domenica 31 marzo 2013

Giovani Talenti: Silvia Squillante




Laureanda in Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Roma Tre, Silvia Squillante è una delle persone più autocritiche, precise, meticolose, diligenti e perfezioniste che io conosca.
Pertanto, dato che la mia rubrica vuole analizzare giovani talenti che con le loro idee ed i loro ragionamenti vogliono rivoluzionare l’Italia di oggi, non posso esulare dall’intervistare una futura storica dell’arte davvero talentuosa.
Analizzando le sue idee, sono sicuro, si riuscirà ad estrapolare il suo valore ed il suo eclettismo, mai lasciato a se stesso, sempre supportato da curiosità e voglia di sapere.


D: Silvia, solitamente pongo la domanda sul rapporto intervistato – territorio d’origine e di residenza a metà dell’intervista. Con te preferisco iniziare da questa, sapendoti molto legata alla tua Liguria.
 Il fil rouge che unisce questa e le altre interviste è la domanda sul rapporto con il territorio.
Sono del parere che il territorio formi, motivi, educhi e plasmi in qualche modo alcuni lati del carattere di una persona. Quanto ha inciso sul tuo essere, la terra in cui sei nato e hai vissuto? Qual è il rapporto che vivi con il paese in cui risiedi?

R: Dunque, credo di dover doppiamente ringraziare la mia Liguria per un motivo semplice: si è fatta odiare a tal punto da farmi decidere che era giunto il momento di prendere, fare le valigie e partire il più lontano possibile, e allo stesso tempo si è fatta amare così tanto da rendere ogni paragone con qualsiasi altro posto io visitassi (almeno in Italia) assolutamente vano. Lei, per me, vinceva sempre!
È strano perché da quando mi sono trasferita a Roma ho conosciuto ragazzi e ragazze provenienti per lo più dal sud del Paese e, soprattutto durante i primi anni, confrontandomi con loro sentivo che avevano un campanilismo spiazzante, a volte quasi assurdo ai miei occhi, facendomi sentire una “traditrice” nei confronti della mia terra. Sentivo dire “appena presa la laurea tornerò a casa mia, perché qui non si vive bene come la!” oppure “quando torno a casa appena passo il confine della mia terra sento l’odore nell’aria, la riconoscerei a occhi chiusi!”, più tutta una serie di frasi che mi lasciavano a metà strada fra lo sconcerto e lo spavento (ma che cavolo di individui ho conosciuto?!). Nonostante ciò questo tipo di incontri mi facevano riflettere: perché io non provavo queste sensazioni? Perché non sarei mai e poi mai tornata a vivere in Liguria, io che non sono andata a studiare a Genova perché 100 km di distanza da Imperia mi sembravano troppo pochi?
Non conosco il dialetto ligure (lo capisco abbastanza, ma parlarlo è un’altra storia), non conosco approfonditamente la storia e le caratteristiche della mia città, se incontro le persone per strada non capita quasi mai di salutare visi noti, non per maleducazione, ma perché davvero non li conosco (e non stiamo parlando di una metropoli … Imperia ha 42.325 residenti!), insomma da questo punto di vista rispecchio benissimo l’indole del ligure medio: mi faccio i cazzi miei!
Fosse finita così sarebbe la storia di un amore mai nato, e invece no, la svolta c’è stata, eccome!  Per le ricerche riguardanti la tesi triennale in “storia e conservazione del patrimonio artistico” sentivo di dover fare qualcosa che sottolineasse il legame con il mio paese. Ricordo ancora quando ne parlai con la mia relatrice, si mise subito a cercare su internet un argomento riguardante Imperia potenzialmente interessante per una tesi … Dopo circa cinque minuti mi guardò e mi disse: “No, su Imperia non c’è nulla!” (bastava che me lo chiedesse e le avrei detto le stesse parole prima di iniziare la sua ricerca..). Così mi dedicai ad una tesi riguardante i rapporti artistici fra Fiandre e Genova, che alla fine del 1500 iniziava ad essere il centro del Mediterraneo ed il porto del Nord Europa. Era scattata la scintilla dell’amore! Non mi ero mai resa conto fino a quel momento di quanto fosse bella la Liguria, la sua storia, i suoi paesaggi, il suo mare (che secondo me, non c’è niente da fare, è il più bello d’Italia, acqua fresca anche ad Agosto, un colore blu profondo e fondale sabbioso … che meraviglia!), il suo cibo, la sua entroterra, i suoi porti, la sua gente (che anche se ha tanti difetti, sono pur sempre le caratteristiche tipiche di un ligure, lo rendono diverso e quindi speciale!).
Lasciando da parte tutti le critiche che si potrebbero fare riguardo al fatto che la nostra terra non venga assolutamente “sfruttata” per dare svago e possibilità ai giovani, che non vengano proposte iniziative nuove di grossa portata, che moltissime persone non sappiano assolutamente cosa voglia dire trattare con i turisti per farli tornare a casa con il sorriso e la contentezza di aver scelto noi piuttosto che un’altra regione (potrei scrivere un libro riguardo questo punto!), ecc.. è bene focalizzarsi sulle cose davvero belle, e metto la mia parola sul fatto che ci siano in abbondanza e che varrebbe la pena vederle o provarle in prima persona!


D: A Roma sei riuscita a trovare qualche lavoretto più o meno di spessore nell’ambito presso cui ti stai formando. Lavori con i bambini, occasionalmente, accompagnandoli come guida turistica nelle loro gite e sei assistente di sala presso i Musei Capitolini. Cosa ti è stato possibile trarre, facendo un resoconto ad oggi, di positivo e  di negativo da questa esperienza?

