., British Museum, Londra.
Lo specchio è un oggetto riscontrabile in più riprese nella storia dell’arte di tutti i tempi; addirittura si può tranquillamente addurre che è uno di quegli elementi presi in considerazione dagli artisti nelle loro opere, che non hanno mai visto periodi di abbandono: esulando infatti dall’ideazione artistica del mero oggetto, l’arte dello specchiarsi è riscontrabile sin dall’antichità, come testimoniato dai diversi vasi greci e romani, raffiguranti donne intente a vaneggiarsi con uno specchietto tra le mani. E ancora continuando, questa realtà è riscontrabile sino ai giorni nostri attraverso dipinti dal soggetto invariato, dalla Donna allo specchio del Tiziano, alla medesima di Fernando Botero, passando per la Venere allo specchio di Piet Paul Rubens e La toilette di Ernst Ludwig Kirchner.

Tiziano, Donna allo specchio, 1512 – 1515,
olio su tela, Louvre, Parigi
P. Rubens, Venere allo specchio, 1613, olio su tavola,
Staatliche Kunstsammlung, Vaduz

E.L. Kirchner, La toilette, 1912, olio su tela,
Museo d’Arte Moderna, Colonia
F. Botero, Donna allo specchio, 2003,
olio su tela, collezione privata.

Ma l’utilizzo dello specchio, in arte non è solo riscontrabile all’azione intrinseca derivante, ma in più occasioni è valso quale elemento per uno studio particolare degli effetti ottici e dei rimandi simbolici legati ad esso. In quest’ultimo caso infatti, è sicuramente interessante notare il legame creato da Hieronymus Bosch nello scomparto raffigurante La superbia, ne’ I sette peccati capitali del 1500 – 1525 tra lo specchio ed il demone che lo sorregge: lo specchio nel quale si riflette l’immagine della donna superba infatti, diviene il mezzo del peccato di vanità, pertanto viene retto dal suo massimo rappresentante, il diavolo, che per l’occasione, imita la peccatrice nell’acconciatura.

H. Bosch, I sette peccati capitali, 1500 – 1525,
olio su tavola, Museo del Prado, Madrid
H. Bosch, La Superbia (part. de’ I sette peccati capitali)
 1500 - '25, olio su tavola, Museo del Prado, Madrid. 

Sul piano ottico, sicuramente è interessante notare lo studio dicotomico del riflesso proveniente dallo specchio. Dicotomico perché, l’interesse dei diversi artisti che si sono messi alla prova, è vertito verso due diverse strade, entrambe tecnicamente valide: la prima, volta a catturare gli effetti della convessità di uno specchio; la seconda, volta a catturare il gioco dei volumi creato dalla posizione particolare degli specchi durante il ritratto di un soggetto.

J. Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, 
olio su tavola, National Gallery, Londra. 
Uno degli artisti che ha reso perfettamente la realtà proiettata in uno specchio convesso è stato Jan Van Eyck, che ne dà prova di maestria nella tavola raffigurante il Ritratto dei coniugi Arnolfini, del 1434. Nella tavola del Van Eyck, come da piena tradizione fiamminga (riscontrabile di lì a pochi anni anche in Bosch, ne’ I sette peccati capitali), la simbologia ha un ruolo cardine nel racconto del matrimonio dei due ricchi banchieri lucchesi trasferitisi a Bruges per affari: il vetro dello specchio infatti allude alla purezza della donna, mentre la cornice decadivisa in scomparti, accoglie elementi della Passione di Cristo, nel pieno della spiritualità cristiana della coppia.

Ma è l’effetto ottico che ne deriva, che rende Van Eyck uno dei pionieri dello sconfinamento del supporto: infatti per la prima volta nella storia dell’arte, lo specchio riflette sin nella minuzia quanto sta accadendo dietro, riproponendo non solo gli ambienti che si dislocano oltre la stanza rappresentata, ma anche i personaggi non presenti nel dipinto, che però quindi, ne diventano involontariamente parte integrante: oltre al pittore, vengono raffigurate anche altre due persone, probabilmente i testimoni della coppia, una prova schiacciante – ancora una volta – della benedizione cristiana del matrimonio celebrato.

J. Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini (particolare specchio), 1434, olio su tavola, National Gallery, Londra. 

R. Campin, Trittico di Werl 
(ala sinistra), 1438, 
olio su tavola, 
Museo del Prado, Madrid. 
Questo quindi è quello che accade a seguire, sia nella di poco più tarda tavola del Trittico di Werl di Robert Campin (1438), che segue i dettami del Van Eyck circa lo sconfinamento della realtà raffigurata nella tavola, sia nel dipinto del Sant’Eligio nella bottega di un orafo, dipinta da Petrus Christus nel 1449: l’introduzione di uno specchio convesso che ci sballotti la vista su quanto non potremmo vedere raffigurato nel palco della tavola, pare essere divenuto quindi un must dell’arte fiamminga del tempo.

Il soggetto è quotidiano seppur sacro; Sant’Eligio, protettore degli orafi, misura dell’oro e svolge il normale lavoro di un suo protetto, davanti ad una coppia di fidanzati. Quel che sorprende ancora una volta però, per l’appunto è quanto viene riflesso dallo specchio, che apre all’ambiente esterno della destra dei soggetti raffigurati: un ambiente aperto in cui si scorgono una piazza e alcune abitazioni, mentre in primo piano un falconiere ed una donna passeggiano, forse intenti ad entrare nella bottega.


P. Christus, Sant’Eligio nella bottega di un orefice, 
1449, olio su tavola, Metropolitan Museum, New York.
P. Christus, Sant’Eligio nella bottega di un orefice (part.), 
1449, olio su tavola, Metropolitan Museum, New York.

E con un balzo in avanti di quasi un secolo, al 1525 è ascrivibile uno degli autoritratti davanti allo specchio più conosciuti e rinomati: quello che il Parmigianino eseguì in giovane età (22 anni) riproducendo le sue fattezze per come apparivano alla vista di uno specchio convesso, su una tavola fatta creare appositamente anch’essa convessa per una resa più credibile.

Ed è proprio il Vasari a raccontare l’esecuzione dell’opera e lo studio particolarmente attento al dettaglio: un gioco, quello attuato dal Parmigianino, volto ad ingigantire e diminuire le diverse parti del corpo in base alla vicinanza o alla lontananza dal piano, per cui la risultante è stata un autoritratto alquanto veritiero dato da una mano in primo piano, giustamente di molto più grande e sinuosa rispetto al corpo più lontano, ed un arrotondamento sferico dell’ambiente circostante nel quale spicca la finestra (soggetto che ritroveremo riproposto da Maurits Cornelis Escher, nella litografia della Mano con la sfera del 1935, con la variante della sfericità dello specchio piuttosto che della convessità).


Parmigianino, Autoritratto allo specchio, 1524,
olio su tavola convessa, Kunsthistorisches Museum, Vienna. 
M.C. Escher, Mano con la sfera, 1935, litografia. 

Caravaggio, Narciso, 1597 - 1599, olio su tela,
Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma.
Un elemento quindi, quello dello specchio convesso, che ha affascinato diversi geni dell’arte, non di meno Caravaggio, che nella sua Marta e Maria Maddalena del 1598, sposa entrambe le realtà analizzate: infatti, non solo qui il maestro lombardo dà abile sfoggio della sua tecnica rendendo in modo ottimale la convessità dello specchio, (lo squarcio prorompente della luce attraverso la finestra rettangolare consegna alla superficie sferica scura, un contrasto meraviglioso), ma gli relega anche il valore simbolico della vanità, il peccato di cui la biblica Maria Maddalena si macchiava, prima della conversione seguita al convincimento da parte di sua sorella Marta.

Ma d’altronde lo stesso Caravaggio non era nuovo a questo tipo di studi, dato che negli stessi anni aveva eseguito il Narciso, che, come da racconto mitologico, rimane abbagliato dalla sua fulgida bellezza nel mentre che si rispecchia in un bacino. È interessante qui notare non solo l’ammaliamento del ragazzo che per la prima volta si rispecchia, ma anche il gioco di luce che si crea tra realtà e riflesso, dove la prima vive del bagliore della luce, e la seconda della quiete delle tenebre, quasi a preannunciare quanto sarebbe accaduto di lì a pochi attimi,(la morte per annegamento di Narciso, caduto in acqua per essersi spinto troppo in avanti verso la sua figura riflessa).


