domenica 18 gennaio 2015

Gli dei delle civiltà classiche nella storia dell'arte: ERA / GIUNONE

Era Barberini, copia romana II sec. d.C. di 
un’originale del V sec. a.C. attribuito
 a Agorakritos, Musei Vaticani, Città del Vaticano.
Era per i greci, Giunone per i romani, era la dea del matrimonio e della fedeltà coniugale, essendo regina dell’Olimpo, in quanto moglie fedele di Zeus, che a differenza di lei era fedifrago sino al limite immaginabile. Dea anche del parto, la sua figura incarnava i valori che dovevano appartenere ad ogni moglie e madre greca e romana, essendo anch’ella tale: per questo non di rado nelle statue classiche, veniva rappresentata con il polos, un copricapo cilindrico tipico delle matrone.
L’Era Barberini e l’Era Campana, due statue marmoree del II sec. d.C. riproducenti le fattezze di Era – Giunone, ripropongono nell’abbigliamento proprio il polos, a dimostrazione dello status sociale della dea quale matrona e moglie del capofamiglia.

L’Era Barberini, così chiamata perché appartenente alla famiglia Barberini, che se ne impossessò dopo il suo ritrovo nella campagna romana durante il XVI secolo, è una copia romana di un’originale greca attribuita ad Agorakritos (o più genericamente parlando, ad uno scultore fidiaco del V sec.): le sue sinuosità elegantemente nascoste da un arricciato peplo, il polos a coronare l’acconciatura raccolta e lo scettro, riconducono la statua marmorea proprio alla dea della famiglia, protagonista qui di rituali dedicati a lei, avendo in mano la patera, il tipico vasetto utilizzato durante sacrifici e riti.

Era Campana, II sec. d.C copia di 
un’originale greco ellenistica, 
marmo, Musèe du Louvre, Parigi
Gli stessi elementi e caratteristiche, sono riproposti nella Era Campana sita al Louvre, copia marmorea romana di un’originale greco ellenistica, così chiamata perché appartenuta al marchese Giampietro Campana, tra i più noti e invidiati collezionisti di antichità del XIX secolo.
Anche la Era Campana ha tra le mani lo scettro e la patera, ma a differenza della Era Barberini, la sua figura è intrisa di un’aria più sacra, per via del lungo peplo che le avvolge il corpo e le copre il capo, incorniciato dall’immancabile polos.

Una figura che, a partire dal XV secolo, fu presa da diversi artisti quale modello di donna virtuosa a cui ambire nella ritrattistica di nobili donne, o quale personificazione della benevolenza, in senso più astratto. Nel primo caso si veda il ritratto delle tre nipoti del cardinale Mazzarino, nel cui olio su rame del 1669, le tre ragazze – Maria, Olympia ed Hortensia – vengono ritratte nelle vesti di tre delle divinità più influenti dell’Olimpo: Venere (riconoscibile per via della rosa tra le mani), Diana (dea della caccia, avendo tra le mani un arco) e giustappunto Giunone, elegante nelle nobili vesti violecee e nella candida pelle.

Scuola francese, Ritratto di tre nipoti di Mazzarino, come Venere, Giunone e Diana, 
1660, olio su rame, Musèe du Petit Palais, Parigi. 

D’altronde questa introduzione delle divinità all’interno dei dipinti a carattere allegorico contemplativo fu molto in voga nell’Europa del Cinquecento e Seicento, a cavallo tra Barocco, Rococò e  Classicismo fiammingo, come dimostra un olio su tela di Rubens sito al Louvre, composto tra il 1622 – 1625, su commissione di Maria de’Medici, moglie di Enrico IV e madre di Luigi XIII e regina di Francia.

P. Rubens, La presentazione del ritratto di 
Maria de’Medici, 1622 – 1625, olio su tela,
 Musèe du Louvre, Parigi 
Pieter Paul Rubens, infatti essendo stato designato dalla regina dal 1621 al 1626 quale ritrattista di corte e essendosi visto conferito il ruolo di abbellire la galleria di Palazzo del Luxembourg con dipinti riconducenti alla politica attuata dalla sovrana, eseguì tra i dodici pannelli anche la presentazione del ritratto di Maria de’ Medici ad Enrico IV, che, affascinato dalla bellezza della donna, si lascia disarmare da Marte.

L’opera è un’aggregazione di figure allegoriche, mitologiche ed episodi reali, secondo lo stile attuato dal pittore per il ciclo pittorico: ad un Enrico IV adulto – sposò infatti la donna a 47 anni, nel 1600, in seconde nozze – due amorini mostrano il bellissimo ritratto della donna vestita ed ingioiellata dei suoi monili più belli, mentre altri due assieme a Marte, svestono il re ammaliato dello scudo e dell’elmo. Dall’alto di una vaporosa nuvola, tutta la scena viene quindi benedetta dalle divinità sovrane delle civiltà classiche, Giove e Giunone, che, avvolta da un manto dorato, si accompagna ai pavoni simbolo di riconoscimento della sua persona e dal carro d’oro con cui soleva spostarsi.

