domenica 22 marzo 2015

Il cibo e l'arte del mangiare nella storia dell'arte, all'ombra dell'EXPO

In occasione dell’Expo che si terrà a Milano dal 1 maggio al 31 ottobre 2015, anche Svirgolettate ha voluto onorare l’evento approfondendo alcune tematiche legate al cibo, in un post appositamente dedicato.
In fondo l’Italia, esulando da qualsiasi luogo comune, è rinomata in tutto il mondo proprio per essere un’eccellenza sia nel campo della cucina e del cibo più in generale, sia in quello dell’arte: due mondi che, quando si incontrano, danno adito a qualcosa di molto vicino alla perfezione.

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Diverse sono le tematiche riguardanti il mondo del cibo, nella storia dell’arte: molti artisti si sono cimentati in più occasioni, dipingendo nature morte, pranzi luculliani o cene bibliche e neotestamentarie – o scolpendole, si veda ad esempio l’architrave del portale della Chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, in cui Maestro Gruamonte nel 1166 raffigurò l’Ultima Cena; – pochi sono invece quelli che hanno fatto proprio del cibo il loro tratto di riconoscimento, come l’Arcimboldo verso la fine del XVI secolo.

Maestro Gruamonte, Ultima Cena, 1166, Portale della Chiesa San Giovanni Fuorcivitas, Pistoia

L’artista lombardo, noto per il suo modo di creare figure assemblando elementi comuni tra loro, usò infatti proprio alcuni frutti e vegetali per creare alcuni ritratti, dalla forte connotazione angosciante: l’Ortolano del 1590, custodito al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona è infatti una tela che ha come soggetto una composizione di frutta e verdura disposte in una ciotola nera. Ma ruotando la stessa natura morta di 180°, quel che ne esce è il ritratto di un uomo paffuto, che ha come cappello la ciotola scura, e come tratti fisiognomici le cipolle in qualità di gote, la rapa bianca come naso, noce e ghiande come occhi.

G. Arcimboldo, L’ortolano, 1590, olio su tela,
Museo Civico Ala Ponzone, Cremona
G. Arcimboldo, L’ortolano, 1590, olio su tela, 
Museo Civico Ala Ponzone, Cremona

Nella storia dell’arte, ad ogni modo, solitamente il cibo è sempre stato raccontato pressappoco attraverso due grandi punti di vista: la rappresentazione - dal vero o figurata - degli alimenti e il rapporto dell’uomo con esso. Un rapporto non solo di dipendenza, ma proprio di necessità impellente, perché proprio il cibo è linfa vitale sin dalla nascita di ogni essere umano.

Il latte che scaturisce dal seno della mamma nella bocca del bambino infatti, non solo è simbolo di legame tra genitore e figlio, ma risulta anche essere elemento di continuità tra le due figure: un passaggio di testimone dell’amore materno verso il figlio, un dono naturale portatore di vita.
Le madonne del latte, soggetti raccontati in più riprese dagli artisti di tutti i tempi, ben testimoniano questo legame non solo sacro, ma proprio affettivo tra la Vergine e il Salvatore, che prima di tutto sono mamma e figlio.

Molto espressiva è a tal punto la scultura in marmo dipinto della Madonna del latte di Nino Pisano, scultura della metà del XIV secolo, conservata presso il Museo Nazionale di San Matteo a Pisa:  il Bambino, cullato dalle amorevoli braccia della mamma, si aggrappa con le due mani al seno della donna, tirandole il capezzolo con la bocca per poter bere il suo latte.
Una visione tanto realistica quanto audace quella del Pisano, che non si riflette per esempio nel dipinto di Marco Zoppo, in cui il Bambino si fionda sulla tetta della mamma girata di tre quarti, nascondendole il capezzolo ma lasciando visibile il seno, così da rendere l’idea dell’abbeveramento.