Caravaggio, Marta e Maria Maddalena, 1598, olio su tela, Institute of Arts, Detroit. 

D. Velazquez, Las Meninas, 1656, 
olio su tela,  Museo del Prado, Madrid. 
Mentre, il gioco procurato dalla disposizione degli specchi, nella resa dei soggetti, vede tra i massimi esponenti degli artisti che l’hanno praticato, Diego Velazquez, che nel suo dipinto Las Meninas, dispone gli specchi in un modo talmente ricercato e sublime, da ispirare interi saggi filosofici ed artistici sulla questione. Infatti, analizzando il dipinto, notiamo una sorta di stordimento della realtà: a primo acchito parrebbe che il soggetto del dipinto sul cavalletto di spalle in primo piano sia proprio l’Infanta Margherita Teresa, attorniata dalle sue damigelle, salvo scoprire ad un’analisi più dettagliata, che l’opera si presenta più complessa di quello che pare. Infatti, essendo presente l’artista all’interno della tela, parrebbe che tutta la composizione fosse stata dislocata dinanzi ad uno specchio, ma a dimostrare il contrario ci pensa la raffigurazione dei due regnanti di Spagna, nello specchio dietro l’Infanta, che lascia capire come i due sovrani siano dinanzi al pittore, che per l’occasione li sta ritraendo, e come quindi siano loro i destinatari della tela, e non chi si approccia a guardarla: insomma, si potrebbe affermare che lo specchio in lontananza, rivela che quanto ritratto è la visione che in quel momento hanno avuto i sovrani, di quanto stesse per essere dipinto.

J. Gumpp, Autoritratto, 1646, olio su tavola,
Galleria degli Uffizi, Firenze
Una realtà sperimentata anche da Johannes Gumpp dieci anni prima, nel 1646, nel suo Autoritratto conservato agli Uffizi: una scomposizione particolarmente attenta e riproposta in più riprese nella resa della volto, come dimostra la tavola, che raffigura il pittore di spalle, (aiutato nella resa, probabilmente da un altro specchio avanti a sé), intento a specchiarsi e a riproporre il volto identico sul supporto (un documento storico, volendo, dell’esecuzione di un autoritratto).
Più di due secoli dopo, ritroviamo lo specchio quale protagonista assoluto della tela, ne’ Il bar delle Folies Bergére di Edouard Manet, dove lo specchio dietro il bancone su cui sono disposte le bottiglie e la frutta per i clienti, rivela una sala immensa gremita di persone elegantemente agghindate, intenta a socializzare e desinare. Dallo specchio noi intendiamo quindi gli spazi del bar ma non solo, anche il tempo di svolgimento dell’azione: la sera.

E. Manet, Il bar delle Folies Bergére, 1881 - 1882, olio su tela, Courtauld Gallery, Londra.

Ma lo specchio oltre che come rivelatore di effetti ottici straordinari, è stato usato anche per rivelare quella che è l’anima del soggetto raffigurato: tanto per citare un artista capace di questo tipo di ragionamento emozionale nelle sue opere, sono da considerarsi due tele di Pablo Picasso, emblematiche perché da queste è ravvisabile quasi una sorta di rivelazione del vero sentimento, attuata dallo specchio nei confronti del soggetto intento.

Infatti sia ne’ La donna allo specchio, del 1932, sia ne’ L’Arlecchino allo specchio, del 1923, è ravvisabile nei soggetti una sorta di espressione cupa e triste, del tutto rafforzata e indotta dallo specchio: se nel primo caso vi è un confronto che concretizza in modo più marcato l’espressione non giubila provata dalla donna, nel secondo caso lo specchiarsi, induce l’arlecchino a prendere visione dei suoi reali sentimenti: la faccia infatti è quella tipica del lacrimevole Pierrot, nonostante il costume dell’allegro servo bergamasco. Ma d’altronde lo specchio rivela sempre chi abbiamo davanti, per cui non è mai possibile mentire a noi stessi, ed evidentemente quell'Arlecchino lo sapeva bene. 