E si veda quindi anche il dipinto encomiastico raffigurante la Regina Elisabetta con Venere, Giunone e Minerva, dipinto dal pittore di corte Joris Hoefnagel nel 1569 e sito nel Castello di Windsor, in cui la candida regina si appresta ad uscire dal palazzo reale con damigelle a seguito per incontrare le tre dee in cui il popolo la riconosce: Venere, per via della sua verginità e del suo candore, Minerva, perché dea della guerra benefica ma anche delle arti e della sapienza, e infine Giunone, dea del matrimonio – a suggellare il suo matrimonio con il popolo – e, rappresentata con una corona, regina degli dei così come Elisabetta lo è del popolo inglese, nonché dea dell’abbondanza.

J. Hoefnagel, La Regina Elisabetta con Venere, Giunone e Minerva, 1569, Castello di Windsor, Londra. 

Un aspetto preso in considerazione da Paolo Veronese, sempre nella seconda metà del XVI secolo, nel pannello incorniciato sul soffitto di Palazzo Ducale a Venezia, raffigurante Giunone che versa i suoi gioielli su Venezia.
In quanto dea dell’abbondanza infatti, Giunone dall’alto di una nuvola, fuoriuscendo da un’atmosfera divina dorata, lancia i suoi gioielli su una dama pronta ad accoglierli, personificazione di Venezia: a dimostrarlo il leone, simbolo della città e il globo alle spalle della donna, simbolo delle terre lontane soggette al potere della ricca città marinara, sicura della benedizione di Giunone.
Tutto è luce e colore nell’opera del pittore veneto, che trascura le tonalità più scure – salvo nella rappresentazione del leone, in un gioco dato da contrasti cangianti e d’effetto per cui alla dorata e regale Giunone si contrappone la celestiale e pura Venezia.

P. Veronese, Giunone versa i suoi gioielli su Venezia, 1556, olio su tela, Palazzo Ducale, Venezia 

E. Le Sueur, Giunone diffonde i suoi benefici su Cartagine,
1645, olio su tela, Pinacoteca Manfrediana, Venezia
Quasi un secolo dopo anche Eustache Le Sueur riproporrà la stessa tipologia di benedizione, in una tela dal carattere puramente mitologico: Giunone che diffonde i suoi benefici su Cartagine.
La regina degli dei, avvolta in un abito di un arancio quasi fluorescente e vivo ed in una toga blu, attraverso la cornucopia sorretta da un amorino, elargisce la sua benedizione sulla città che l’ha voluta come protettrice, dedicandole un tempio.

Anche l’Eneide narra del dicotomico rapporto di Giunone di affetto verso Didone, la regina della sua Cartagine e di odio verso Enea, che fondando Roma con la sua progenie, avrebbe permesso la distruzione della città africana: più di un’opera, nel corso dei secoli, ha avuto come soggetto questo rapporto discutibile, una su tutte la tavola dipinta da Filippo Falciatore nel 1765, oggi sita a West Palm Beach in Florida.

F. Falciatore, La caccia reale di Enea e Didone, 1765,
olio su tavola, Norton Museum of Art, West Palm Beach
Il dipinto riporta nello specifico l’aneddoto della caccia reale di cui furono protagonisti Enea e Didone, riportato nel IV libro del poema scritto da Virgilio, secondo cui Venere preoccupata per le sorti del figlio inviso a Giunone, e questa preoccupata del fatto che l’eroe lasciando le sponde cartaginesi si dirigesse a Roma, stipularono un accordo per far sì che i due ragazzi si sposassero: durante la caccia quindi, scatenando un temporale imprevisto, Giunone creò i presupposti di un incontro forzato tra i due, che caddero in tentazione e si unirono in matrimonio. Ma la dedizione di Enea e il ragguaglio di Mercurio a proseguire, scombussoleranno i piani delle due dee, irritando in modo ancor più evidente la regina degli dei.

E. Le Sueur, Giunone appicca il fuoco su Troia, 1645,
olio su tela, Pinacoteca Manfrediana, Venezia
Sempre a Le Sueur è ascrivibile con certezza anche l’altro pannello presente nella Pinacoteca Manfrediana di Venezia assieme alla Giunone che elargisce i suoi benefici Cartagine: Giunone appicca il fuoco su Troia.
La modella che personifica Giunone è sempre la stessa, gli abiti e la tiara da regina pure, così come gli amorini e l’atmosfera ovattata creata dalle nuvole su cui è adagiata la dea: cambia solo il suo ruolo, non più di benefattrice, ma di nefasta nemica.

Una storia che vede i suoi preamboli in due radici mitologiche, una romana e una greca: secondo Virgilio infatti, Giunone era nemica di Troia perché consapevole del fatto che un suo discendente avrebbe distrutto la sua Cartagine; secondo il mito greco, lo era perché rancorosa verso Paride di non averla scelta nel famoso giudizio.
  
Diverse sono state le rappresentazioni del Giudizio di Paride, in cui compare la regina dell’Olimpo, alcune intente a mettere in risalto l’aneddoto, altre più incentrate alla fisicità seducente e perfetta delle tre bellissime dee. Ad ogni modo protagoniste dell’aneddoto rimangono comunque le tre donne, nonostante siano queste le giudicate e non i giudici: la tela di Enrique Simonet Lombardo del 1904, concentra tutte le attenzioni proprio sulle tre bellissime dee, due delle quali – Venere e Minerva, - appaiono denudate, seppur riconoscibili dai loro elementi e simboli; Giunone invece appare vestita del tipico abbigliamento che le confà da sempre, col polos, il peplo da matrona, ed accompagnata da uno splendido pavone che aprendo al massimo la sua coda, la confonde col paesaggio circostante.

E. Simonet Lombardo, Il giudizio di Paride, 1904, olio su tela, Museo de Bellas Artes de Malaga, Malaga

Hans Von Aachen, pittore fiammingo operante a cavallo tra XVI e XVII secolo appartiene invece alla seconda categoria, raffigurando in una tela, i primi piani di rinascimentali Pallade Atena, Venere e Giunone, che ingioiellate ed incipriate di tutto punto, si confrontano sul giudizio del pastore, ormai giunto a conclusione: Venere, al centro e con il seno scoperto – indice di sensualità – tiene trionfante il pomo tra le mani; Minerva, incorniciata nello spettacolare elmo guarda oltre, mentre Giunone, con il velo del matrimonio – ne era la protettrice – guarda Venere con aria diffidente e invidiosa.

H. von Aachen, Pallade Atena, Venere e Giunone, 1593, olio su tela, Museum of Fine Arts, Boston

Anonimo XVII sec., Giunone favorisce i Rotuli,
 seconda metà del XVII sec., olio su tela,
 collezione privata, Parma. Da foto di Alberto Tosi.   
E non avrà la meglio neanche quando spronerà i Rotuli a far guerra ad Enea, per aver preso in sposa Lavinia, già promessa al loro re, Turno.
Infatti, come per altro raccontato nella tela di un artista anonimo del XVII secolo, Giunone cercò di favorire i Rotuli contro Enea, prima aizzando la madre di Lavinia contro il padre, affinché mantenesse la promessa fatta a Turno e gliela desse in sposa, poi fomentando i Rotuli a combattere contro Enea, il cui prologo però sarà ovviamente favorevole all’eroe virgiliano.

Ma l’Eneide non è l’unico libro di carattere epico – mitologico ripreso dagli artisti rinascimentali in poi, in cui si evince il protagonismo divino di Giunone; anche alcuni episodi de’ Le Metamorfosi di Ovidio vengono infatti rappresentate da questi, in più occasioni.
È il caso, come narrato nel IV libro delle Metamorfosi di Ovidio, della discesa di Giunone negli Inferi, in seguito all’onta subita dalla decisione di Atamante, figlio di Eolo, di crescere assieme alla sua compagna Ino il piccolo Bacco, nato dal rapporto tra la sorella di lei, Semele, ed il dio Giove marito adultero di Giunone.

J. Brueghel, Giunone negli inferi, 1598,
olio su rame, Staatliche Kunstammlungen, Dresda
Nel dipinto del 1598, di Jan Brueghel, sito allo Staatliche Kunstammlungen di Dresda, la regina degli dei, raffigurata come una donna burrosa vestita di un abito turchese acceso in contrasto con i toni caldi degli Inferi, è intenta a percorrere l’oltretomba per chiedere alle Furie di aiutare a vendicarla: il finale è presto detto, dato che Atamante fu colpito da pazzia e uccise il figlio Learco, avuto con Ino, mentre la donna decise quindi di gettarsi in mare con l’altra figlia avuto dall’uomo, Melicerte, favorendo così la sua trasformazione in divinità marine.

Una donna molto vendicativa e attenta, Giunone, quando in gioco vi era l’onore del suo matrimonio con Giove: la dea infatti poco digeriva tutte le scappatelle del marito, ma innamorata del suo uomo ogni volta che ne scopriva qualcuna, finiva puntualmente per incolpare la sventurata di turno, o per ostacolare i figli nati da quei rapporti, come nel caso del citato Bacco, o di Ercole, figlio di Giove e di Alcmena.

P. Rubens, La nascita della Via Lattea, olio su tela,
1635 – 1638, Museo del Prado, Madrid
Proprio a quest’ultimo mito è legata la spiegazione della nascita della Via Lattea, secondo cui infatti Giove, per fare in modo che il suo diletto Ercole potesse ambire all’immortalità, lo spinse a fare l’unica cosa possibile per ambirvi: bere il latte dal seno di Giunone.
Rubens in una tela del 1635, illustra l’episodio in modo molto poetico e mistico, ambientandolo in piena notte in modo da poter spiegare visivamente come il getto del latte del seno della dea potesse trasformarsi in tante piccole stelle pronte ad adornare la volta celeste.

Tutto contribuisce a riconoscere i personaggi illustrati nel dipinto a carattere mitologico: in primo piano la dea, dalle carni perlacee, il velo da sposa e la tiara splendente; accanto a lei, tra le sue ginocchia, il forzutissimo Ercole che tanto ricorda i putti dipinti da Michelangelo e Giulio Romano in diverse opere; dietro di Giunone il suo carro d’oro trainato dai bellissimi pavoni e a seguire Giove, accompagnato dall’acquila con la saetta tra gli artigli, che attende impaziente che Ercole abbia bevuto il siero dell’immortalità.