R: Sono davvero contenta di essere sempre stata in grado di trovare qualche lavoro, più o meno aderente ai miei studi, che mi abbia dato la possibilità di aiutare in primo luogo i miei genitori con le spese che hanno dovuto affrontare in questi anni per mantenermi in una delle città più care d’Italia. Non solo i costi delle tasse universitarie e dei libri necessari per i corsi sono alti, ma gli affitti soprattutto hanno raggiunto nel corso degli anni dei livelli impressionanti. È chiaro che senza di loro non sarei mai potuta rimanere qui, quindi la prima necessità è stata trovare qualche lavoro per contribuire ai loro sforzi. Chiaramente oltre a questa motivazione c’è stata anche la necessità di entrare gradualmente nel mondo del lavoro, di acquisire una professionalità in vari ambiti che altrimenti non avrei potuto avere se non in una grande città d’arte com’è Roma.


D:  Una volta ti accolsi a discutere con me circa il mio articolo su Svirgolettate, inerente alla denuncia dei musei a rischio chiusura in Italia, di cui riporto il link
(Musei a rischio di chiusura nel Bel Paese), poi per gli impegni di entrambi, il tutto è passato in secondo piano. Cosa pensi a riguardo della mancanza di personale adeguato nei musei italiani?

R: Sono d’accordissimo sul fatto che in molti siti italiani la scarsità, se non l’assenza, di personale sia deleterio all’immagine che il Paese mostra agli occhi dei turisti stranieri. Molti luoghi d’arte sono letteralmente abbandonati a se stessi, senza nessun tipo di controllo o di manutenzione a causa dell’assenza di fondi da impiegare in questo settore. Questo è un duro colpo per chi ama l’arte e non solo. Sono sicura che vedere Pompei crollare a pezzi faccia male a tutti. Ma in molti casi, vivendo la situazione “da dentro” (nel mio caso ho avuto la fortuna di lavorare nel museo più antico del mondo, i Musei Capitolini) mi sono resa conto di quanti soldi vengano letteralmente buttati via per stipendiare persone che non solo non possiedono una qualifica adeguata, ma che in molti casi non svolgono il loro lavoro in modo professionale. Moltissimi dei miei colleghi hanno avuto la fortuna di entrare all’interno di questo circuito quando ancora il Museo era in crescita e c’era una forte necessità di personale. Da quel momento, come spesso accade in Italia, hanno iniziato a dare per scontato che quell’impiego e quello stipendio erano qualcosa di dovuto, indipendentemente dallo zelo con cui vi si dedicassero. Questo atteggiamento, purtroppo, lo ritrovo quotidianamente e nonostante il periodo di forte crisi lavorativa che stiamo vivendo non vedo alcuno sforzo da parte di molti (non tutti per fortuna!) per dimostrare di meritare la mansione per cui sono stati assunti anni fa. È per questo motivo che, in alcuni casi, un taglio del personale sarebbe auspicabile, per far si che gli impiegati all’interno degli ambiti museali si rendano conto che nulla è ormai scontato, che nulla è dovuto, e che lo stipendio che si è portato a casa alla fine del mese è frutto di sforzi e di un vero lavoro.



D: Ami metterti in gioco, sperimentare, conoscere. Per chi non ti conosce sei una piacevole scoperta, per chi ti conosce sei un esempio da seguire per ambire all’eccellenza. A dimostrazione di quanto dico, la scelta di argomentare una tesi in arte contemporanea, nonostante la tua predilezione per l’arte moderna.
A detta di ciò, per il tuo futuro ti auspichi di perseguire la tua specializzazione verso un filone più moderno o più contemporaneo?

R: Purtroppo mi trovo a rispondere a queste domande in un periodo di mia personale crisi interiore. Mi spiego meglio.
Non vorrei essere estremamente pessimista riguardo le possibilità lavorative del futuro, ma cercando di essere realista non credo di poter avere la possibilità di continuare all’interno di questo ambito. L’arte è ormai da tempo sinonimo di mercato e di affari, quindi per entrare in questo settore come artista o come critico c’è bisogno di avere prima di tutto delle conoscenze “importanti” e, in secondo luogo ma non meno importante, una forte capacità di persuasione nei confronti di chi detiene la scena (detto in parole povere bisogna leccare il culo a parecchia gente!). Credo non solo di non rientrare all’interno di queste due categorie, ma anche se mi sforzassi di plasmare il mio carattere secondo questo modello il risultato sarebbe fallimentare, non sarei convincente credo.
Quello che mi auspico per il mio futuro è di trovare un qualsiasi lavoro onesto che mi faccia tornare la sera a casa soddisfatta di me stessa, con il sorriso sulle labbra e che mi dia la possibilità di creare una famiglia.
Ho deciso ormai parecchi anni fa che avrei studiato storia dell’arte perché è la mia passione, perché mi fa viaggiare con l’immaginazione e mi lascia a bocca aperta ogni volta. Ma ero consapevole che, forse, non sarebbe diventato il mio mestiere. Quello che mi sono sempre ripetuta è “Preferisco essere una cassiera del supermercato che conosce Caravaggio o Pollock piuttosto che no”, e quindi mi sono impegnata con passione e con diligenza nei miei studi, ma senza un secondo fine. Nel caso contrario sarebbe stato come sostenere che uno studente sceglie di seguire medicina per avere in futuro un grosso stipendio piuttosto che per salvare delle vite umane. Sarò una sognatrice, ma per me questo discorso non ha nessun senso.
Con ciò non voglio dire che ho abbandonato completamente la volontà di lavorare nel mondo dell’arte, anzi me lo auguro di cuore, sarebbe una realizzazione personale grandissima! E, se ne avessi la possibilità, in questo momento non saprei davvero a quale specializzazione dedicarmi: la mia passione è l’arte moderna, però scopro ogni giorno di più cose interessantissime dell’arte contemporanea, in particolare gli anni ’60 in Italia.


D: Ultima domanda, la dedico all’arte. Cos’è per te l’arte?
C’è un’opera d’arte o un artista che preferisci tra tutti?