P. Picasso, Ragazza allo specchio, 1932,
olio su tela, Moma, New York.
P. Picasso, Arlecchino allo specchio, 1923, 
olio su tela,  museo Thyssen-Bornemisza, Madrid.

martedì 22 aprile 2014

Frida Kahlo: il dolore, la fierezza, la bellezza.

Frida Kahlo, in una foto del 1939, copertina di un
numero del Vogue Magazine francese di quell'anno.
Raccontare di una personalità così forte tanto da divenire un’icona per le donne di tutto il mondo quale Frida Kahlo, non è impresa facile, eppure negli ultimi anni questa artista messicana artisticamente prolifica a partire dalla seconda metà degli Anni ’20, ha subito un riconoscimento mediatico d’eccezione, sicuramente spinto dalla pellicola Frida, in cui la stessa è stata interpretata magistralmente da Salma Hayek.

Tant’è vero che proprio in questa prima metà del 2014, la nota artista surrealista è in mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma (20 marzo – 31 agosto), mentre i suoi dipinti sono conservati in musei e gallerie d’eccellenza quali il MoMA o il Metropolitan Museum of Art, che appunto la relegano tra i maestri della storia dell’arte contemporanea.

F. Kahlo, Autoritratto con vestito di velluto,
olio su tela, 1926, Banco de México Diego Rivera
 & Frida Kahlo Museums Trust, Mexico D.F.
Una storia per nulla facile, quella di Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderòn, chiamata da tutti semplicemente Frida, perché per nulla semplice e scorrevole fu la sua vita: già nata con la spina bifida nel 1907, ben tre anni prima della Rivoluzione Messicana di cui andava così fiera da sentirsene figlia (per questo motivo mentiva sulla data di nascita posticipandola appunto al 1910), all’età di 18 anni fu vittima di un incidente così catastrofico da cambiarle totalmente la vita: trovatasi su un autobus che si scontrò contro un tram a Coyocàn, città nei pressi della Città del Messico, dov’era nata e cresciuta, subì la frattura della colonna vertebrale, del femore e delle costole, e dell’osso pelvico, oltre a numerose lussazioni e slogature al piede e alla spalla. Ma il colpo fatale le fu dato da un’asta corrimano che staccandosi dall’autobus le si conficcò nel fianco, per poi uscire dalla vagina, cosa che le provocò più di una trentina di interventi chirurgici e diversi anni di riposo a letto.

Frida Kahlo e Diego Rivera nel 1931, 
ad una manifestazione della Croce Rossa.
E come accadde per i migliori artisti come Modigliani o Matisse, fu proprio la degenza ad avvicinarla a colori e tavolozza. Il connubio tra la voglia di raccontarsi e di lasciare una parte di sé agli altri, il talento per la pittura e la curiosità di riscoprirsi attraverso gli autoritratti, portarono i genitori di Frida quindi a regalarle un kit di pittura e ad installarle sul letto uno specchio in modo che ella potesse adempiere al suo piacere senza necessariamente fare alcuno sforzo: ad oggi affascinano gli autoritratti ed i ritratti del biennio 1925 – 1927, molto delicati nelle tonalità e nella resa: l'Autoritratto con vestito di velluto del 1926, è infatti un gioco di tonalità sobrie e linee sinuose, che consegnano all'artista quella sensualità di cui non poteva godere fasciata e sofferente com'era, ma utile affinché il destinatario di quella tela, tal Alejandro Gomez Arias, potesse immaginarla in quel modo.

Un fascino che però esulava dalla presenza di un qualunque vezzo della Kahlo, che, piuttosto che puntare sulla bellezza, poneva le basi della sua artisticità e della suo pensiero morale sulla bellezza mentale: una bellezza magnetica nonostante o per via (chi lo sa) del suo monociglio, capace attraverso lo sguardo fermo e fiero, di affascinare grandi personalità politiche e letterate, che trascinate dal suo eclettismo, si concedevano a lei in qualità di amanti. 