N. Pisano, Madonna del latte,
1347 – 1348,  marmo dipinto,
Museo Nazionale di San Matteo, Pisa
M. Zoppo, Madonna del latte,
1453 – 1455, olio su tavola (poi su tela),
 Musèe du Louvre, Parigi

A. Carracci, Il mangiafagioli, 1584, 
olio su tela, Galleria Colonna, Roma. 
Una necessità che, con l’avanzamento dell’età, connubia con l’abitudine, trasformando quello che è il bisogno utile alla sopravvivenza, in un vero e proprio rito, molto spesso di piacere.
È quanto appare in generale nei dipinti che illustrano il momento in cui l’uomo incontra il cibo; un momento di sollievo e appagamento, come nel caso de’ Il mangiafagioli di Annibale Carracci, nella cui tela si intravede tutta la foga del contadinotto che si appresta a trangugiare la sua zuppa di legumi con voracità, evidente nella bocca spalancata pronta a ricevere la cucchiaiata sbrodolante, e nella presa ferma del panino con la mano sinistra.

D. Velázquez, Scena di una taverna,
 1617, olio su tela, Ermitage
 Museum, San Pietroburgo
Quando poi il singolo elemento incontra la comunità, il piacere di mangiare diventa condivisione. Una condivisione sociale quando avviene negli spazi adibiti alla consumazione del cibo come osterie, ristoranti e taverne. Luoghi che, molto spesso, si dimostrano essere la culla della vita del paese, aprendo a nuovi incontri e piacevoli conversazioni come nel caso della Scena di una taverna di Diego Velazquez, o fomentando discussioni e vere e proprie prese di posizione come nella divertente tela di Jan Steen Litigio per delle scommesse, nella cui taverna tipica dei paesi nordici, un gruppo di persone inizia a litigare in seguito alla vincita al gioco di alcuni a discapito di altri.

J. Steen, Litigio per delle scommesse, 1665, olio su tela, Art Institute of Detroit, Detroit

Non manca poi il tocco di classe, che arriva quando la tavola imbandita, il clima che si respira, i personaggi al tavolo e tutto il contesto, trasudano la tipicità di un luogo particolare. Un caso su tutti è la tela di Carl Heinrich Bloch, che illustra il convivio di tre ragazzi in un’osteria romana: gli abiti tradizionali dei tre giovani, lo sguardo seducente e ammiccante delle due fanciulle, in contrasto con quello intriso di gelosia e scontroso del giovanotto baffuto, la bottiglia di vetro contenente del vino rosso, i panini spezzati, l’insalata nel piatto centrale, il coltello nella tasca del pantalone di lui, il modo di tenere le posate della ragazza a sinistra, il modo di tener il bicchiere di quella a destra, sono indizi che riconducono ad un unico comune denominatore, la loro italianità.

C. H. Bloch, In un’osteria romana, 1866, olio su tela, Statens Museum for Kunst, Copenhagen

Giuseppe De Nittis, Colazione a Posillipo, 
1883, olio su tela, Galleria d'Arte Moderna, Milano 
Un’idea che negli stessi decenni si respira anche in una tela di un artista meridionale, il barlettano Giuseppe De Nittis, che nel 1883 dipinge un momento privato vissuto a Napoli con sua moglie ed alcuni amici.
Il dipinto immortala una colazione a Posillipo, avvenuta nel noto quartiere napoletano. La tavola è imbandita delle stoviglie, dei flute di spumante e di un rigoglioso bouquet di fiori rossi e bianchi, ma non vi è ancora nessuna traccia di cibo nei piatti che appaiono vuoti, il che lascia presagire che la colazione debba ancora avvenire. Sullo sfondo intanto, a rendere più magica l’atmosfera ci pensa l’avvento dell’alba, mentre il tocco caratteristico viene dato dai chitarristi neomelodici sulla destra.