P. Rubens, Giunone ed Argo, 1610, olio su tela,
Wallraf-Richartz Museum, Colonia
Già il pittore, circa vent’anni prima di dipingere la nascita della Via Lattea, aveva avuto a che fare con la stessa dea, ritraendola mentre, afflitta, contempla il corpo di Argo e ne stacca gli occhi per adornare le code dei suoi pavoni, con l’aiuto della fedele serva Iride.
La tela ovviamente, ricalca l’epilogo dell’episodio mitologico di Argo, Io e Mercurio, secondo cui Giove, sgamato dalla moglie mentre tentava di accoppiarsi con Io, fece in tempo a trasformarla in una giovenca affinché questa non potesse rivelare a sua moglie il misfatto e a lei la regalò.

Per cui la dea, dubbiosa di quanto accaduto, mise un suo servo, il gigante Argo dai cento occhi, a fare da guardiano alla giovenga, così che, se le sue intuizioni fossero state fondate, Giove non potesse avvicinarvisi. Ma il dio dal canto suo, invece, mandò Mercurio ad uccidere Argo, il quale, per adempiere al volere di Giove, recise la testa del gigante,uccidendolo. Sicché a Giunone non toccò che piangere la morte del suo servo e incastonare i suoi cento occhi nelle code dei suoi pavoni, a ricordo indelebile del suo servizio.

P. Lastman, Giunone scopre Giove con Io,
1618, olio su tela, National Gallery, Londra
Se Rubens scelse di illustrare l’episodio dell’incastonatura degli occhi di Argo sulla coda dei volatili, altri artisti illustrarono altre scene dell’aneddoto, comunque emotivamente forti. Ne è la prova il dipinto di Pieter Lastman, in cui Giunone appunto scopre l’adulterio del marito, che fa in tempo a trasformare Io in una giovenca: la drammaticità della scena è evidente e aiutata dalle espressioni delle due divinità, sconvolte per i due motivi opposti, nonché dalla dinamicità della sorpresa della dea che giunge a bordo del suo carro d’oro trainato dai pavoni.

G.F. Doyen, Giove e Giunone ricevono il nettareda Ebe,
 1759, olio su tela,  Musèe d’art et histoire, Langres. 
Ma lontana dagli amori clandestini e adulteri del marito, i due sono sempre disposti a riscoprire l’intimità o a vivere pacificamente il loro rapporto di coniugi e regnanti, momenti di idillio illustrati da diversi artisti in modo più o meno più o meno conviviale – si veda ad esempio il dipinto di Gabriel Francois Doyen in cui Giove e Giunone ricevono il nettare degli dei da Ebe, - piuttosto che più o meno erotico: ne sono esempio l’incisione altamente erotica di Agostino Carracci che ha le due divinità come protagonisti, o l’affresco di Annibale Carracci nella Galleria Farnese, che riprende un approccio amoroso più soft dei due coniugi.


La stessa atmosfera, quest’ultima, che si respira nel dipinto di fine XVIII secolo di James Barry, sito nello Sheffield City Museum, raffigurante Giove e Giunone sul Monte Ida, che si scrutano e si cercano attraverso i loro sguardi. Una complicità unica, che ben palesa le doti di cui andava fiera la dea del matrimonio, che seducente per alcuni versi, gelosa per altri e accondiscendente nel giusto poteva ritenersi la migliore delle mogli.  

J. Barry, Giove e Giunone sul monte Ida, 1790 - 1799, olio su tela, Sheffield City Museum, Sheffield 

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domenica 11 gennaio 2015

Gli dei delle civiltà classiche nella storia dell'arte: EROS / CUPIDO - AMORE

Eros per i greci, Cupido o Amore per i romani, era il dio che personificava l’amore carnale, il desiderio irrefrenabile, la passione e la voglia. Raffigurato il più delle volte come un bambino, il figlio di Venere e Vulcano era un dio molto discolo – una caratteristica spesso riscontrabile tra gli abitanti dell’Olimpo  – il cui potere era quello di far innamorare o allontanare dall’amore chiunque colpisse con arco e frecce.

Tintoretto, Venere, Vulcano e Cupido, 1560, olio su tela, Galleria Palatina Palazzo Pitti, Firenze 

Cupido e il coniglio, I sec. d.C., affresco,
 Museo Archeologico Nazionale, Napoli
Iconograficamente parlando, gli antichi greci e romani non raffigurarono sempre il dio come un fanciullino, immortalandolo in affreschi e statue anche durante la sua adolescenza, soprattutto nelle opere finalizzate a raccontare alcuni aneddoti mitologici in cui il dio si rese protagonista sul piano amoroso.
Due esempi di quanto detto sono dati da un affresco del I sec. d.C., rinvenuto in un edificio di Pompei ed attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ed una statua di epoca romana imperiale, copia di un’originale dello scultore greco Lisippo del IV sec. a.C.
L’affresco citato infatti raffigura un Cupido bambino, incuriosito da un coniglio intento a brucare l’erba, munito come da iconografia di ali piumate, semi avvolto in un velo candido e sorpreso in una posizione dinamica, quasi fosse in procinto di voler acciuffare l’animale.

Eros che incorda l’arco, I-III sec. d.C. (copia romana
di un’originale di Lisippo del IV sec. a.C.),
 marmo, Musei Capitolini, Roma
La copia romana invece ripropone un Cupido più adulto di quello raffigurato nell’affresco, adolescente, più consapevole della sua fisicità nella muscolatura perfetta e nelle proporzioni anatomiche. Il Cupido, o meglio, trattandosi di un’originale greco il dio raffigurato in questa scultura è un Eros, è intento ad incordare l’arco, secondo un aneddoto raccontato da Pausania il Periegeta nella sua opera letteraria, per cui il ragazzino ponendo forza su un ginocchio e facendo leva con le braccia, cercava di dare forma curvilinea al suo arco. Un gesto ben riuscito nella scultura marmorea, dinamico ed armonico allo stesso tempo, che fa brillare la figura del dio dell’amore in tutto il suo splendore, completamente nudo e munito di ali scolpite sin nel dettaglio, spoglio della sua faretra, abilmente riposta appesa al tronco.

A distanza di un millennio in cui l’avvento del Cristianesimo oscurò per ovvi motivi il politeismo delle civiltà classiche, gli artisti umanisti e rinascimentali riscoprirono il mondo letterario e figurativo degli dei, per cui anche Eros / Amore rientrò nelle figure mitologiche che interessarono maggiormente pittori e scultori del XV e XVI secolo.

P. della Francesca, Cupido bendato,
1452 – 1466, affresco,
Basilica di San Francesco, Arezzo
Uno fra tutti Piero della Francesca, che illustrò Cupido nell’affresco attestante le Storie della Vera Croce nella Basilica di San Francesco ad Arezzo. Il dio, “riesumato” dopo tanti secoli di assopimento, qui viene rappresentato nell’esatto momento in cui, rassegnato, ripone le frecce nella faretra perché soppiantato dalla venuta di Cristo, nuovo portatore di amore; ancora i suoi occhi sono celati da una benda, simbolo – in questo caso, ma non sarà sempre così – della cecità inconsapevole degli antichi, impossibilitati a poter vedere e sentire l’infinito amore di Dio.

Sandro Botticelli invece, qualche decennio dopo darà un significato diverso alla cecità di cupido, studiando bene il concetto di amore rapportato al dio. Nella sua Primavera infatti, lo raffigurò come un fanciullino che, svolazzando sul capo di Venere, mira una delle tre grazie con l’intento di colpirla con una delle sue frecce, sicuro di sé nonostante una benda sugli occhi gli annulli la vista.

Una visione filosofica incentrata sul famoso detto “l’amore è cieco” quindi, per cui il massimo esponente di questo non è interessato allo status sociale, alla razza, all’età o al sesso dei colpiti: la benda diviene quindi l’evidente simbolo di questa casualità, che non risparmia nessuno e a sua volta rende cieco chi ne è colpito, poiché spesso preso dall’irrefrenabile desiderio, non riesce a guardare la realtà delle cose.

S. Botticelli, Primavera, 1477 – 1482, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze

Tiziano, Allegoria della Morte, dell’Amore
 e della Fortuna, 1520, dipinto su tela,
 National Gallery of Art, Washington
D’altronde la cecità procurata dalla benda fu un concetto filosofico molto in voga durante tutto il medioevo, tant’è che oltre all’amore anche le personificazioni della Morte, la Notte, l’Infedeltà e la Fortuna furono rappresentate in questo modo e accomunate non così di rado. 

Quest’ultima cosa fu all’attenzione anche di Tiziano, che nella sua Allegoria della Fortuna, Amore e Morte, raffigurò non le personificazioni bendate, bensì però i simboli delle tre entità, creando un quadro angoscioso nelle figure chiare in contrasto con gli sfondi scuri, per cui un Amore provato, aggrappandosi alla ruota della Fortuna, assiste all’arrivo del macabro cavallo della Morte.

Un Cupido – quello di Tiziano - che guarda, che non indossa bende, quindi, così come accadrà dal XVI secolo in poi: a tal punto diventa interessante per capire il processo filosofico che colpisce la nuova figura di Cupido, far riferimento alla tavola di Cranach il Vecchio, sita alla National Gallery of Art di Washington.

L. Cranach il Vecchio, Cupido,
 1530, olio su tavola, Philadelphia
 Museum of Art, Philadelphia 
Il grassottello ed addolcito Cupido di Lucas Cranach il Vecchio infatti, è intento a togliersi la benda per “poter finalmente vedere” il vero senso dell’amore, che non è più quello sensuale e cieco, pieno di passione e spinto dal desiderio, ma quello più spirituale e platonico che coincide con il matrimonio cristiano, in netta rivalità col primo. Una lotta vinta senza dubbio dalla seconda visione, perché supportata e voluta da Dio: si veda a tal punto Amor Sacro e Amor Profano di Giovanni Baglione, che racconta la dualità in modo ancor più convincente, relegando al primo le fattezze dell’Arcangelo Gabriele ed al secondo, vinto e sottomesso, le sembianze del dio pagano.

Interessante è notare come a differenza degli altri Cupido citati, quest’ultimo di Baglione sia raffigurato come un adolescente in età puberale, soggetto ripreso nello stesso anno anche dal suo collega da lui tanto odiato Caravaggio nell’Amor Vincit Omnia.
Così come ricorda la locuzione latina per cui l’amore vince su ogni cosa, il malizioso e irriverente Amore di Caravaggio è ritratto nella maestosità e nella consapevolezza della sua vittoria su ogni forma di arte raffigurata sul pavimento – quindi vinta – mentre impugnando la sua freccia e spiegando le sue ali dal lungo piumaggio, si apre in un’espressione di giubilo ed in un’impostazione vittoriosa degli arti.

G. Baglione, Amor Sacro e Amor Profano, 1602,
 olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma
Caravaggio, Amor Vincit Omnia, 1602,
olio su tela, Staatliche Museen, Berlino

F. Hayez, Cupido, 1813 – 1818,
olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano
Anche il Cupido di Francisco Hayez, di due secoli più tardo, è un ragazzo cresciuto così come quello di Caravaggio. Ma a differenza del primo, più canzonatore e peperino, quest’ultimo è più composto e impostato, venendo immortalato quasi come se stesse posando per il pittore, consapevole del suo ruolo di dio dell’amore nella ferma impugnatura dell’arco.

Un ruolo che gli procurò problemi sin da piccolo, secondo quanto narra la mitologia greca: Zeus, una volta saputo dall’oracolo che Afrodite avrebbe partorito un bambino che sarebbe stato fonte di guai per tutti gli dei, impose alla dea di ucciderlo seduta stante. Ma la dea impossibilitata a fare ciò al suo figlioletto, all’insaputa di suo padre e di tutti gli dei, lo abbandonò in un bosco, dove, una volta cresciuto, iniziò a fabbricarsi il suo arco e le sue frecce, per poter finalmente adempiere al suo lavoro di dio.

Parmigianino, Eros che fabbrica
 l’arco, 1535, olio su tela,
 Kunsthistorische Museum, Vienna
Una ricostruzione riportata su tela dal Parmigianino nel dipinto del 1535, che raffigura il bellissimo ragazzetto girato di spalle, intento a fabbricarsi un arco da un ramo di legno. Oltre a Cupido, dipinto secondo un’attenzione ai particolari fisiognomici tipica del pittore parmense, ritratto con sguardo fiero e determinato tipico di chi è consapevole di quale sarà il suo compito, nella parte inferiore trovano posto anche le raffigurazioni di due fanciulli, che taluni studiosi riconducono alle personificazioni di Anteros e Liseros (la  potenza dell’amore e la forza necessaria per respingerlo, o l’Amor Profano e l’Amor Sacro), ripresi mentre il primo cerca di sopraffare la seconda.

E non è un caso che Anteros sia presente nella tela del Parmigianino, considerando che mitologicamente parlando il dio dell’amore corrisposto è fratello di Eros e sua parte vitale. Infatti il mito narra che, Afrodite preoccupata del fatto che il figlioletto non crescesse, chiese aiuto alla titanide Temi che, le consigliò di generare assieme all’amante Ares un fratellino per suo figlio. Così nacque Anteros, che permise ad Eros di poter crescere in modo sano potendo godere dell’affetto di un fratello: unica pecca, non appena Antenos si allontanava da Eros, quest’ultimo tornava bambino.

Eros accompagnato da Peito, I sec. d.C., affresco, 
Museo Archeologico Nazionale, Napoli
Già un affresco del I sec. d.C. rinvenuto in una casa pompeiana ed attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, testimonia la compresenza dei due dei, ritratti come piccoli fanciulli. Nel dipinto murale, il piccolo Eros viene accompagnato da Peito, la personificazione della persuasione, che lo lascia a sua madre Afrodite in compagnia di Anteros: con la presenza della Persuasione infatti il dio dell’amore spera di ottenere dalla madre una punizione più clemente, per ottemperare alla colpa di aver scagliato dardi d’amore alla rinfusa e a casaccio.

C. Procaccini, Eros e Anteros, inizi XVII sec.,olio su
 tela, Museu Nacional de Belas Artes, Rio de Janeiro
Un rapporto fraterno e propedeutico che però viene messo in discussione e addirittura invertito dal Rinascimento in poi, quando in Anteros si volle vedere la figura dell’Amore Sacro, più accondiscendente ai canoni neoplatonici in vigore nelle corti, in contrapposizione per l’appunto alla visione dell’Amor Profano – desiderio, carnalità, seduzione – rappresentato come anzidetto da Eros.

Una rivalità che sul piano artistico si tramuta in una lotta continua tra i due fratelli, dove ad avere la meglio sarà sempre ovviamente l’Amor Sacro: si vedano su tutti il dipinto di Camillo Procaccini sito al Museu Nacional de Belas Artes di Rio de Janeiro – inizi XVII sec. – ed il gruppo scultoreo di Antonio Raggi del 1645 ca, esposto nella Galleria Estense di Modena.

A. Raggi, Amor Sacro e Amor Profano, 
1645 ca, marmo, Galleria Estense, Modena
I due fratelli ritratti dal Procaccini sono intenti a litigare forzatamente tra loro stringendo una palma: le espressioni sono di sforzo immane – compensandosi in forza i due fratelli, nessuno dei due riesce a sopraffare l’altro – l’aria è tesa, aiutata da un panorama angosciante in cui nuvoloni preannunciano un temporale; nulla di più diverso dall’armonico e celestiale affresco raffigurante Eros e Antenos di Annibale Carracci alla Galleria Farnese, che però richiama perfettamente le pose dei due fratellini, e dal quale forse il Procaccini ha preso spunto per la sua tela.