F. Kahlo, Autoritratto con collana di spine e colibrì,
1940, olio su tela, Nickolas Muray Collection,
University of Texas, Harry Ransom Center, 
Austin
Primo fra tutti il noto artista connazionale Diego Rivera, che non solo l’avviò ad una conoscenza approfondita ed un attivismo di fondo del Partito Comunista (essendo egli stesso muralista ed artista inneggiante alle tematiche politiche e comunitarie messicane), ma che addirittura la sposò nel 1929: un matrimonio tanto intenso quanto libertino; se da un lato infatti Diego si lasciava andare a tradimenti anche sin troppo poco nascosti, Frida si concesse non di rado ad esperienze saffiche.
E fu proprio il tradimento di Diego con Cristina, sorella di lei, che spinse Frida prima a divorziare da lui nel ‘39, per poi riaccoglierlo tra le sue braccia l’anno a seguire; cosa che comunque non placò i numerosi tradimenti: celeberrimi sono quelli di Frida con Lev Trockij e André Brèton, ammaliati dalla fortissima personalità della donna.

Una peculiarità sicuramente interessante alla vista del continuo ed imperterrito travaglio della donna e della sua noncuranza assoluta per ogni forma di beltà: due elementi che ben si sposano nel suo percorso artistico, che fa trapelare la prorompente forza caratteriale di Frida, ma anche il suo disagio fisico, il persistente dolore, l’abbandono seguito ai lutti importanti come quello dell’amante Trockij nel 1940 o dei tre feti che portò in grembo – morti tutti per un aborto spontaneo -  tra il 1930 ed il 1934.

Infatti se nei primi anni del suo operato le sue tele sono connotate da un forte ego manifestato attraverso i suoi autoritratti dallo sguardo fiero, e dalla consapevolezza del suo valore in quanto individuo e non in quanto donna nel suo ruolo, (mostrando altresì un forte legame alle tradizioni ed al nazionalismo messicano negli ambienti, negli abiti e negli animali affiancati), negli anni ’30, maturata in una consapevolezza dettata dalle vicende legate alla sua vita ed al perenne dolore fisico, si apre ad una sorta di Surrealismo atipico, dove a farla da padrona è proprio la visione concreta del suo dolore.

F. Kahlo, Le due Fride, 1939, olio su tela,
 Museo di Arte Moderna di Città del Messico.
Ed ecco che nell’ultimo venticinquennio della sua vita, (Frida muore a 47 anni, nel 1954) fioccano tele che raccontano la voragine creata dal suo dolore, mai incessante, sempre colmato da alcolici ed oppiacei: Senza speranza, del 1945, è lo sputo crudele al mondo di ogni suo male: un grido taciturno di una donna immobile, intrisa di tutta quella negatività che si accumula nel corso di un’intera vita, simboleggiata da animali morti, marci e decomposti. O sulla stessa lunghezza d’onda, Le due Fride del 1939 e La colonna spezzata del 1944, raccontano la sua convivenza con l’atroce dolore fisico, in cui il cuore irrora sangue che si sparge sui vestiti e la colonna vertebrale diventa una colonna romana, rigida, ferma e spezzata in più parti e rattoppata coi chiodi, un po’ come lei, costretta a gessi e busti per tutta la vita, tanto che morirà in seguito ad una gamba in gangrena.


F. Kahlo, La colonna spezzata, 1944, olio su tela,
 Fondazione Dolores Olmedo, Città del Messico.

F. Kahlo, Senza speranza, 1945. Olio su tela,
 Museo Dolores Olmedo, Città  delMessico.




Ma forse il dolore più grande provato è quello seguito ai tre aborti, raccontati diverse volte con quella crudezza tipica della sua arte, che la raffigura in più riprese nuda nell’atto sfiancante di partorire se stessa, o come in Henry Ford Hospital, nel momento dell’abbandono, quel momento così triste e cupo di quando lei, simbolicamente legata al suo bambino mai nato tramite un filo sottile condiviso con altri cinque elementi tra cui un fiore ed il suo bacino, resta lì, ferma e muta nel suo dolore, come ha sempre fatto nella sua vita, ma non così fiera, da non lasciarsi andare ad una lacrima di addio. 

F. Kahlo, Henry Ford Hospital, 1932, olio su tela, Banco de México Diego Rivera & Frida Kahlo Museums Trust, Mexico D.F. 

giovedì 17 aprile 2014

Giovedì Santo a Canosa di Puglia: i Sepolcri e la storica processione della Madonna du tuppe tuzzele

Miniatura raffigurante la Cena
del Crisma del Giovedì Santo,
custodita nella Cattedrale di
S. Michele Arcangelo, Albenga.
Nei riti sacri Settimana Santa sovente si riscontrano elementi che affondano le proprie radici nel passaggio tra il credo profano e la nuova cultura di stampo paleocristiano.
Sicuramente cristiano per eccellenza è il rituale che si svolge il Giovedì Santo mattina, riguardante la Messa del Crisma, durante la quale il Vescovo consacra gli Olii Santi (Crisma, Olio dei Catecumeni ed Olio degli Infermi), che serviranno durante tutto il corso dell'anno rispettivamente per celebrare le Cresime e i Battesimi, ordinare i sacerdoti e celebrare il sacramento dell'Unzione degli Infermi.

 L'Ora Nona del Giovedì Santo conclude il tempo di Quaresima, e dà inizio al Triduo Pasquale, con la Messa in Coena Domini: questa è il memoriale dell'Ultima Cena consumata da Gesù nella sua vita terrena, nella quale fu istituita l'Eucarestia e fu consegnato ai discepoli il Comandamento dell'Amore. Nella celebrazione della Messa Coena Domini, si fa memoria dell’Istituzione dell’Eucarestia, del tradimento di Giuda e della suggestiva e rinnovata “lavanda dei piedi” a dodici persone, per ricordare l’umiltà del servizio di Cristo alla sua Chiesa.

Giotto, Lavanda dei piedi, 1303 - 1305, affresco,
Cappella degli Scrovegni, Padova. 
Certamente la lavanda dei piedi è un rito significativo, entrato all'interno della messa con la riforma del Triduo nel 1955; prima infatti aveva luogo fuori della messa. Questo è un rito che non intende affatto essere una rappresentazione teatrale, infatti le norme attuali non prevedono più 12 persone. Si tratta di un gesto simbolico e profetico di una Chiesa che, sull'esempio del suo Maestro e Signore, intende farsi serva dell'umanità.

La Coena Domini non è una cena qualsiasi, è l’Ultima Cena che Gesù tenne insieme ai suoi Apostoli, importantissima per le sue parole e per gli atti scaturiti: a tal punto, tutti e quattro i Vangeli riferiscono che Gesù, avvicinandosi la festa degli “Azzimi" (chiamata Pasqua ebraica), mandò alcuni discepoli a preparare la tavola per la rituale cena, in casa di un loro seguace.

Leonardo da Vinci, L'Ultima Cena, 1494 - 1498, affresco, Refettorio di S. Maria delle Grazie, Milano. 

A. Vaccaro, Cristo nell'orto
degli Ulivi, 1660, olio su tela,
Abbazia di Montserrat,
Monistrol di Montserrat. 
La celebrazione termina con la legatura delle campane, e la disposizione dell’ostia consacrata nel repositorio, conosciuto come sepolcro. Questi vengono aperti quindi alla venerazione della gente in cammino, in silenzio per le strade del paese a visitare le chiese, a pregare in gruppo, in famiglia o in associazioni.

Nel rispetto di una tradizione centenaria, nella ricorrenza del Giovedì Santo, la sera dopo la Messa Coena Domini, anche a Canosa in tutte le chiese delle parrocchie, vengono allestiti i “sepolcri”. Il sepolcro, per i cristiani rappresenta il luogo - l'orto del Getsemani - dove Gesù Cristo, si recò a pregare, sentendo ormai vicina l'ora in cui si sarebbe adempiuto quanto era stato scritto:
"Il figlio di Dio, fatto carne sarebbe morto per liberare l'umanità dal peccato".

Questo primo giorno del Triduo della Settimana Santa, rappresenta un momento di incisiva riflessione per ogni cristiano, che ritrova la propria vera essenza in Cristo, figlio di Dio, il quale come uomo sente tutto il peso, l'angoscia e l'amarezza del calice che si accinge a bere, ma nel contempo dà l'evidente testimonianza della forza dello Spirito che vince sulla debolezza della carne.

