giovedì 28 novembre 2013

La famiglia speciale di Berthe Morisot

Una delle famiglie senza dubbio più talentuose ma poco riconosciute nell’ambito storico artistico-letterario, è quella formata dal meraviglioso quartetto Fragonard - Manet – Morisot – Mallarmè.
A modo loro infatti, questi tre fulgidi esempi di arte e letteratura anticonformiste per la società del loro tempo, sono stati uniti da un legame di sangue o pseudo tale, che li ha resi parenti. O pseudo tali.

J. H. Fragonard, I fortunati casi dell'altalena,
1767, olio su tela, Wallace collection, Londra. 
Il fulcro di ogni rapporto è individuabile nella dolce pittrice francese Berthe Morisot, nata a Bourges nel gennaio del 1841 e morta all’età di 54 anni in quel di Parigi, nel bel mezzo della rivoluzione artistica pittorica. 
Berthe Morisot infatti non era una donna qualunque. Era la pronipote del celeberrimo pittore Jean Honoré Fragonard, uno dei più illustri esponenti della pittura rococò in Francia.

Fragonard era stato assunto quale maestro di riferimento da gran parte degli artisti europei, avendo lavorato alla corte di Versailles sino all’avvento della Rivoluzione francese: il suo modo dolce, elegante, ovattato e malizioso, ben sapeva raccontare il mondo del Settecento fatto di cortesia, corteggiamento, sfarzo, lusso, cipria, merletti e parrucche costruite.

Il talento di Fragonard quindi, di generazione in generazione, passò alla pronipote, che per l’appunto decise di cavalcare le orme dell’antenato e darsi alla pittura: nonostante non poté mai ambire a frequentare l’Ècole des Beaux-Arts, la sua formazione fu eccezionale data la sua presenza al primo Salon des Refuses del 1864 e a quelli a seguire, nonché la collaborazione e gli insegnamenti di artisti che scandirono intere fasi della sua vita, come Degas, Renoir, Corot e non ultimo né meno importante Manet.

E. Manet, Ritratto di Berthe Morisot, 1870, olio su tela,
Museum of Art Rhode Island, Providence.
Proprio Edouard Manet, conosciuto nel 1868, fu probabilmente l’amore tanto ambito di Berthe Morisot, che mai corrisposta, pur di star vicino a lui, ne sposò il fratello Eugène: il rapporto confidenziale e fuori dagli schemi dei due, è ben prescindibile dalla serie degli 11 dipinti del pittore donnaiolo che hanno come soggetto la cognata, e dai diversissimi episodi di gelosia ingiustificata della Morisot verso le modelle procaci e bellissime che collaborarono con Edouard, in seguito al suo matrimonio con il fratello.

Anche lo stile pittorico e la filosofia di pensiero artistico fu condivisa dai due cognati, essendo entrambi cultori dell’impressionismo; ovviamente ognuno di loro si distinse in modo originale, perseguendo i propri ideali di colore, tecnica e composizione, come deducibile in un possibile confronto tra la sua "Davanti allo specchio" e la "Donna con la giarrettiera" di Manet: come si nota, la pittura di Berthe Morisot è una pittura leggera e viva, ottenuta con svirgolettate spesso repentine e vigorose di colore accesso e vibrante, ricalcando toni chiari su sfondi scuri; i soggetti prediletti di Morisot erano le donne, i bambini e gli ambienti familiari, sulla scia di una sensibilità straordinaria che le apparteneva in quanto donna. 

B. Morisot, Before the mirror, 1890, olio su tela,
collezione privata. 
E. Manet, Femme a la Jarretiere, 1878 -- 1879, olio su tela,
Museo Ordrupgaard, Copenhagen.    

E. Manet, Ritratto di Mallarmè, 1876,
olio su tela, Musèe d'Orsay, Parigi.
Affermatasi come pittrice talentuosa nelle cerchie di artisti e letterati che frequentava, Berthe Morisot in seguito alla vedovanza, si avvicinò molto allo scrittore e poeta Stephane Mallarmè durante i suoi incontri nel salotto di Rue de Rome, tanto che, quando nel 1895 si ammalò gravemente, decise di affidare a questo, sua figlia Julia. Poco dopo, Berthe Morisot morì e fu sepolta nel cimitero di Passy accanto al marito ed al cognato amato.

B. Morisot, The dining room, 1875, olio su tela,
Gallery of Art, Washington D.C. 
La fortuna critica di Berthe Morisot è giunta postuma, così come quella dei più grandi artisti impressionisti; eppure nonostante l’importanza di questa figura nel delineare e marcare i precetti dell’impressionismo, ella non è così conosciuta e ricordata come i suoi colleghi maschi.

Ma a lei resta la fortuna di aver saputo crearsi una famiglia straordinaria: Fragonard tra i suoi antenati, Manet come cognato, Mallarmè come tutore di sua figlia e ancora Renoir come maestro di pittura della piccola Julia. Senza parlare dell’amicizia speciale con Èmile Zola, Edgar Degas, Paul Durand Ruel, Pisarro, Sisley..
Insomma, non prendiamoci in giro: chi non vorrebbe una famiglia così? 

giovedì 21 novembre 2013

BEFORE THE PASS AWAY di Jimmy Nelson

Già con l’operato ultimo di Sebastiao Salgado, è saltata all’occhio la volontà di preservare dalla distruzione, dalla globalizzazione e dall’estinzione, alcune realtà naturali e viventi ormai rare.
Dopo aver discusso quindi del suo progetto GENESIS in una precedente svirgolettata, potrebbe risultare interessante analizzare il progetto di un altro fotografo, tal Jimmy Nelson, intitolato BEFORE THE PASS AWAY.  

J. Nelson, Donne della tribù dei Ladakhi in India, fotografia 

J. Nelson, Uomini della tribù Himba in Namibia, fotografia.
Prima di parlare del reportage, è opportuno inquadrare l’autore degli scatti, così da individuare l’esperienza ed il lavoro che si sono celati dietro ad un  progetto così sensibile e delicato.
Jimmy Nelson nasce nel 1967 a Sevenoaks nel Kent, una delle contee meridionali del Regno Unito. All’età di vent’anni inizia a lavorare come fotografo: il suo primo book professionale andava a scoprire l’anima di un territorio per molti versi ancora sconosciuto, il Tibet, percorso interamente a piedi in un viaggio che aveva come scopo la voglia di immortalare eventi e persone straordinari.

J. Nelson, uomo della tribù dei
Mursi, Etiopia, fotografia. 
Così come il collega Salgado, anche egli, a seguire l'esperienza in Tibet, fu ingaggiato come fotoreporter; i suoi scatti immortalarono eventi culturalmente importanti per l’epoca quale il coinvolgimento russo in Afghanistan, il conflitto tra India e Pakistan nel Kashmir, il clima di tensione che si respirava alle porte della guerra nell’ormai Ex Jugoslavia; ma non solo: al 1994 è ascrivibile un reportage fotografico che gli valse il successo della critica mondiale, immortalando il vivere quotidiano degli abitanti della Repubblica Popolare Cinese.

J. Nelson, uomini della tribù dei Mustang in Nepal, fotografia 

J. Nelson, Donna dell tribù dei Maori
in Nuova Zelanda, fotografia.
Dal 1997 in poi Nelson si è dato alla fotografia di pubblicità, riscuotendo molti incarichi commerciali di alto livello. Ciò nonostante ha continuato a coltivare la sua passione anche fuori dal lavoro, accumulando premi rinomati ed il riconoscimento universale della critica, sino al suo ultimo lavoro: per l’appunto BEFORE THE PASS AWAY.

Il progetto, successivamente divenuto un catalogo XXL in edizione limitata di 500 copie esclusive, contenti ognuna tre stampe autografate dal fotografo, è un’esperienza vissuta dall’autore degli scatti dal 2009 al 2012, nata con la decisione di immortalare 31 tribù ormai quasi estinte, provenienti dalle più disparate zone del globo.

J. Nelson, Uomini della tribù dei Nenets in Russia, fotografia. 

J. Nelson, Uomini appartenenti alla tribù dei Vanuatu
nelle Isole Vanuatu, fotografia.
I suggestivi ed emozionanti ritratti realizzati con una macchina fotografica 4x5, vanno a descrivere le diverse tribù con cui il fotografo ha imparato a convivere, così da poter carpire la loro filosofia di vita: ogni scatto racchiude in sé la dignità e la fierezza del ritratto e racconta la sua storia e quella del suo popolo;  gli occhi di ognuno di loro, le loro azioni, il modo integerrimo di farsi catturare dall’obbiettivo, svelano la straordinarietà della loro cultura, fatta di tradizioni, usi e costumi in cui ognuno di loro fortemente crede; una cultura che non è disposta a sottoporsi alle ormai inevitabili leggi della globalizzazione. 

J. Nelson, Uomo della tribù dei Nenets in Russia, fotografia.
Dall’Etiopia all’Indonesia, dal Kenya alla Papua Nuova Guinea, passando per la Mongolia, la Siberia, la Cina, il Nepal, l’India e l’Ecuador, gli scatti di Jimmy Nelson, così come quelli che son stati di Sebastiao Salgado, raccontano di un mondo sconosciuto ai più; un mondo sensibile fatto di amore e rispetto verso la natura ed il prossimo. Un mondo così lontano da quello che siamo abituati a vivere; tanto lontano che è destinato ad estinguersi di qui ad uno schiocco di dita. Per chiunque volesse ammirare tutti gli scatti di Nelson, il sito internet di riferimento del progetto BEFORE THE PASS AWAY è: http://www.beforethey.com/ 






J. Nelson, donne della tribù dei Maori
in Nuova Zelanda, fotografia.

J. Nelson, Uomini della tribù dei Kazakh
in Mongolia, fotografia.
 

J. Nelson, Donna della tribù dei
Rabari in India, fotografia.


J. Nelson, Uomini della tribù dei Samburu
in Kenya, fotografia. 
J. Nelson, Uomo della tribù dei
Kazakh in Mongolia, fotografia
J. Nelson, Donna della tribù dei Drokpa in India, fotografia. 


mercoledì 20 novembre 2013

Come l'America vede gli italiani: i luoghi comuni nello spot della Fiat 500L

Pizza, mafia, spaghetti e mandolino!
È questo il luogo comune che ormai accompagna la visione dell’italiano medio all’estero, soprattutto in America, dove in molti telefilm vige ad esempio la figura standard del pizzaiolo napoletano o del gangster mafioso siciliano: uno fra tutti il seguitissimo Simpson, che annovera nel cast, Luigi Risotto, il cuoco napoletano divertente ed irriverente secondo la buona tradizione del popolo partenopeo e Tony Ciccione, il boss dalla cadenza siciliana  temuto dall’intera città.


Luigi Risotto de' I Simpson 
Tony Ciccione de' I Simpson

Fiat 500 L
Sulla visione di ciò, il modo di fare tipicamente italiano – caratterizzato da un mix di comportamenti particolarmente indiscreti ed invadenti e di tradizioni legate all’origine del luogo – ancora una volta è divenuto protagonista del web americano, per via del nuovo spot ADS mandato in onda in questi mesi, incentrato sulla Fiat 500L.

Lo spot, la cui versione integrale è della durata di 3.02 minuti, è servito per introdurre nel mercato americano la nuova automobile di produzione tipicamente italiana: “quale migliore trovata, quindi, che italianizzare anche lo spot, data la provenienza del prodotto?” si devono essersi chiesti i creatori della pubblicità, dato che hanno inserito al suo interno, tre attori italiani che si sono espressi nella loro madrelingua.

La trama è simpatica: una coppia di americani entra in una concessionaria, pronta a comprare un’automobile che possa assecondare i loro desideri; una richiesta che finisce per rispecchiarsi in un modello colore rosso, della nuova Fiat 500. Ma la loro scelta avrà ripercussioni sulla loro vita, a quanto comunica il rivenditore: infatti compreso nel pacchetto, assieme alla macchina viene ceduta anche la tipica famiglia italiana composta di tre individui: una mamma, suo figlio e la sua fidanzata, che hanno il compito di guidare la coppia verso un utilizzo completo e competente dell’automobile di fattura italiana.