La scultura del Raggi, di impostazione berniniana è tutta un crescendo di tensione muscolare e volumi, dato dalla rotante torsione del fanciullo in piedi e dalla sfinita forza con cui il fanciullo cascato tenta di opporre resistenza: il primo trionfante è l’Amor Sacro nelle sembianze di Antanos, il secondo vinto è l’Amor Profano nella figura di Eros.

A. Carracci, Eros e Anteros, 1597 – 1600, affresco, Galleria Farnese, Roma

Mentre quando è in compagnia di sua madre Venere, Cupido viene ritratto dagli artisti del XV – XIX sec. in più situazioni, alcune intimistiche altre giocose, altre ancora dense di simbolismi e significati più nascosti. Come nel caso della tela di Lorenzo Lotto al Metropolitan Museum, raffigurante Cupido e Venere, del 1530 ca.
Nell’opera di chiara impostazione rinascimentale – si vedano gioielli, tendaggi ed ornamenti a testimonianza di ciò – la Venere vestita solo di un velo trasparente, di una tiara tempestata di pietre preziose, di orecchini ed un bracciale, si diletta a stuzzicare con un Cupido irriverente che gioca a centrare una ghirlanda di mirto col getto della pipì.

Tutto   qui, riconduce al matrimonio ed alla fecondità: la tiara ed il velo di Venere, tipica acconciature delle nozze; la conchiglia appesa sul suo capo, che indica la femminilità; la cornucopia sull’attaccatura del drappo rosso, che simboleggia abbondanza e fecondità; l’orecchino di perla della Venere, a dimostrazione della purezza della donna; la ghirlanda di mirto, sempreverde come l’amore e il matrimonio, ed infine il getto di urina che cade sulla donna, un piccolo gioco allusivo alla fertilità augurante.

L. Lotto, Cupido e Venere, 1530 ca, olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York

L. Giordano, Venere Cupido e Marte, 1663,
olio su tela, Museo di Capodimonte, Napoli
L’idea del getto viene in seguito riproposto circa vent’anni dopo anche da Luca Giordano nel suo dipinto con Venere, Marte e Cupido, in cui i due amanti sono intenti a chiacchierare tra di loro, mentre la sontuosa, ingioiellata e sensuale Venere allatta il piccolo Cupido che scalpita e si dimena: dal seno della dea escono schizzi di latte diretti alla bocca del bambino, a simboleggiare la fertilità e la fecondità, così come lo era il getto di urina nell’opera del Lotto.  

Ancora altri temi inerenti al rapporto di Cupido con Venere sono dati dal disarmo del suo arco da parte della madre, che spesso soleva indispettirlo in questo modo. Paolo Veronese nella sua tela che raffigura appunto Cupido disarmato da Venere, raffigura proprio quest’ultimo passaggio attraverso le espressioni dei due protagonisti, dove la mamma è divertita dal fatto di aver privato dei poteri il piccolo figlioletto, ed il dio è infastidito e irritato dalla cosa, tanto da cercare di aggrapparsi a lei cercando di riprendersi la sua arma.

P. Veronese, Cupido disarmato da Venere, 1560 ca, olio su tela, Worcester Art Museum, Worcester

P. Batoni, Diana rompe l’arco di Cupido, 1761,
olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York
La stessa preoccupazione che si legge nel dipinto di Pompeo Batoni sito al Metropolitan Museum, di due secoli più tardo di quello del Veronese, in cui però a indispettire il dio dell’amore non è Venere ma Diana, la dea della caccia. L’azione in questione però è più drammatica perché la dea, seduta su una roccia, immersa in un paesaggio boschivo suo habitat naturale, è intenta a spezzare l’arco del dio – o almeno a fargli credere che farà questo. Sul volto di Cupido, per quanto la sua figura sia di profilo se non quasi voltata verso la dea, è comunque ravvisabile tutta la preoccupazione e lo sconcerto procurate dal folle gesto di Diana, che così facendo priverebbe il dio del mezzo utile a far innamorare o disinnamorare la gente.

Magari un gioco o forse una vendetta quella della Diana di Batoni, considerando quanto Cupido fosse poco gradito agli altri dei – ed in generale al popolo greco – per il suo modo giocoso, combinaguai e vendicativo di scagliare frecce tra dei e mortali o semidei.
Ne è un esempio il mito di Apollo e Dafne, che racconta la vicenda per cui Cupido, irritato e geloso delle imprese eroiche di Apollo, decise di farlo innamorare di una donna che non gli avrebbe mai corrisposto: quindi, prendendo due frecce che avrebbero procurato nelle persone colpite due sentimenti diversi, scagliò verso il Dio il dardo con la punta d’oro per farlo innamorare della ninfa Dafne, e verso la ragazza un dardo con la punta di ferro per farla fuggire dall’amore di Apollo.