R: E’ una domanda dove potrei dire tutto e niente allo stesso tempo. Troppo difficile cercare di dare un’unica definizione …
Secondo me l’arte è da sempre l’espressione più bella dell’intelligenza umana, la parte migliore dell’uomo, la creatività e la passione unite nello stesso risultato.
Non ho un’opera preferita, è questo il mio problema purtroppo, mi piace tutto ciò che presenta qualche particolarità che la distingue dalle altre. Però confesso che al Museo del Prado, davanti alla Crocifissione di Rogier van der Weyden mi è scesa una lacrima … 

venerdì 29 marzo 2013

I Fiorini maestri del violino


Il mio colore preferito è il giallo. È il colore che prediligo più in assoluto, forse perché trasmette energia, solarità; è un colore caldo, è il colore dell’estate.
E il mio numero preferito è il 7. Già da piccolo ero affascinato dalla sfera a sette stelle di Dragon Ball, trovavo che rispetto alle altre avesse qualcosa di perfetto, di più armonioso: vedevo quelle sei stelle come fossero colonne di un tholos e la stella centrale quasi fosse l’altare.


E per ogni elemento ho le mie preferenze. Anche sulla musica.
Amo la musica in genere, ma trovo che la musica anni ’60 – ’70 sia la massima affermazione del sentire italiano. Mentre sugli strumenti, beh, sugli strumenti musicali non ho proprio dubbi: sin dai primi momenti in cui sono stato in grado di formulare pensieri autonomamente, il mio strumento musicale preferito è il violino. Adoro le sue forme sinuose, l’eleganza estrema della sua testa, della cassa armonica e delle effe.   
(Per una visione tecnica del violino, vi consiglio la pagina ufficiale di Wikipedia: Violino)

Sicchè grande è stato il mio stupore, mentre divertito cercavo informazioni sui violini nell’arte, nello scoprire che due dei più grandi liutai della storia del violino, portavano il mio cognome:  Raffaele (padre) e Giuseppe (figlio) Fiorini.
Ovviamente non potevo che vertere la mia ricerca iniziale sulle figure di Raffaele e Giuseppe Fiorini e raccogliere un po’ di idee a riguardo di questa talentuosa personalità.

Raffaele Fiorini
Raffaele Fiorini fu una delle figure liutarie più rappresentative ed eclettiche della storia della liuteria moderna italiana; autore di una rinascita di quest'arte nel capoluogo emiliano.
Nasce a Musiano di Pian di Macina il 15 luglio 1828 ma trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Bazzano con i genitori che possedevano un mulino, esercitando la stessa professione del padre ma mostrando nel contempo, spiccati talenti artistici e musicali. Talenti che tradusse nella passione per la liuteria, iniziando a costruire i primi strumenti.

Dopo una decina di anni da queste prime esperienze, dopo giudizi positivi del professor Carlo Verardi,  su incitamento di questo, aprì una bottega a Bologna nel 1868. Così si trasferì in città con la famiglia, ed avviò la sua attività nell'affascinante ambientazione di Palazzo Pepoli, non lontano dal Liceo Musicale.

Seppe in breve guadagnarsi un posto di rilievo nel suo nuovo ambiente, attirando a sé un certo numero di apprendisti di talento: Augusto Pollastri, Cesare e Oreste Candi, Armando Monterumici e il figlio Giuseppe che, ad appena 9 anni, riusciva già a scolpire i ricci per i violini del padre.
Tutti nomi destinati alla fama e a divenire liutai di riferimento del ventesimo secolo.
Dalla storica bottega uscirono principalmente violoncelli, violini e qualche contrabbasso; oggi restano pochi violini, ma diversi violoncelli, riconoscibili dal modello classico e dalla vernice ad olio rosso-bruna.

Raffaele Fiorini ottenne anche diversi riconoscimenti per i suoi strumenti: una medaglia d'argento con plauso all'esposizione internazionale di musica di Arezzo del 1882; ed una medaglia d'argento all'esposizione di Torino del 1884.

Albero genealogico della liuteria bolognese moderna

 A continuare l’arte di Raffaele quindi, fu suo figlio Giuseppe, nato nel 1861.
Giuseppe lavorò per diversi anni con il padre - che dapprima si era opposto alla sua vocazione, ritenendo tale arte poco redditizia - nell'apprezzata e fiorente bottega artigiana sita nel palazzo Pepoli, occupandosi in particolare della costruzione e riparazione dei violini.

Giuseppe Fiorini
Nel 1877, all'età di sedici anni, costruì quindi il suo primo violino e nel 1881 aprì una propria bottega di liuteria. Conquistato nel 1888 il primo premio assoluto alla Esposizione internazionale di musica di Bologna, l'anno seguente si trasferì a Monaco di Baviera dove strinse amicizia con W. Benno, primo violino dell'Opera di quella città, con il principe Luigi Ferdinando di Baviera e A. Rieger, il più famoso dei liutai bavaresi, del quale divenne prima socio e poi nel 1889 genero, avendone sposato la figlia. Nel 1896, ritiratosi il Rieger dalla professione, il F. rimase unico titolare del laboratorio.

Nel 1914, allo scoppio della guerra, Giuseppe trasferì la sua bottega a Zurigo, dove il suo lavoro fu presto apprezzato, tanto da aggiudicarsi nel 1920, per 100.000 lire, dalla marchesa Paola Della Valle del Panaro di Torino, la famosa collezione degli arnesi che avevano fatto parte del laboratorio di A. Stradivari e il violino del celebre maestro cremonese. Particolare curioso è che, dopo aver corrisposto un acconto di 20.000 lire e non disponendo dell'intera somma, Giuseppe dovette indebitarsi per pagare il resto, pur di battere il concorrente, l'ambasciatore francese a Roma C. Barrère. (Nello stesso anno Barrère si rese intermediario tra lo Stato Italiano e quello Francese per il restauro delle tele del Caravaggio in San Luigi dei Francesi, vedi )

Giuseppe Fiorini riprodusse con arte lo Stradivari originale e le copie ottennero un grande successo presso collezionisti e utenti. Nel 1923 si recò a Roma con l'intento di aprire una scuola di liuteria, sogno che non riuscì a realizzare a causa di una malattia agli occhi che lo rese quasi cieco e lo costrinse a rinunciare alla sua arte. Tornò a Bologna e quindi si trasferì a Monaco con la speranza di recuperare la vista grazie ad applicazioni elettriche. Svanita anche questa speranza, Giuseppe affidò le riparazioni dei violini al suo allievo ed amico W. Turcké-Bebié, che già numerose volte lo aveva sostituito nel lavoro quando si trovava all'estero.

Nel 1930 donò al Museo di Cremona la collezione dei cirrieli appartenuti a Stradivari, con l'obbligo che fosse pubblicamente esposta e col proposito di fondare una scuola di liuteria, da lui diretta. Il progetto tanto accarezzato e al quale il Fiorini aveva sacrificato tutti i suoi risparmi sarà realizzato solo nel 1937, dopo la sua morte, avvenuta nel 1934, quando, in occasione del bicentenario della morte di Stradivari, la città di Cremona accolse l'idea di fondare la scuola di liuteria.

Costruttore appassionato e fecondo, usò un metodo basato su un accurato studio del rapporto fra legno utilizzato e vibrazioni volute durante la fabbricazione dello strumento  che il Fiorini aveva appreso afferando le proprie capacità e il proprio intuito. Contrariamente a quanti pensavano che lo strumento si forma col tempo, egli sosteneva che "l'instrumento nasce buono e perfetto". Profondo esperto di strumenti antichi, la sua competenza fu riconosciuta in Europa e in America.

Di lui si conoscono oltre cinquecento strumenti. La sua etichetta italiana è "Fiorini Giuseppe fece in Bologna anno ..."; quelle datate da Monaco: "G. Fiorini München 1899" e "Anno 1905 - München - Giuseppe Fiorini Bolognese", quindi "Giuseppe Fiorini - München 1913 M. p.".  

Nel Settembre 2011 i violini originali di Giuseppe Fiorini furono esposti al Museo della Musica, come tributo al Cna ed ai suoi liutai, a 150 anni dalla nascita di questa istituzione.
In mostra configuravano un violoncello del 1907, una viola del 1924 e tre violini rispettivamente del 1918, del 1924 e del 1925.
La mostra degli strumenti di Fiorini nell’ottobre si spostò poi a Cremona al museo Stradivariano.


 [Fonti: Cna Bologna Unione Artistico e Tradizionale, www.artigianatoartistico.com/fiorini2011]



giovedì 28 marzo 2013

La storia di Pamela Bianco, una pittrice enfant prodige


Per studiare la storia dell’arte, devi essere curioso. Se non sei curioso, se non scavi sempre più alla ricerca dell’oro, che sia la scoperta di un artista che prima non conoscevi o sia un documento inedito, un articolo di giornale che ti chiarisce idee offuscate, allora l’accademismo fa parte di te. E tanto vali.
Ancora, sfatiamo il mito per cui uno storico dell’arte conosce tutto di ogni artista. Non è vero, non può essere assolutamente vero.

Non è possibile conoscere tutta la storia dell’arte, perché ammettere una cosa del genere vorrebbe significare conoscere il più intimo anfratto del mondo ed ognuno dei sette miliardi di individui, quanti siamo al mondo. Perché tutti siamo degli artisti. Lo siamo ogni giorno, lo siamo inconsciamente. Poi è ovvio, chi si dedica maggiormente e fa delle sue ricerche la passione di una vita, tramuta il suo scopo in opere valenti e si differenzia dal comune. Ed è la fortuna critica a suggellare il suo successo. Se ciò che fai piace, sei a cavallo. Se ciò che fai piace, ha fortuna, ciò che fai ti rende immortale, ti rende un artista.
P. Bianco, Primula, 1920,
incisione. 
Detto ciò, io non conosco (e non posso conoscere) tutti gli artisti che hanno caratterizzato le diverse epoche della storia dell’arte, ma ogni giorno posso affermare che ne scopro piacevolmente, sempre qualcuno a me sconosciuto. Qualcuno che poi inglobo, che poi scruto, che poi ricerco e faccio diventare parte integrante del mio vissuto.

Oggi voglio condividere con voi una piacevole scoperta, Pamela Bianco, un’artista nata nel 1906 in Inghilterra ma cresciuta a New York, enfant prodige negli anni di avanguardia ed empirismo, pur rimanendo fortemente accademica nelle sue esecuzioni.

Devo ammettere, per onestà intellettuale, che mi son imbattuto casualmente nel suo mondo, folgorato da un articolo di giornale de La Domenica Illustrata, datato al 3 Aprile 1921, dal titolo La quattordicenne disegnatrice prodigio, che riporterò interamente, a seguire. Son rimasto così folgorato, che volendone sapere un po’ di più, attraverso mirate ricerche, ho delineato un ritratto carino dell’artista, sperando di riportarla all’attualità, dopo qualche decennio di silenzio.

L'articolo de La Domenica Illustrata del 1921, improntato su Pamela Bianco


Pamela Bianco nel 1921.
Pamela Bianco ha qualcosa di peculiare rispetto a molti artisti, che per quanto valenti magari hanno operato per pochi decenni della loro vita (un talento quale Raffaello muore a soli 37 anni): la sua carriera infatti, si svolse per ben otto decenni.  Bambina prodigio osannata per il suo talento già nel 1918, sviluppò e raffinò la sua pittura, sino a sfociare in uno stile prettamente americano – modernista, senza comunque tralasciare la passione per l’incisione che coltivò sino al 1930.

Il forte talento che la caratterizzava sin dagli albori della sua passione, le permise di varcare la soglia di gallerie altisonanti ed essere degna delle prime mostre monotematiche già dal 1919, quando appena tredicenne, poteva considerarsi affermata artista.
La carrier di Pamela infatti, fu letteralmente fulminante: la pittrice, nel 1919 - 1920 espose presso La Gallerie Leicester a Londra; presso le Gallerie Anderson a New York, nel 1921; alla Furman Gallery di San Francisco, nel 1922; ed a New York, sia alla Knoedler nel 1923, che alla Rehn nel 1927, ed alla Gallerie Firargid nel 1937.

Come desumibile da un articolo del Times Magazine (Arts), del 24 marzo 1924, intitolato Pamela Bianco, la sua fortuna critica risentì di giudizi più che positivi:

“The present exhibition at the Knoedler Galleries, Manhattan, of the work of the 17-year-old Pamela Bianco is surprising in the mature quality shown in her work. Here is no infant prodigy, but an artist who must be judged by mature standards.
The exhibit comprises some landscapes and still lifes in oil. The landscapes are all rather sentimental in treatment and tend toward a general scheme of green.
Pamela, of American and Italian parentage, has been known for some time as a child painter.

[La presente mostra al Knoedler Galleries, Manhattan, che espone i lavori della 17enne Pamela Bianco, è sorprendente per la qualità matura mostrata nei lavori suddetti. Non sarebbe corretto definirla una bambina prodigio, ma un’artista che dovrebbe essere giudicata con criteri maturi.
La mostra comprende alcuni paesaggi e nature morte ad olio.
I paesaggi sono tutti piuttosto di carattere sentimentale e tendono verso una visione generale che  predilige il verde.
Pamela, figlia di genitori americani e italiani, è nota da tempo come bambina pittrice.]

Dopo i primi anni di formazione Newyorkese, gli apporti più interessanti, derivano dai suoi viaggi  tra Europa e America, in movimento tra ambienti letterari ed artistici in Italia, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio assegnata dal Guggenheim. Le sue ampie amicizie inclusero i poeti Gabriele D'Annunzio, Walter de la Mare e Richard Hughes, gli artisti britannici James Manson, William e Ben Nicholson, gli artisti americani Joseph Stella, Leonora Carrington e Joseph Cornell, e molti mecenati e collezionisti come Gertrude Vanderbilt Whitney, George Gershwin, Cecil Beaton, Charlie Chaplin e Eugene O'Neill.

P. Bianco, Madonna con Bambino, olio su tela
 Le sue opere di maggior spicco, dipinti connotati da una precisione ossessiva e meticolosamente dettagliata sono scrivibili alla sua fase New Yorkese, nei primi anni ‘60.

Un decennio dopo la sua morte avvenuta a New York, nel dicembre 2005 in Inghilterra si è tenuta la prima mostra retrospettiva dei suoi lavori. La mostra comprendeva un cospicuo gruppo di disegni dal tratto delicato, appartenenti alla prima fase della sua formazione, ed illustrazioni del periodo di transito tra enfant prodige e affermata artista.
Nella mostra configuravano anche dipinti realizzati a Londra e nel Galles nel 1920, dipinti di quell’America rurale catturata dagli scatti di Walker Evans, realizzati tra il Connecticut ed il Maine nel corso degli anni ‘20 e '30, oltre agli innumerevoli raffiguranti stralci di New York dello stesso periodo. 
E ancora litografie moderniste dal 1930, dipinti raffiguranti nature stilizzate ed eleganti ritratti degli anni a cavallo tra il 1930 ed il ’40.
A chiudere i dipinti che denotano un carattere fortemente surreale, realizzati nel 1960.

P. Bianco, Cinque bambini che giocano, acquerello. 

Per una visione generale della sua arte, è possibile vedere alcune sue opere presso l’Art Institute di Chicago: http://www.artic.edu/aic/collections/artwork/artist/Bianco,+Pamela, opere dalle quali forse, nonostante l'evoluzione della sua tecnica e delle sue composizioni, è ben percepibile il pensiero di tutti, concretizzato da Gabriele D'Annunzio - "E' una meravigliosa bambina, il cui nome rassomiglia quello di un nuovo fiore" - per cui Pamela Bianco probabilmente, non è mai riuscita a scrollarsi di dosso la fortuna e la colpa, di essere stata sempre considerata come "la bambina prodigio".

mercoledì 27 marzo 2013

Religiosità e scienza: i restauri ad una statua processionale raffigurante l'Addolorata


Sin dai primi secoli del Cristianesimo, i fedeli hanno sempre dimostrato un’iconolatria (idolatria dell’icona) di base, quale traduzione materiale della figura divina su un supporto. Così tanto da battersi e muovere rivoluzioni quando si vedeva intaccato il suo diritto a manifestare il proprio credo adorando dipinti, statue e reliquie ritenute sante: celeberrimo è l’episodio riguardante il primo iconoclasta della storia, Leone III l’Isaurico, che convinto che una serie di disgrazie avvenute durante la sua reggenza, derivassero dalla collera divina che non accettava l’adorazione delle immagini religiose (contrarie alle leggi di Mosé), decise di distruggere l'icona raffigurante Cristo, facente parte della porta del palazzo, una delle più venerate nella Costantinopoli dell’VIII secolo, scatenando appunto una rivolta cittadina senza pari sia nella capitale.

Ancor oggi, è difficile decontestualizzare oggetti sacri, icone e statue processuali da discorsi meramente religiosi: proprio queste ultime, nel sud Italia sono così tanto idolatrate, da essere trattate come vere e proprie persone. (Ancora oggi a Minervino Murge, in Puglia, durante la Settimana Santa, la statua della Madonna dell’Addolorata viene vestita del suo abito luttuoso da una donna anziana che deve avere due requisiti di base: essere fedele praticante ed essere illibata).

Nel mio paese di origine, Canosa di Puglia, per effetto di un disciplinamento che ha avuto il suo exploit nell’azione gesuitica post-tridentina, ogni anno in occasione della Settimana Santa, si dimostra un fervido attaccamento alle statue raffiguranti la vergine e Cristo, che girano per le vie. Ovunque è gente che piange, gente che si stringe fazzoletti al petto e invoca la grazia e il miracolo per il parente caro ammalato: l’iconolatria è ancora un fattore fondante della religione.
(A tal proposito vedi articolo La Settimana Santa a Canosa di Puglia)

Questa larga premessa, si è resa necessaria per l’argomento che sto per affrontare: i restauri alla statua della Madonna dell’Addolorata, di Canosa di Puglia. A seguire, decontestualizzerò la statua dal suo ruolo di raffigurazione materiale della divinità, per riportarla a quello che tra le righe non ha smesso mai di essere: un’opera d’arte. Che in quanto tale va preservata e conservata anche attraverso i restauri.

IL TESTO A SEGUIRE PRESENTERA' IMMAGINI E DEFINIZIONI CHE POSSONO TURBARE LA VISIONE DEL LETTORE. 

La statua, più propriamente un manichino vestito dei relativi abiti, si erge per 163 cm, escludendo la base processionale.
Essendo un manichino, la scultura è composta da un mezzo busto in legno, con braccia snodabili nelle quali, attraverso un perno metallico, sono conficcate le mani.
L’intero busto a sua volta è avvitato ad un supporto ligneo, di sezione ovaliforme, la cui struttura cerca di imitare il volume di una veste.

La statua, della seconda metà del ‘700, è opera di uno sconosciuto artefice napoletano, che la eseguì su committenza. Il modello di questa scultura è molto ricercato, in sintonia col dramma appena perpetrato al proprio figlio e manifesta un evidente aspetto esangue e viso pallido.

Sia la statua, che la base processionale in legno dorato risalente alla seconda metà dell’800, sono state sottoposte a restauro rispettivamente dai dottori Giovanni Boraccesi e Valerio Jaccarino, che hanno riportato il complesso all’antico splendore  nel 2002; restauro reso necessario a causa di talune manomissioni apportate nel tempo. 

La statua dell'Addolorata di Canosa, prima del restauro
Dalla relazione sul restauro effettuato è stato possibile conoscere sia lo stato antecedente che il procedimento volto a rendere come nuova la statua in esame. A seguire riporto stralci e sunti della relazione del restauratore Borraccesi:

Da tale analisi, si è evinto che l’impronta lasciata da vecchi e malfatti restauri e da apporti posteriori alla creazione della statua, avevano lasciato un segno altamente negativo. Le mani dell’ Addolorata, infatti, erano completamente ridipinte a smalto, mentre il volto appariva alterato sia dal sudiciume, che da una vistosa fenditura posta all’ altezza della tempia sinistra. 
Una lunga parrucca, per nulla originale, era incollata sul capo della Vergine; qui inoltre, erano presenti diversi fori utilizzati sia per fermare il manto, sia per trattenere l’ aureola metallica. 

Dopo aver eseguito la normale documentazione fotografica, si è dapprima proceduto all’eliminazione delle vesti, ed allo smontaggio del busto dal supporto sottostante. La rimozione della parrucca, ha permesso la forte rivalutazione della plastica della statua, dal momento che ha visto il riapparire dell’ originaria capigliatura intagliata nel legno. 
Pur non presentando tarli, la statua è stata tuttavia sottoposta a disinfestazione, usando dei prodotti antitarlo. A seguire, la fase di pulitura, rimuovendo mediante una soluzione di acqua e ammoniaca, tutto lo sporco e le ridipinture.

La statua dell'Addolorata di Canosa, dopo il restauro.
Le diverse lacune sono state dapprima riempite con impasto di polvere di legno e di prodotto vinilico, e dopo stuccate con gesso e colla di coniglio.
Attraverso l’ uso dei colori a vernice, sono state riprese le parti danneggiate. Infine è stata data una verniciatura finale di protezione a conclusione dell’ intervento di restauro sulla statua.

Anche la struttura lignea della base processionale, realizzata nella seconda metà dell’ 800 con la tecnica della doratura a foglia oro (La doratura a foglia oro, è un processo di decorazione ornamentale usato su diversi materiali e con diverse tecniche per impreziosire un oggetto tramite l'apposizione di un sottilissimo strato di oro, detto foglia), presentava uno stato di conservazione precario. 

Interamente ricoperta da una vernice oro sintetica, nel corso del tempo, ha subito numerosi rimaneggiamenti. Su di essa, erano stati sovrapposti, svariati strati di doratura, che occultavano e rendevano pesanti i fregi intagliati.
Un’ accurata pulitura, ha messo in evidenza la struttura lignea originale, ormai abrasa e priva della sua doratura. Le lacune sono state stuccate e rasate, e successivamente si è proceduto alla fase preparatoria per la nuova doratura, con la tecnica del bolo armeno. dato a pennello come base. 

Base processionale prima del restauro. 
Base processionale dopo il restauro




In ultimo sono stati applicati i fogli d’oro, con una missione adesiva. (La missione è uno speciale composto usato per applicare la doratura su parti ridotte. È necessario isolare il fondo della tavola con qualche stesura di colore acrilico, da levigare una volta conclusa la applicazione. La missione è una colla di olio di lino, resina e pigmenti, che va distribuita con cautela in una o due mani, usando un pennello piccolo e morbido).

Addolorata di Canosa di Puglia a restauro completato.
Addolorata di Canosa di Puglia in tutto il suo splendore

Ad oggi, dopo undici anni da quest'ultimo restauro, la statua dell'Addolorata è stata condotta in processione per le vie del paese nel suo più fulgido splendore, a dimostrazione che anche se con una giustificata reticenza di fondo, accettare un compromesso che vede la convivenza di religiosità, scienza e tecnica, non fa poi così male. 

lunedì 25 marzo 2013

La Settimana Santa a Canosa di Puglia

La Settimana Santa a Canosa di Puglia, prevede eventi, celebrazioni, riti e processioni tra le più suggestive del Meridione, rappresentando per la città un momento di coinvolgimento totale e di avvicinamento più accentuato alla fede e alla Chiesa, poiché vede un susseguirsi di processioni incentrate sul dolore di Gesù Cristo ma, ancor di più, della Madonna.