La convivenza non sembra nascere sotto i migliori auspici: i due americani non comprendono la gestualità e il frenetico chiacchiericcio dei tre italiani (che spesso si lasciano andare ad influenze meridionali); ne sembrano quasi infastiditi perché privati della loro privacy. 

Ma presto imparano a convivere con quei tre personaggi nel retro, tanto da chiedere loro consiglio sul tipo di pasta da scegliere al ristorante, da esultare con loro per il buon risultato della partita di calcio, da ordinare per questi il caffè in tazzina anziché la tipica brodaglia acquosa americana.
Alla fine l’amore verso “l’italianità” avrà il sopravvento: la coppia imparerà a fidarsi dei tre optional posteriori della Fiat 500 e si esprimerà con loro in italiano, avendo per necessità di cose imparato la lingua.

La pubblicità si conclude con l’abbandono dell’auto da parte dei tre italiani, giustificato nel biglietto lasciato a Jenny, l’acquirente dell’automobile: ormai il loro compito è stato portato a termine; i due coniugi hanno imparato a gestire la macchina e la sua italianità, anzi, si sono trasformati in due elementi tipicamente italiani - come si evince dal look dell'ultima scena, che ricopia grossolanamente quello dei tre passeggeri - e in virtù di questo non risultano essere più noiosi come nei primi giorni.

Lo spot si chiude con il corteggiamento dell'italiano Massimo nella stessa lettera, cosa che fa incredibilmente ingelosire il marito di Jenny. Perché si sa, checché se ne può dire, l’italianità risiede in molti comportamenti e professioni simil-macchietta, ma sul corteggiamento non si scherza: noi italiani siamo i numeri uno nel mondo.  
Ecco a voi il video integrale dello spot: https://www.youtube.com/watch?v=1fBFm4OD2W0


domenica 17 novembre 2013

Il Museo Paleocristiano della Cattedrale e la disastrosa corsa ai ripari per l'arrivo del Ministro Bray

Massimo Bray, Ministro del MIBAC sotto il Governo Letta. 
Da storico dell’arte e da canosino ho assistito al tripudio suscitato dalla presenza nella mia città, Canosa di Puglia, del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray e del Professore Fabrizio Bisconti, Sovrintendente alle Catacombe della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra del Vaticano, nonché mio professore di Iconografia cristiana e medievale, venuti per partecipare al convegno “La valorizzazione dei beni culturali come motore di crescita economica. I Tesori di Canosa di Puglia” tenutosi in data 16 novembre.

Da cittadino canosino, sono stato entusiasta della loro visita e dell’intervento appassionato – ma anche diplomatico ad onor del vero – del Ministro, che ha riconosciuto l’importanza artistica ed archeologica del meridione: una realtà da valorizzare al meglio, all’insegna dei rispetto per l’arte e per la cultura.

Palazzo Fracchiolla Minerva, sede del Museo Paleocristiano
della Cattedrale, Canosa di Puglia
Da storico dell’arte invece, devo ammettere che i miei sentimenti si sono divisi: da un lato ho ammirato meravigliato le opere d’arte appartenenti al “tesoro” della Cattedrale e mi sono ritenuto orgoglioso di quanto custodito dalla mia città; dall’altro però, sono rimasto esterrefatto nel dover constatare il modo in cui è stato organizzato e gestito un museo, costretto all’ultimo minuto ad una pre-inaugurazione di forma, per l’arrivo delle alte cariche.  

Infatti, dopo mesi e mesi passati a discutere anche animatamente sulla dislocazione di un nuovo museo e sulla concessione di fondi per la sua apertura, probabilmente non è stata la migliore delle soluzioni “arrangiarsi” per come si poteva nell’adibire il centrale Palazzo Fracchiolla Minerva a Museo Paleocristiano della Cattedrale.