Tipico subbulkre del Giovedì Santo 
In età Barocca, si venne a plasmare l’ idea di allestire gli altari a simulazione del sepolcro di Cristo, effimere costruzioni teatrali all’interno di ogni chiesa, con al centro il tabernacolo, ornato di luci e fiori, che ospita i tredici piatti dell’Ultima Cena.
Facevano parte dell’ allestimento anche piantine di legumi, grano e orzo, che seminate il giorno di Mercoledì delle ceneri, e tenute in penombra in casa sotto i letti, negli armadi e nelle credenze per tutti i quaranta giorni della Quaresima, fino al Giovedì Santo, crescevano sottili e prive di clorofilla, conferendo al fogliame il classico colore bianco o giallo paglierino.
Queste piantine sono denominate in dialetto canosino “li sebbulkre”, o meglio questo è il nome attribuito ai vasi e piatti in cui crescono queste piantine, che a processo ultimato vengono inserite nell'allestimento dei Sepolcri delle diverse chiese, quale tributo dei fedeli.

Tutto questo tende a creare un’atmosfera alquanto suggestiva, in cui è possibile assaporare una particolare aria di sacralità che anticipa il sacrificio del Figlio di Dio; un'atmosfera che si fonde alla tradizione consolidata dei cittadini, che in particolar modo a Canosa, visitano quasi come se fosse una sorta di pellegrinaggio in itinere, le chiese della città, categoricamente in numero dispari.

Infatti secondo la tradizione le chiese che i fedeli devono visitare per adorare l’ Eucarestia devono essere tre, cinque o sette, così di uguale numero devono essere le preghiere che il fedele deve assolvere al loro interno.
Sovente alcune vie che portano agli ingressi delle chiese, che per l’ occasione rimangono aperte per tutta la notte, sono illuminate da ceri e candele, e sui balconi che si affacciano a queste, vengono stesi panni e lenzuola rigorosamente bianchi, che secondo la tradizione, dovevano indicare alla Madonna la via giusta da perseguire per raggiungere suo figlio.

Altari dei Sepolcri a Canosa di Puglia

La Madonna du tuppe tuzzele, un tempo
in processione per le vie di Canosa, durante
la sera del Giovedì Santo.
Quest’ultima usanza, riconduce ad una tradizione sacra canosina, di cui ormai rimane solo qualche vecchio ricordo nelle menti dei più anziani: la processione della “Madonna du tuppe tuzzele” altrimenti chiamata “l’Addolorata del Giovedì Santo”, di cui ormai non ne è più venerato il culto.
Anche questa Madonna segue l’iconologia dell’Addolorata portando nel grembo un pugnale d’argento, e vestendo un abito luttuoso ricamato con fili d’oro e pietrine colorate, così come il velo. Tra le mani il candido fazzoletto ricamato custode delle lacrime versate.

Ancora oggi la memoria popolare rievoca nella cristianità questa processione, che si svolgeva non solo a Canosa di Puglia, ma anche in altri paesi pugliesi fino alla seconda metà dell’ 900.
La denominazione nella radice onomatopeica rievoca la figura di Maria Addolorata che in cerca del figlio Gesù, “tuzzelève”, cioè bussava alla porta delle chiese.

Secondo fonti orali ad opera di alcuni testimoni dell’evento, l’Addolorata del Giovedì Santo, usciva dal Carmine, indirizzata verso la Cattedrale di San Sabino, dove una volta giunta, bussava per onorare il figlio. L’altra Addolorata (l’Addolorata portata ancor oggi in processione, nel Venerdì antecedente alla Domenica delle Palme), invece usciva dall’Oratorio di San Biagio.

Le due effigie sacre, si incontravano e sostavano presso Palazzo Rossi al Corso San Sabino, dove un gruppo di operai, “i cantori di San Biagio”, esprimeva la preghiera con canti popolari.

Sicchè mentre la Madonna du tuppe tuzzele si dirigeva in Cattedrale dove prima di entrare, nel bussare veniva accompagnata da alcuni cavalli, che venivano fatti inginocchiare davanti al portale, l’Addolorata di San Biagio invece proseguiva per tutte le chiese accompagnata dai gruppi oranti, costituiti da famiglie, e diversi gruppi di preghiera, così come avviene oggi nella sera del Giovedì Santo per la visita dei Sepolcri.