E. Manet, Colazione sull’erba, 
1863, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi.
Una colazione che senza dubbi viene molto citata nelle lezioni di storia dell’arte, perché punto cardine della corrente impressionista, è La colazione sull’erba di Edouard Manet. La tela, che destò molto scalpore perché in qualche modo sembrava sbeffeggiare l’idea di arte quale materia nobile,  attraverso l’utilizzo di colori contrastanti tra loro e dell’introduzione di un soggetto diseducativo quale una donna nuda tra giovani borghesi, dal punto di vista che interessa l’argomento di questo post, raffigura tre giovani ragazzi che hanno appena ultimato la loro colazione, di cui rimangono resti di pane e frutta, su un panno azzurro ed in un cesto di vimini in primo piano sulla sinistra, secondo un’impostazione copiata da un’incisione di Raimondi del Giudizio di Paride di Raffaello.

C. Monet, Il pranzo, 1868, olio su tela, 
Städelsches Kunstinstitut, Francoforte
Colazioni molto lontane dall’idea tipicamente italiana del latte con biscotti e dolcetti di ogni tipo, molto più tendente alla visione nordica di piatti cucinati e ricchi di proteine e carboidrati, accompagnati con frutta di stagione. Quella che appare nella tela di un Henri Matisse ancora molto giovane e accademico, raffigurante una tavola imbandita. Il dipinto del 1896, dal chiaro tocco impressionista, apre infatti ad una tavola ricca di alzatine piene dei più variegati frutti freschi, accompagnati da alcune pagnottelle. È evidente nel dipinto però come, il chiaro intento del pittore francese non fosse quello di documentare le pietanze tipiche della colazione (o pranzo) in questione, ma quello di dimostrare la sua maestria nella resa dell’effetto vitreo di bottiglie e bicchieri, che paiono riflettere la luce del giorno proveniente dalle diverse aperture della stanza.

Anche l’intento di Claude Monet ne’ Il pranzo non è di certo quello di documentare le pietanze consumate dai suoi familiari seduti a tavola, bensì quello di raccontare un momento di vita privato; ciò nonostante però è lodevole l’accuratezza con cui il pittore si appropinquia al cibo in tavola: due uova fresche sul piatto di cui uno nel portauovo, pagnotte di pane di grano, uva a grappoli, un vasetto di  marmellata coperta da un panno, un piatto centrale con la pietanza del giorno, l’oliera e l’acetiera, la bottiglia del vino rosso. Tutti elementi che connotano non solo la qualità del pranzo del pittore ma anche il suo stile di vita medio borghese.

H. Matisse, La tavola imbandita, 1896, olio su tela, Stavros S. Niarcos Foundation, Atene

S. Lega, Un dopopranzo alla pergola, 1868, olio su tela,
Pinacoteca di Brera, Milano
E nel racconto delle diverse fasi giornaliere dell’incontro tra uomo e cibo, dopo il pranzo sopraggiunge il dopopranzo, quel momento in cui avviene la digestione, con l’aiuto del caffè o del digestivo secondo la buona tradizione mediterranea. Nel un dopopranzo alla pergola, il dipinto di Silvestro Lega custodito alla Pinacoteca di Brera a Milano, si respira tutta l’aria della primavera mediterranea: la presenza di un’atmosfera soleggiata ma non invasiva, l’ombreggiatura data dal pergolato e il prato in fiore, sono degli ottimi coadiuvanti al caffè portato sul vassoio dalla serva.

Leonardo da Vinci, Ultima Cena, 1494 – 1498, 
tempera grassa su intonaco, Refettorio
 Santa Maria delle Grazie, Milano.
Ovviamente così come la colazione ed il pranzo, anche la cena viene raffigurata sovente dagli artisti nel corso dei secoli. Ne sono chiare dimostrazioni gli innumerevoli dipinti raffiguranti l’Ultima cena o la Cena in Emmaus, due degli episodi neotestamentari più conosciuti dal popolo.
Uno degli esempi più lampanti di quanto detto è proprio il Cenacolo leonardesco sito nel Refettorio di Santa Maria delle Grazie, che sarà sicuramente uno dei punti di forza della città di Milano in pieno Expo: un’opera conosciuta al mondo per la drammaticità derivante dalla disgregazione dovuta all’inefficacia della tecnica pittorica adoperata dal grande maestro, che volle sperimentare la tempera grassa sull’intonaco.