Dico questo perché nel pomeriggio a seguire la pre-inaugurazione, mi sono recato nell’edificio, curioso di poter finalmente ammirare il crocifisso bizantino in avorio del XII secolo – pezzo forte della mostra - e gli altri meravigliosi beni custoditi, ma ahimé, già nell’attesa di poter salire ai piani superiori nel quale è dislocata la mostra, ho dovuto iniziare a contare gli episodi sintomatici di un’organizzazione poco eccellente.


Teca vitrea con la croce d'avorio. 
Crocifisso con Cristo Sacerdos, XI sec., avorio,
 Museo Paleocristiano della Cattedrale, Canosa. 

Perché un’organizzazione la reputi poco eccellente quando una delle guide si affaccia per le scale con una faccia infastidita e preoccupata dalla fila corposa nell’atrio e inizia a gesticolare e consigliare ad alta voce ai suoi colleghi gestori della fila, di mandare i visitatori nello shop, manco se questi fossero pecore al macello; perché un’organizzazione la reputi tale quando la stessa guida non ti da modo di poter guardare come dio comanda un pezzo della collezione, intimandoti di raggiungere per forza di cose il gruppo: in qualunque museo, il visitatore ammira per quanto tempo vuole ciò a cui è interessato, senza se e senza ma; perché un’organizzazione non la reputi tale quando la guida ti descrive un’esemplare stupendo di Cristo Sacerdos come Gesù che sta dormendo, non accenna quasi mai alla datazione delle opere e si chiede addirittura se una pittura su carta da parati possa essere o meno un affresco.
Ma certo che una pittura su carta non è un affresco! Una guida turistica dovrebbe saperlo!

G. Paloscia, Volta delle stanze del Palazzo Fracchiolla Minerva, XIX sec., pittura su carta da parati, Canosa. 

Una davvero rammaricante lacuna quella organizzativa che dimostra come probabilmente Canosa ancora una volta, non fosse pronta all’evento di oggi. Peccato, perché i beni esposti sono di un valore artistico inestimabile, dalla croce greca in avorio già ricordata (oggetto liturgico rubato nel 1983 dalla Cattedrale e recuperato a Parigi nel 2008), ai guanti appartenuti probabilmente a Papa Pasquale II (fine XI secolo); dai codici miniati in pergamena e vello dei XIV secolo al flabello in pergamena dipinta e manico in legno inciso, probabilmente databile al XIII secolo.


Guanti di Papa Pasquale II, XI sec.
lana e seta, Museo Paleocristiano, Canosa
Flabello, XIII sec., pergamena dipinta e legno,
Museo Paleocristiano, Canosa. 

Codice miniato, XIV secolo, pergamena,
Museo Paleocristiano, Canosa. 
Codice miniato, XIV secolo, pergamena,
Museo Paleocristiano, Canosa 

In conclusione però quella di oggi era solo una pre-inaugurazione: la metà delle vetrine vuote, perché non ancora allestite, parlava chiaro. Quindi, c’è ancora speranza che per l’inaugurazione, quella ufficiale, l’organizzazione, la gestione e la location risultino impeccabili; perché il patrimonio museale e la città sono artisticamente di spessore e senza dubbio meritano un trattamento decisamente migliore di quello a cui ho assistito nella mia visita.


sabato 16 novembre 2013

John Waters e l'arte dissacratoria: il gusto del disgusto

Nello svirgolettare (nuovo termine ad hoc che ho deciso di creare) la mostra che si è scoperto essere una “bufala”, Ojo del culo della Fondazione Serralves di Oporto, ho ricevuto qualche critica riguardante la mia decisione di aver dato spazio ad un argomento che non avrebbe nulla a che fare con l’arte.

John Waters. 
Eppure, essendo io un cultore della critica, quando però costruttiva piuttosto che sterile e fine a se stessa, continuo a precisare – discorso che ho preso più volte nel mio blog – che proprio in qualità di storico dell’arte, non spetta a me filtrare il marasma che caratterizza la materia. Io non posso scegliere, giudicare cosa è giusto e cosa è sbagliato, decidere cos’è arte e cosa non lo è: il mio lavoro è quello di interpretare, raccontare e costruire il suo mondo, o ancora ricercare il senso ed il concetto che ha voluto trasmettere l’artista in una sua determinata opera d’arte.