Il patrimonio di tradizioni legato agli antichi riti della Settimana Santa Canosa di Puglia, offre sia al visitatore che al cittadino, un percorso di fede e di religiosità carico di emozioni, in cui sacra liturgia e pietà popolare, gelosamente conservate, rivivono nelle tradizionali processioni.

In esse, religiosità e misticismo si fondono e trovano nelle suggestive architetture del nucleo urbano i luoghi privilegiati per lo svolgimento di riti religiosi che avvolgono il fedele e lo accompagnano in un’ atmosfera intrisa di spiritualità, di partecipazione emotiva e sensoriale, sottolineata dal suono struggente di marce funebri eseguite dalla banda musicale di Canosa.

Statua dell'Addolorata di Canosa di Puglia. 
L'iter della Settimana Santa, a Canosa di Puglia ha inizio il venerdì antecedente alla Domenica delle Palme, con la processione dell’Addolorata, cosa riscontrabile nel resto del Meridione, in quanto solitamente la Madonna dell’Addolorata viene venerata nel Venerdì di Passione; ciò nonostante non è altrettanto raro trovare paesi che preferiscono sfoggiarla in processione durante il Venerdì dei Misteri.
La statua dell’ Addolorata, che viene portata a braccia dai fedeli per le vie principali della città, fu realizzata nel XVIII secolo nel Napoletano, per volere della Confraternita dell’ Addolorata che ne commise l’ opera, e porta in grembo un cuore argenteo che riporta l’ iscrizione della commissione dello stesso, ad opera delle fedeli, nel 1878: “LE FIGLIE ALLA MADRE”.

Dal suo lungo manto nero, emerge il volto materno, (privo attualmente della folta chioma di capelli veri, ma poco veritiera nel complesso, in quanto non copriva totalmente la capigliatura intagliata nel legno), che esprime con intensità umana e spirituale, il pianto e l’ amore di Maria. In grembo la Madonna stringe il cuore argenteo, nel quale è conficcato uno spadino.
Il cuore trafitto è riportato anche nell’intarsio marmoreo policromo dell’ altare eretto a devozione dalla famiglia Fracchiolla nel 1886.

La Chiesa e la città di Canosa, rivivono la memoria dell’ Addolorata nella processione di un fiume di donne vestite di nero, nel prolungamento del manto nero di Maria, nella condivisione dei dolori e della fede della Vergine.

Alla guida della processione, vi sono sacerdoti e diaconi, che recitano il rosario sulla meditazione dei Sette Dolori di Maria, nel silenzio delle strade e della devozione popolare alla Vergine Addolorata.


Nella Domenica delle Palme, il primo giorno della Settimana Santa, il popolo canosino sente sulla propria pelle il senso di festa di questo giorno, che ricorda l’ entrata di Gesù a Gerusalemme, accolto ed osannato dal popolo che celebrava la sua venuta, sventolando palme e ramoscelli di ulivo, in segno di ovazione e di pace.
Come in un vero e proprio giorno di festa, i cittadini si vestono con i loro abiti più belli, al fine di recarsi in chiesa per la benedizione.
I capifamiglia, solitamente si recano nelle campagne per recidere i rami di ulivo (in mancanza delle palme, assenti nella campagna canosina) o per raccogliere i rami già recisi durante l’ operazione di potatura e insieme a tutta la famiglia, con ramoscelli alla mano da far benedire, si recano presso la propria chiesa così da percorrere al seguito del sacerdote della propria Parrocchia, le strade principali del quartiere d'appartenenza, in ricordo del percorso fatto da Cristo. Un percorso che permette la benedizione dei ramoscelli degli anziani impossibilitati a muoversi dalle proprie abitazioni.

La Passione Vivente, che si svolge a Canosa solitamente durante la
Domenica delle Palme. 
Nel pomeriggio si svolge la Passione Vivente, una tra le manifestazioni culturali e religiose più importanti è rappresentative di Canosa. Ogni anno da un ventennio a questa parte, richiama migliaia di spettatori che da tutto il Nord Barese ed oltre, vengono ad ammirare la sacra rappresentazione realizzata con attori del popolo, su uno scenario sempre vero e spettacolarmente importante.
Si tratta di una manifestazione originale della rappresentazione nel rispetto rigoroso della verità storica e religiosa, coniugata artisticamente con un linguaggio scenico attuale e vivo, in un suggestivo paesaggio frammisto anch’esso di antico ed attuale, di passato e presente.

Questa sacra manifestazione, ha come obiettivo sin dal 1991, per volere delle Comunità Parrocchiali di Canosa, al fine di dare valore e significato ulteriore alla Santa Pasqua, quello di far rivivere ai partecipanti, i momenti più salienti della vita di Gesù Cristo, crocifisso e risolto.
A seguire ha luogo il Triduo pasquale, ossia l’insieme delle celebrazioni più importanti della Settimana Santa.
Il Triduo ha inizio il Giovedì Santo con la Messa Vespertina in Coena Domini e successivamente con l’allestimento degli altari e la celebrazione dei Subbulkre, rito che vede il pellegrinaggio dei fedeli per le varie chiese che qui cercano un momento di preghiera.

Nel rispetto di una tradizione centenaria, nella ricorrenza del Giovedì Santo, la sera dopo la Messa Coena Domini, in tutte le chiese delle parrocchie, vengono allestiti i “sepolcri”. Il sepolcro, per i cristiani rappresenta il luogo - l'orto del Getsemani - dove nostro Signore Gesù Cristo, si recò a pregare, sentendo ormai vicina l'ora del suo sacrificio e viene reso attraverso l'apparecchiamento dell'altare a tavola imbandita di tredici piatti, quanti erano i commensali dell'Ultima Cena. 