Tra le raffigurazioni dell’Ultima Cena più riuscite vi è però senza dubbi quella di Alessandro Allori, attualmente all’Accademia Carrara di Bergamo, olio su tela del 1582. La tavola imbandita dove cenano Cristo e i discepoli è un tripudio di prelibatezze di campagna e di mare: olive, frutti di mare, limoni, pere, pane; tutto è pronto per la grande celebrazione di cui protagonista è il piatto centrale gigantesco che contiene il pane spezzato con cui Gesù farà l’eucarestia.

Una rappresentazione notevole quella dell’Allori, che non si discosta molto da quella presente sulle pareti interne della Basilica di Santa Maria Maggiore sempre a Bergamo, opera trecentesca di una maestranza locale, forse riscontrabile in Pacino da Nova, luculliana nelle portate, magniloquente nella dislocazione dei soggetti che avvolgono la lunga tavolata, lasciando però l’apertura adeguata a rendere la scena di stampo teatrale.  

A. Allori, Ultima Cena, 1582, olio su tela, Accademia Carrara, Bergamo
Pacino da Nova (?), Ultima Cena, 1375 – 1390, affresco, Basilica di Santa Maria Maggiore, Bergamo

Nulla a che vedere con la Cena in Emmaus sita alla National Gallery di Londra che il Caravaggio dipinse circa vent’anni dopo: quella del pittore lombardo è una cena più intima, meno studiata perché meno studiate sono le pose dei personaggi, più dinamica perché gli sguardi vengono attratti dalle mani di Gesù e del discepolo esterrefatto alla sua sinistra, piuttosto che dalle pietanze sul tavolo. Pietanze tra le quali, campeggia la canestra di vimini dipinta dal pittore un paio di anni prima.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601 – 1602, olio su tela, National Gallery, Londra 

Caravaggio, La canestra di frutta, 1599,
olio su tela, Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Ed è proprio la Canestra di frutta del Caravaggio, che ci conduce al secondo blocco argomentativo riguardante il modo in cui è stato raccontato il cibo nella storia dell’arte: la raffigurazione del cibo quale soggetto protagonista di un’opera.
In realtà non c’è molto da dire a riguardo, dato che sino all’avvento dell’arte contemporanea il cibo è quasi sempre stato raffigurato in maniera verosimile e inteso nel pieno dell’importanza ad esso relegato.

Sicuramente la Canestra di frutta del 1599 simboleggia un vero e proprio punto di rottura con il passato e, quindi, un punto di inizio per quella che sarà la concezione della natura morta quale protagonista unica di un’opera d’arte. Prima di allora infatti nessun artista si era dilettato nella raffigurazione di una natura morta a discapito di paesaggi o soggetti mitologici e religiosi.

Ma la Canestra di frutta del Caravaggio non è solo questo, è anche una spugna di riconduzioni simboliche e iconografiche: da un lato è evidente il richiamo alla Vanitas, della caducità della vita attraverso la resa di frutti colpiti da malattie e insetti, dall’altro i diversi frutti presenti sono un richiamo alla Passione di Cristo, come ad esempio l’uva da cui si ottiene il vino o la mela simbolo di salvezza.

P. Cezanne, Natura morta con mele e arance,
1899, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi
Tre secoli più tardi anche le nature morte di Paul Cezanne saranno connotate da un significato tecnico stilistico più che raffigurativo. Infatti le sue sei composizioni aventi per protagoniste frutti per lo più invernali, dipinte nel 1899 - una su tutte la Natura morta con mele ed arance – sono un modo concreto per ritornare all’idea di composizione fiamminga del XVII secolo, mantenendo però una nuova concezione plastica e dinamica d’insieme dato dalle arance sferiche e dalle mele piene e caratterizzate dalle mille sfaccettature cromatiche, che ben fanno da contrasto al panno bianco che a sua volta fa da contrasto al panno violaceo sullo sfondo, aprendo a quello che sarà il suo stile fatto di volumi e cromie contrapposte tra loro.