Definito ancora una volta ciò, è chiaro che davanti ad un catalogo fotografico dissacratorio come “12 assholes and a dirty foot” (12 ani e un piede sporco), concepito dal regista ed artista John Waters nel 1999 all’Art Metropole di Toronto, io non possa chiudere gli occhi e deviare l’ostacolo, ma, piuttosto debba cercare di inquadrare l’opera in un contesto ben definito, collegandola possibilmente al luogo in cui è sito ed all’autore che l’ha creata.

Art Metropole di Toronto, interno.
L’ente museale che l’ha pubblicizzato alle porte del 2000 parla per sé. L’Art Metropole infatti è un centro museale artistico che promuove mostre e pubblicazioni di artisti sia affermati che emergenti.
Fondata nel 1974 dal gruppo General Idea, una sorta di coalizione di artisti canadesi contemporaneisti, è connotabile come una società senza fini di lucro specializzata in arte contemporanea: l’edificio, - che fino agli anni ‘40 aveva ospitato una delle prime gallerie d’arte di Toronto, la Metropole Art, da cui prende il nome – è la fucina di un mercato volto a vendere libri e cataloghi editi da artisti, video e audio, opere d’arte e istallazioni.

Il transessuale Divine. 
In questo contesto spaziale quindi si colloca l’opera di uno dei registi più provocatori e dissacratori del cinema americano, conosciuto dalla critica cinematografica per le sue scene orripilanti e nauseabonde. I cultori del cinema ricorderanno infatti il suo film Pink Flamingos, pellicola tra le più trash e disgustose,  nella quale la protagonista, il transessuale Divine, in una delle scene, divorava realmente un escremento di cane.

J. Waters, Dirty Foot, 1996, fotografia. 
Ebbene, sull’onda del dissacratorio e del “gusto del disgusto”, nasce l’opera libraria 12 asshole and a dirty foot, un catalogo di 12 pagine illustrate per un formato di 12,7 x 20 cm, edito in un numero limitato di 1000 copie, di cui 25 autografate dall’artista.
La ragione delle fotografie che analizzano 12 ani e un piede sporco, viene specificata direttamente dall’artista che nel 2004, dichiarò all’Indipendent:

“È impossibile trovare un ano che non sia minacciato da una bocca, un braccio, o un pene! Il piede sporco? Nei film porno c'è un ragazzo addetto a lavare i piedi degli attori, per cui è altrettanto impossibile trovarne uno sporco."

J. Waters, 12 asshole and a dirty foot, 1996, catalogo fotografico.
Il catalogo ovviamente appartiene all’opera da cui prende il nome, stampa cromogenica di 22 x 138 cm, ideata dall’artista nel 1996; una stampa coadiuvata di un tendaggio rosso quasi come fosse una sorta di sipario alle diverse immagini. Un tendaggio giustificato dal regista ed artista quale rimedio immediato per coprire le immagini in caso di ospiti giunti all’ultimo minuto. 

venerdì 15 novembre 2013

Il plagio nella musica e nell'arte è sempre sbagliato?

I Kraftwerk, pionieri della musica elettronica.
Discutendo con il mio collega Daniele di musica e interessi vari (la citazione al film trash in assoluto Parentesi Tonde era doverosa), la mia affermazione sul fatto che i Coldplay siano a giusto merito, uno dei gruppi più affermati ed amati sulla scena mondiale, ha fatto tentennare non poco chi avessi di fronte.

La ragione era da riscontrarsi infatti, nell’evidentissimo plagio che mi faceva notare Daniele, di cui si era reso protagonista il gruppo alternative rock britannico con la canzone Talk, copiata nella melodia, da Computer Love, degli ugualmente noti Kraftwerk, padri tedeschi della musica elettronica: un gesto di poca classe probabilmente; un affronto ed un’evidente mancanza di rispetto verso l’originalità ed il genio altrui. E su questo sono d’accordo, ma solo per metà.