Allestimento dei Subbulkre, nelle parrocchie di Canosa,
durante il Giovedì Santo. 
Fanno parte dell’ allestimento anche piantine di legumi o grano o orzo, che seminate il giorno di Mercoledì delle ceneri, e tenute in penombra in casa sotto i letti o nelle dispense, per tutti i quaranta giorni della Quaresima, fino al Giovedì Santo, crescevano sottili e prive di clorofilla, conferendo al fogliame il classico colore biancastro - giallino. 
Sovente alcune vie che portano agli ingressi delle chiese, che per l’ occasione rimangono aperte per tutta la notte, sono illuminate da ceri e candele, e sui balconi che si affacciano a queste, vengono stesi panni e lenzuola rigorosamente bianchi, che secondo la tradizione, dovevano indicare alla Madonna la via giusta da perseguire per raggiungere suo figlio.

Complesso statuario della Crocifissione,
in processione durante il Venerdì di Passione
per le vie di Canosa di Puglia.
Il Venerdì Santo è celebrata quindi la processione dei Misteri, che vede sfilare un nutrito gruppo di statue singole e complessi statuari raffiguranti i momenti salienti della Passione di Cristo e della Via Crucis. La processione dei Misteri, parte dalla Chiesa della Madonna del Carmine (anche detta del Carmelo);  questa è una delle chiese più antiche di Canosa. Nella chiesa aveva sede dal 1845 sino al 1987, la Confraternita del SS. Sacramento, che ogni anno organizzava la processione del Gesù morto, della Vergine Addolorata e del Reliquiario del Legno Sacro.

Da questa chiesa parte la processione dei Misteri, con antiche statue lignee, che rappresentano le varie stazioni della Via Crucis.
La prima statua della processione, è Gesù nell’orto degli ulivi, a seguire Gesù flagellato alla colonna; poi l'Incoronazione di spine Gesù che porta la croce e ancora la Veronica. 

Segue il complesso statuario della Crocifissione con le figure presenti sul Monte Golgota durante l'evento; Addolorata del Venerdì Santo, la Reliquia della Santa Croce ed il Cristo Morto,  che raffigura il corpo esanime di Cristo, deposto in una teca rettangolare di vetro, con basamento in pietra, e coperto da un drappo nero, con frange dorate che discende sugli angoli della teca.

Il Cristo Morto, portato in processione durante il Venerdì di Passione, per le vie di Canosa. 

Il Sabato Santo ha luogo la processione più suggestiva tra quelle presenti nel Triduo pasquale: la Desolata, un complesso statuario raffigurante la Madonna in Pietà, consolata da un angelo, preceduto da bambini travestiti da angeli e principi nobili, e seguito da donne vestite a lutto, che inneggiano lo Stabat Mater.

Complesso statuario della Desolata, in processione
la mattina del Sabato Santo a Canosa di Puglia. 
Un tempo la processione procedeva nel suo cammino sin dalle prime luci dell’ alba; in seguito, esigenze pastorali, dovute alla tutela dei bambini che partecipavano alla processione, hanno ritardato il suo inizio. Ciò nonostante, non è venuta mai ad affievolirsi, la partecipazione e l’ interesse dei credenti,  verso questo evento.

Il gruppo plastico attuale, raffigura la Madonna in Pietà, dal pallido viso, l’aria attonita, e lo sguardo rivolto al cielo, avvolta dal manto luttuoso bordato d’oro, recante nelle mani il fazzoletto di lino deposito delle sue lacrime, e la corona di spine del figlio. 

Nel suo petto è conficcato un pugnale, che riprende l’ iconologia dell’ Addolorata, in quanto la statua ne è una variante.

Dietro la Vergine si erge un angelo vestito da una candida tunica, che sembra porgere l’ aureola di santità sulla testa di Maria, che siede su una roccia, simboleggiante il Sepulcrum Domini, dalla quale svetta una grande croce, con la sindone sui bracci, a formare la M di Maria.

Esattamente come un tempo, oggi, la gente compostamente assiepata lungo i margini delle strade cittadine, assiste alla processione composta da numerosi bambini vestiti da angioletti, con tuniche colorate ed ali dorate, che portano i segni della Passione del signore, riconducibili a vari passi del Vangelo: la corona di spine, le funi della flagellazione, gli scudisci, le canne, i vari quadri raffiguranti le stazioni della Via Crucis, il calice, i dadi raffiguranti quelli con cui i soldati tirarono a sorte le vesti di Gesù, la Croce, la spugna imbevuta d’ aceto infilzata da un lungo bastone.

Primo piano de La Desolata. 
A seguire i bambini e la Polifonica, si manifesta la peculiarità della processione del Sabato Santo: un nutrito gruppo di ragazze vestite di nero, molte di loro scalze in segno di penitenza, e con il volto coperto con un foulard nero anch’esso, a significare il lutto ed il dolore di Maria per la perdita del Figlio, esegue il tradizionale e commuovente Inno della Desolata, conosciuto anche col nome Stabat Mater, l’ opera di Jacopone da Todi, da cui è stato evinto il testo della Marcia Funebre.

Il testo dell’ Inno alla Desolata, appartiene a Jacopone da Todi, mentre la musica appartiene al musicista Antonio Liotti che operò nel XVIII secolo.

 Il coro che canta l’ inno, è composto di 250 ragazze, nonostante l’ affluenza di richieste da parte delle giovani ragazze canosine. Un numero superiore non sarebbe gestibile durante la processione, quando per esempio nella zona vecchia del Castello, a volte l’ inizio del gruppo ha già girato per una stradina, mentre la coda con la Banda, sta ancora percorrendo la stradina precedente.
La processione termina in Piazza della Repubblica, ai piedi dell’ obelisco dell’ Immacolata; con il preannunzio del messaggio pasquale. 

Coro delle Pie donne velate, durante la Processione del Sabato Santo a Canosa. 

A chiudere il Triduo, la Veglia Pasquale e la celebrazione Eucaristica della Domenica di Pasqua.