La tela del 1615 di Francesco Albani sita al Louvre, racconta proprio il momento in cui il piccolo ed irresponsabile Cupido, attorniato da una nuvola fumosa che apre alla dorata atmosfera in cui lui prende posto, si diverte ad ammirare la scena in cui Apollo insegue Dafne – indicatagli dallo stesso ragazzino con l’indice; l’epilogo è presto detto: Dafne, inorridita all’idea di cadere nelle grinfie di Apollo, chiede a sua madre Creusa si salvarla, venendo da questa trasformata in una pianta di alloro.

F. Albani, Apollo e Daphne, 1615, olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi

Ma lo stesso dio oltre a provocare gli altri dei con le sue frecce, in un’occasione ne rimase egli per primo colpito: accadde infatti una volta che, spinto da sua madre a vendicarla perché una fanciulla mortale bellissima, tale Psiche, veniva costantemente paragonata a lei, invece di scagliare la freccia d’innamoramento verso il più brutto e repellente degli uomini, la indirizzò inavvertitamente verso il suo piede, cadendo egli per primo vittima del suo potere.

Non potendo quindi annullare quanto accaduto, rapì la bella Psiche per portarla nella sua dimora; la ragazza già lo aspettava in cima ad una rupe, perché le era stato predetto da un oracolo che un uomo alato l’avrebbe rapita per prenderla in sposa, sicché all’arrivo di Cupido, per quanto fosse angosciata dal non sapere cosa le stesse accadendo, non era affatto sorpresa. Una tela di William Adolphe Bouguereau racconta proprio questo passaggio del rapimento, in cui il bellissimo ed aitante Amore si  libra nell’aria con la rassicurata Psiche, iconograficamente raffigurata con ali di una falena.
(Per altro lo stesso Bouguereau non  era nuovo a questo tema, avendo dipinto una delle tele più associate al suo nome, in cui compaiono Amore e Psiche fanciulli attorniati da nuvole).

A. W. Bouguereau, Il rapimento di Psiche, 
1895, olio su tela, collezione privata 
A. W. Bouguereau, Amore e Psiche fanciulli,
 1890, olio su tela, collezione privata

Una volta nella dimora di Amore, il dio chiese alla fanciulla di potersi accoppiare ed incontrarsi solo di notte, onde evitare sia che lei potesse scoprire la sua natura di dio e che sua madre venisse a sapere di questo amore e così accadde per molte notti: la tela di Jacques Louis David cattura un tipico momento post accoppiamento, in cui un soddisfatto e sornione Amore è intento ad alzarsi dal letto per sparire prima che l’avvenente Psiche si svegli; fuori l’arrivo dell’alba ricorda che il suo tempo è scaduto è la luce non gli sarà favorevole, per cui è tempo di andare.

J. L. David, Amore e Psiche, 1817, olio su tela, Cleveland Museum of Art, Cleveland

E quindi accadde che alla fine però, vinta dalla curiosità ed aizzata dalle sue sorelle che premevano affinché ella conoscesse l’identità di suo marito, una notte mentre Amore dormiva, si svegliò, prese una lampada ad olio, l’accese ed illuminò il suo sposo, scoprendo chi in realtà questi fosse. Ma una goccia d’olio bollente cadde sul dio, svegliandolo, che non gradì la cosa e decise di fuggire da lei.

G. M. Crespi, Psiche scopre Amore, 1709,
olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze
Diversi artisti contestualizzarono questo episodio nelle loro tele riguardanti Amore e Psiche, uno tra tutti fu Giuseppe Maria Crespi, che lavorò alla corte medicea agli inizi del XVIII sec.
Nel dipinto in cui Psiche scopre l’identità di Amore, è qualitativamente ottimo il gioco di luci ed ombre che vanno a sovrapporsi sui protagonisti e nell’ambiente circostante, per cui viene garantita l’idea di notte, il senso dello scoprimento del dio, del suo fastidio e della sorpresa della donna: d’altronde le espressioni parlano chiaro, Amore sembra sorpreso in negativo dal gesto nefasto della donna, tentando di coprire il suo volto con la mano affinché lei non possa guardarlo.

Per potersi ricongiungere quindi con il suo amato, Psiche dapprima si sbarazzò delle sorelle – i miti greci sapevano essere molto cruenti – poi chiese alla madre di lui, Venere, se ci fosse un modo per poter riavere indietro suo marito. La dea quindi mossa a compassione ma desiderosa allo stesso tempo di veder compiuta la sua vendetta, le ordinò di superare ben quattro prove impossibili, che però furono concluse grazie all’aiuto che Psiche ricevette da animali ed altri dei.

Quindi l’epilogo amoroso per eccellenza: dopo tante fatiche Psiche e Amore si ritrovano e finalmente possono coronare il loro sogno di stare insieme per sempre. Un sentimento che nessuno meglio di Antonio Canova, seppe mettere in evidenza nel suo gruppo scultoreo del 1788 di Amore e Psiche, uno dei pezzi forti del Louvre, in cui i due amanti vengono raffigurati in una posa elegante e leggiadra, in modo che le due figure formino una X incrociando le ali del dio con il suo corpo e quello della donna, nell’attesa spasmodica e desiderata che quel bacio tra le due figure così vicine tra di loro, avvenga prima o poi. 

A. Canova, Amore e Psiche, 1793, marmo, Musèe du Louvre, Parigi

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