I Coldplay
Abituato per natura ad analizzare fino in fondo le cause o le ragioni che spingono taluno ad agire in un determinato modo, - senza però, necessariamente giustificare o scusare – mi sono chiesto cosa avesse mai potuto spingere gli autori di Fix You, che io trovo una delle più belle canzoni mai scritte, ad agire in modo discutibile e meschino(?).

Così ho provato ad ascoltare entrambe le versioni e mentre lo facevo, ho pensato ai plagi, alle “ispirazioni” ed agli studi che hanno caratterizzato alcune opere, poi diventate famose.
Tra le più evidenti, sicuramente salta subito all’occhio L.H.O.Q.Q. il ready-made creato nel 1919 dal dadaista Marcel Duchamp, l'artista della Fontana.

L.H.O.Q.Q. è infatti la riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo da Vinci, sul quale supporto l’artista provocatorio aggiunse baffi e pizzetto; un titolo ed una modifica non casuali dato l’intento voluto: L.H.O.Q.Q. in francese equivale alla fonia di "Elle a chaud au cul", ossia "Lei ha caldo al culo"; un’evidente ridicolizzazione dell’opera d’arte per eccellenza, in una visione volta a dissacrare l’arte, in pieno clima dadaista.

E ancora, l’aggiunta della peluria, costruisce la decorazione dell’idea: ancora oggi sui libri di arte e di storia pieni di immagini, quasi istintivamente o sovrappensiero, tendiamo a ridefinire i ritratti presenti con baffi, denti pronunciati o trucchi evidenti; Duchamp aveva riproposto quindi la stessa idea alla sua fotografia, ottenendo un effetto immediato e chiaro.

M. Duchamp, L.H.O.O.Q., 1919, ready made
Collezione privata, New York.  
Leonardo da Vinci, Monna Lisa, 1503 - 1517,
olio su tavola, Museo del Louvre, Parigi

Altro caso storico è dato dallo studio di diversi disegni e dipinti già presenti: non era un affronto per un maestro, se il proprio allievo copiasse la sua opera, per poi modificarla sino a renderla personale, né era visto in malo modo lo studio di vecchi disegni appartenuti ad artisti affermati nella storia: basti ricordare nel primo caso Lo Sposalizio della Vergine del Perugino ed il medesimo tema ad opera del giovane Raffaello, che se accostati rilevano analogie incredibili; nel secondo caso valga uno su tutti lo studio dei disegni di fisiognomica di Sofonisba Anguissola, da parte del Caravaggio alle prime armi, nel Ragazzo morso dal ramarro.

Raffaello, Sposalizio della Vergine, 1504,
olio su tavola, Pinacoteca di Brera, Milano
Perugino, Sposalizio della Vergine, 1500 - 1504,
olio su tavola, Musèe de Beaux Arts, Caen 

Infine – i casi potrebbero essere infiniti, quindi devo darci un taglio – un altro caso di simil plagio potrebbe essere lo studio del Ritratto di Innocenzo X di Velazquez, dipinto da Francis Bacon nel 1953. L’opera in questione è il risultato della visione espressionista angosciata e terrificante dell’artista contemporaneo lontano dall'armonia cromatica e compositiva del pittore moderno spagnolo.

Quel che ne esce è un dipinto che non lascia indifferenti, che spinge il fruitore a interrogarsi sul senso della spiritualità e della serenità che accompagna ognuno di noi, sino allo sgomento dato dall’evidente monito per cui se l’angoscia può colpire anche la santità in Terra, allora può andare ad intaccare tutti indistintamente dalla classe sociale, gusti sessuali, razza, religione e sesso.

F. Bacon, Studio del Ritratto di Innocenzo X, 1953,
Olio su tela, Des Moines Art Centre, Iowa.
D. Velazquez, Ritratto di Innocenzo X, 1650,
olio su tela, Galleria Doria Phamphilj, Roma 

Ad ogni modo, dopo queste riflessioni sul piano artistico e dopo aver ascoltato le due versioni, l’originale e la copiata, sono giunto ad una conclusione – continuo a precisare – personale, secondo cui, il plagio è sempre un atto eticamente e moralmente condannabile, ma se e quando porta ad un insegnamento diverso, ad un confronto costruttivo, o semplicemente come nel caso di Talk, ad un miglioramento qualitativo dell’armonia di una canzone al tempo ancora in fase di sperimentazione, allora un occhio lo si può anche chiudere. 



domenica 10 novembre 2013

Il progetto "Humans of..": la meraviglia dell'uomo raccontata sul Social Network

Humans of Amsterdam, Love is love. 
Girando tra le pagine d’estro artistico di facebook, tra le più interessanti riscontrate, secondo quelli che sono il mio gusto ed interesse, trovano spazio le diverse sezioni analizzanti l’uomo di diverse città o regioni, catturato da uno scatto e raccontato dalla storia che funge da didascalia alla fotografia in questione.

Ciò di cui parlo, è il fenomeno “Humans of..”, che ha la stessa identica radice per ogni città, provincia o nazione affrontata, ma diversa desinenza in base al luogo di riferimento: è così che è possibile quindi riscontrare “Humans of London”, “Humans of Teheran”, “Humans of Amsterdam”, "Humans of Rome", sino a “Humans of India”, “Humans of Spain”, “Humans of Morocco”.

Humans of India, bambina lavora i mattoni di argilla. 

Humans of Roma, Abbigliamento eccentrico.
Il progetto prevede quindi lo scatto giornaliero di diversi esseri umani differenti per carattere, personalità, sesso, età, razza e religione, accompagnato da una breve intervista che non di rado induce chi visualizza la fotografia, a ragionare su quanto detto o a cogliere la bellezza di ciò che è stato affermato.

Humans of.. però ha un suo inizio, riscontrabile nel progetto di Brandon Stanton, un ragazzo americano che – come desumibile dal prologo presente sul sito internet da lui creato – nel 2010, dette libero sfogo all’impresa con l’intento di delineare un censimento fotografico di New York, analizzando un campione dei suoi abitanti.

Humans of Amsterdam, Need € for drugs
Intenzionato quindi a sviluppare un catalogo figurativo di almeno 10.000 fotografie di newyorkesi, iniziò a lavorare sulla sua idea, ma, man mano che la cosa prendeva corpo, era l’idea primordiale a modificarsi e ad assumere caratteri diversi. Sicché alle fotografie presto si venne ad aggiungere la piccola intervista o citazione del soggetto, così piccole da importanti da delineare una sorta di frammento di vita del raffigurato.
Presi insieme, questi ritratti e le didascalie sono diventati oggetto di un blog vivace, che negli ultimi due anni ha ottenuto una grande visibilità e molto successo, avendo all’attivo quasi un milione di seguaci collettivi su Facebook e Tumblr.

Io stesso sono un seguace di Humans of New York, ancor prima che di tutti i suoi derivati copiati – che ciò nonostante, sono comunque di grand’effetto: è un modo, quello creato da Brandon ed in seguito dai suoi ammiratori, di poter far conoscere le più svariate realtà e permettere di imparare insegnamenti di vita da un perfetto sconosciuto, per quanto essi siano destinati a essere ricordati solo per qualche secondo, oppure per l’intera vita.

Humans of New York, Memorial 11 Settembre
E personalmente mi sono entrate nel cuore due figure tra tutte. La prima è la donna vestita con abiti coloratissimi e sgargianti, che chiunque penserebbe essere un’artista di strada. Ma giustappunto alla domanda “Sei un artista?”, risponde: “Sono un avvocato divorzista”; un monito a non dare mai  nulla per scontato secondo la regola per cui l’abito non fa il monaco.

E la seconda, è la storia di un’amabile vecchietta, che non merita altre parole, oltre alla storia che Brandon racconta e che riporto in seguito:
“Stavo andando via dopo una cena nel West Side quando ho notato questa donna che accovacciata dietro la cassa, stringeva una sorta di renna giocattolo elettronica.
"Perché ti nascondi?" le ho chiesto.
"Vengo qui da 27 anni", mi ha risposto. "Al proprietario non piacciono affatto i miei animali musicali. Così, mi diverto a tormentarlo!"

Humans of New York, avvocato divorzista 
Humans of New York, la vecchietta disturbatrice