A. Warhol, Campbell’s soup cans, 1962,
pittura polimerica sintetica su tela, MoMA, New York
Saltando di qualche decennio, negli anni ’60 del Novecento, il cibo viene investito di una nuova etichetta più filosofica, divenendo ambasciatore di una visione dissacratoria dell’arte. È quanto fa Andy Warhol nel considerare la minestra in scatola come bandiera del nuovo modo di concepire l’arte.  Agli inizi del nuovo decennio rivoluzionario infatti, l’artista americano riprodurrà stampe, disegni e dipinti seriali della Campbell’s soup, una minestra preconfezionata distribuita nei supermarket oltreoceano.

P. Manzoni, Merda d'artista (47), 1961,
Scatoletta di latta e carta stampata,
 collezione Codognato, Venezia
L’intento di Warhol ovviamente non tende a riguardare la sfera estetica dell’opera in questione, - limitandosi a riprodurre una mera e sciapa scatoletta, - ma è quello di spingere il fruitore a considerare la nuova società a cui l’arte stessa si riferisce, una società ormai così omologata ed omogenea che, appunto, in barba a qualunque convenzione sociale, consuma la stessa scatoletta di minestra a prescindere dal ceto sociale d’appartenenza: un po’ quanto accade quindi pure nell’arte, che Warhol ripulisce del suo carattere aulico, rendendola riferibile a tutti, indistintamente, da quel punto in poi.
Anche in Italia, negli stessi anni, un artista milanese, Piero Manzoni, era alle prese con scatolette prodotte in modo seriale; scatolette che però non contenevano affatto zuppa di pomodoro o altri alimenti, bensì le feci dell’artista, sempre secondo una visione volta a cercare altre visioni dell'arte oltre e quella nobile. 

P. Manzoni, Consumazione dell'arte dinamica
 del pubblico divorare l'arte - esemplare n. 34,
1960, uovo - legno, Collezione Boschi di Stefano, Milano
Proprio allo stesso, è ascrivibile nel 1960, la performance “Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte”, tenutasi a Milano presso la Galleria Azimut, consistente nell’ingerimento da parte degli spettatori, di uova lesse che l’artista aveva marchiato con il suo pollice imbevuto di inchiostro: il fine della performance era quello di dimostrare come, la tangibilità di quell’evento, si perdesse nell’esatto momento in cui veniva ingerito l’uovo, simbolo concreto dell’avvenimento.
Ma non solo: l’uovo ingerito diveniva simbolo di un legame figurato tra artista e fruitore, legame simboleggiato dall’impronta del pollice marchiata sull’uovo lesso.

Sicuramente però, con l’avvento della tecnologia ed il perfezionamento dello stile pittorico attraverso il matrimonio di questo con la fotografia, è con il fotorealismo che si è ottenuta un visione del cibo identica nel dettaglio all’originale da cui è copiato, quasi come se fosse un’istantanea scattata.

R. Goings, Ciambella, 1995, olio su tela
Uno degli esponenti di questa corrente, Ralph Goings, nelle sue tele ben rende l’accuratezza e la precisione delle nature morte raffigurate; nature morte che molto spesso raccontano nel suo caso, il mondo underground delle metropoli americane a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, connotati dalle salse ketchup e maionese sui tavoli delle rosticcerie dei quartieri malfamati e dalle ciambelle semifredde accanto a volgari caffè spacciati per espresso, nelle anonime tavole calde dei ghetti più malfidati: realtà geograficamente e qualitativamente molto lontane da quella che molto probabilmente sarà la politica dell'EXPO.