domenica 13 ottobre 2013

I basilischi di Lina Wertmuller, film attuale come cinquant'anni fa

Spinto dalla curiosità irrefrenabile di capire cosa si nascondesse dietro un film che mia mamma, nativa di Minervino Murge, mi ha sempre raccontato con occhi da sognatrice sin da quando avevo pressappoco sei anni, in una quieta e piovosa serata ottobrina, mi son dato alla visione de’ I basilischi.

Locandina de' I Basilischi. 
Il film, che vede la prima regia di Lina Wertmuller, la stessa che per intenderci ha girato capolavori come Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto con la da me tanto amata Mariangela Melato, fu girato infatti in massima parte proprio nel paese nativo di mia madre, oltre che nei comuni di Spinazzola e Palazzo San Gervasio, dal quale proveniva la famiglia paterna della stessa regista.

La trama è chiara e piacevole da seguire, per quanto devo ammettere che la forzata cadenza attribuita agli attori, poco mi abbia convinto: non è facile mantenere gli equilibri per evitare che uno dei dialetti più divertenti e simpatici d’Italia diventi una macchietta; in questo la Wertmuller a mio parere non è riuscita nell'intento, ma si sa, nel 1963, anno in cui fu girato I basilischi, probabilmente c’era sul territorio nazionale una diversa consapevolezza del dialetto meridionale.

In un sunto tipico dei siti che analizzano i film attraverso schedature, la storia del lungometraggio racconta della vita di tutti i giorni che si svolge nel tipico paesino pugliese dell’entroterra nord-barese: la sacralità della pennichella nella controra, lo scandalo di un matrimonio rotto ancor prima dell’abrogazione del referendum sul divorzio, la diffidenza verso la parità sessuale in campo medico e lavorativo, fanno da cornice alla storia dei sue principali protagonisti, Antonio e Francesco.

Due giovani, con due sogni differenti, nati e vissuti tra il circolo politico ed i viottoli, le strade, le contrade e le ardite e dolci scalinate tipiche del Balcone delle Puglie, Minervino Murge: Antonio, nato figlio di un padre, notaio del paese, che a sua volta era figlio di suo padre, anch'egli notaio del paese al tempo che fu, il cui destino è già segnato nel dover intraprendere le redini dell’attività di famiglia e Francesco, figlio di piccoli proprietari terrieri, ragioniere e aspirante politico.

Lina Wertmuller nel film
Tra gli studi molto a rilento del primo, iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Bari e le aspirazioni del secondo nel voler fondare con altri proprietari terrieri una sorta di cooperativa per la produzione e vendita di salamini e latticini, la loro vita da venticinquenni è del tutto incentrata sulla voglia di accasarsi, in una realtà locale che negli Anni Sessanta non lasciava spazio a frequentazioni tra ragazzi, libere e scevre da giudizi negativi di stampo scandalistico.

Ma verso la fine la quadra del film sembra risolversi con la partenza di Antonio alla volta di Roma, ospite dei suoi zii ormai residenti nell’Urbe da decenni, nella speranza che questo riesca a cambiare il suo status civile e sociale. Anche Francesco sembra aver individuato il sentiero da percorrere, cercando di convincere anche la società bene del paese ad investire nel suo progetto. Ma con la morte di Donna Rosa, una delle signore conosciute da tutto il paese, Antonio tornando all’ovile con la corriera, per partecipare al funerale, si ricongiunge all’amico Francesco.

E ognuno di loro si compiace di quanto è riuscito a creare: Antonio, nel suo abito di sartoria e nelle sue calze lunghe, racconta di una Roma meravigliosa, quella della Dolce Vita e del boom economico, nella quale tornerà a vivere dopo aver cambiato l’iscrizione dall’Università di Bari a quella de La Sapienza; Francesco non è da meno, raccontando all'amico i provvisori risultati della sua impresa.

Ma è l’epilogo finale che nasconde la verità; un epilogo meraviglioso che merita di essere trascritto per intero, perché dopo cinquant'anni è attuale nella mia terra, perché dopo cinquant’anni racconta anche la mia storia, che è quella dei miei coetanei laureati sotto false speranze, che forse non hanno i mezzi, o la volontà, per partire e fare il grande passo e che dopo “aver scoperto il mondo” tornano a casa pieni di speranze e voglia di fare, carichi di vita, finché la realtà, non gliela spegne piano piano:

“Se stai a da’ retta agli altri nun te movi cchiù, dice Antonio. E dice ca lui subito se ne vuole andare a Roma. Ma quando la sveglia ha suonato la mattina alle sei, che doveva andare a Bari pe’ spostare l’iscrizione all’Università, lui, si è voltato dall’altra parte. Ha rimandato. Domani! Poi domani, poi domani, e intanto continua a raccontare di Roma, delle donne.. quella co’ la catena d’oro intorno alla vita, quella co’ la parrucca e gli occhiali di brillanti; la bionda che beveva; la bruna che lo voleva lanciare nel cinema.. Le favole! Parla, parla; tanto che non partirà più tutti l’hanno capito. E pure lui, perché? Eh! Ci u’sape! Po’ esse che ad Antonio ci manca qualche cosa, o forse ci manca a tutti noi, ed è per questo che la vita nostra passa e facciamo così poco. Così poco. Oppure, può esse’ che facciamo quelli che la razza e il clima e il luogo e la storia hanno voluto che fossimo, come dice quel grand’uomo del sud. Bah. Antonio continua a parlare di Roma; Francesco continua a parlare della cooperativa, eh! E Roma e la cooperativa sono diventati solo un argomento pe’ chiacchiera’, perché qua si chiacchiera tanto. Si chiacchiera.. si chiacchiera.. Ecco qua”


2 commenti: