sabato 19 ottobre 2013

La grande bellezza: il film del nulla

Locandina del film La Grande Bellezza.
Nella gastronomia di qualità, quella tanto ambita da cuochi insigniti di stelle Michelin e richiesti nelle migliori corti nobili e borghesi, i piatti ricercati, eleganti nell’aspetto e custodi di sapori studiati a menadito, solitamente risultano appetibili solo ai palati preparati e sopraffini, habituè di una tale cucina e non a quelli più rustici tipici del cittadino medio.

Ebbene a mio parere, questo paragone è adatto alla visione de’ La grande bellezza di Paolo Sorrentino, che per quanto abbia vinto diversi premi importanti, sia stato scelto come rappresentante italiano alla sezione miglior film non in lingua inglese ai Premi Oscar e sia stato osannato dalla critica cinematografica come un capolavoro, probabilmente non è stato capito dal destinatario primo: il popolo.

Benché se ne possa dire infatti, il film, che dura pressappoco due ore, mostra discontinui e brevi segni di chiarezza durante lo svolgimento di una trama pedante e complessa: sta allo spettatore, laddove riesce per educazione, disciplina e preparazione, a cogliere le sfumature, le connessioni, i riferimenti alla società attuale.

La storia è presto detta. La racconto in poche righe così da non spoilerare poi così troppo chi non ha avuto ancora il piacere di guardare il film, sia per non dilungarmi su quanto è possibile visionare su Wikipedia: Gep Gambardella - un superbo Toni Servillo - è un giornalista di successo, famoso per aver scritto un libro in età giovanile, capace di segnare la sua fortuna. Tra feste ricche, borghesia e nobiltà scialba e una sagacia fuori dall’ordinario, vive la sua vita fatta di pensieri profondi ed azioni frivole, sino a che la morte del suo unico e grande amore, vissuto in gioventù e mai dimenticato, bussa alla sua porta e lo porta a rivedere le sue posizioni.

La festa di compleanno di Jep Gambardella


Momento di tregua tra Jep e Stefania 
E il cambiamento, la necessità di abbandonare l’ipocrisia di una Roma bene che nasconde la sua omologazione dietro l’evidente mondanità, si notano sin da subito quale effetto bombardante del lutto improvviso. Come nel caso dell’attacco incisivo alla giornalista e scrittrice Stefania, - Galatea Ranzi - ipercritica della generazione di oggi e talmente arrogante sul piano carrieristico da ergersi a fulgido esempio di lavoratrice perfetta e moralmente ineccepibile: con esempi mirati, le parole del protagonista illustrano la visione orrenda di un presente e futuro ormai al degrado, in cui non vi è più segno di moralità.

Jep cerca risposte dal Cardinal Bellucci 

Una moralità inneggiata, strascicata e difesa a spada tratta quando meglio fa comodo, come nella vicenda dei conti Colonna, disposti sì a farsi noleggiare quali comparse per cene e quant’altro, ma non a dover impersonare altri nobili (nel caso specifico gli Odelscalchi): una richiesta umiliante per la loro casata, che non ha problemi a mettersi in vendita su prenotazione, ma che ne ha a non dover riconoscere il suo nome; stessa cosa si evince nella figura del Cardinal Bellucci – Roberto Herlitzka -  quotato a ricoprire in futuro la carica di Papa, esperto di culinaria e vita mondana, ma ben lontano dal primordiale senso di spiritualità.

La piccola Carmelina, perfomer enfant prodige 
Anche l’arte vive la sua sana critica nel film; una critica mirata a carpirne il senso attraverso il mondo che la circonda e le persone che la malleano: un’arte che diventa una mela squisitissima fuori ma marcia dentro, quando marcio è il sistema che permette di esportarne la sua bellezza. Ed è così che la piccola Carmelina,  -Francesca Amodio - enfant prodige esponente di tele connotate da una forte carica espressionista, non desiderando altro che vivere la sua infanzia come una qualunque coetanea e non sotto il peso incombente del lavoro, dipinge piangendo; ed è così che la diva della performance Talia Concept, - Anita Kravos - mira ad abbindolare stupidi allocchi con studiati trucchetti.

È divertente notare lo smantellamento della poetica di Talia, che "vive di vibrazioni", sotto il pressante intercedere dissacratorio del giornalista Gep, fermo a chiederle ripetutamente cosa ella intendesse per vibrazioni; così come è logorante assistere alla struggente dimostrazione live di Carmelina che getta sulla tela ogni malessere, ricoprendo se stessa del male che l’ha resa una stella dell’arte: il colore.

La performance di Talia Concept.

Ed è qui che arriva chiaro il mio monito a riguardo della preparazione dello spettatore medio del film: non tutti sicuramente hanno rivisto in Talia, la performer Marina Abramovic e nella piccola Carmelina, la bambina prodigio australiana Aelita Andre. Ovviamente i personaggi del film sono macchiette di una realtà decisamente diversa, nonostante la triste constatazione di una Marina sempre più commerciale e di un’Aelita probabilmente vista dai suoi genitori come una macchina da soldi.

Il detentore delle chiavi, apre la porta del Giardino degli Aranci
Ma sul piano artistico l’arte ha anche i suoi lati positivi in quella pellicola. Non tanto sul piano narrativo, quanto su quello scenico almeno. La consequenzialità delle gallerie e dei giardini, dei palazzi, delle sculture e dei dipinti che rendono grande Roma, sotto la visita ad opera del detentore delle chiavi – un meraviglioso Giorgio Pasotti che non avevo riconosciuto – accendono gli animi anche del peggior estimatore e lasciano nel cuore quella serenità d’animo e di speranza che solo un’opera d’arte può notare.

Alla fine della fiera però, in due ore, si è raccontato tutto e non si è raccontato nulla. Trovo curioso come l’affermazione del protagonista, verso la fine del lungometraggio, e cito: “Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito. Dovrei riuscirci io?”, sia l’esatta sintesi del mio giudizio sul film.
Perchè trovo che i dubbi di Gep Gambardella vengano risolti egregiamente dal regista Paolo Sorrentino, che è riuscito nella probabilmente difficile impresa di “girare un film sul nulla”. 


1 commento:

  1. Non è chiaro il giudizio dello scrivente, ma a me è parso un capolavoro. Condivido molti elementi da te analizzati in questo post, ma non mi è chiaro il tono dell'ultima tua espressione: "un film sul nulla".
    La frase, infatti, si presta a più di un'interpretazione. Da un punto di vista dei contenuti c'è molto più che nulla: crisi degli ideali ("I nostri treni sono i migliori: non portano da nessuna parte"); la crisi dell'artista e dell'arte in genere ("Non so cosa sia una vibrazione", benché sia il marchio di fabbrica della presunta "artista"); la continua opposizione tra vecchio e nuovo, tra novità e nostalgia del passato (l'artista che corre contro il muro di mattoni, ma prende solo una craniata pazzesca; i continui riferimenti al passato, alla nostalgia dei vari personaggi e dei monumenti in genere, talvolta protagonisti impassibili della pellicola); l'ipocrisia morale dell'uomo di mezza età (la borghesuccia "smontata" in 30 secondi da Servillo; il marito che, affranto dal diario della moglie, si consola dopo poco con la donna dell'Est, rimuovendo 35 anni di memoria della moglie come nulla fosse); l'incomunicabilità, generazionale e sociale in genere (il ragazzo che si uccide; i genitori che impongono la creazione artistica alla bambina; la Ferilli che non dice al padre della malattia; il vicino di casa che è un latitante e non parla mai con Servillo); il vuoto della spiritualità (il cardinale che non ascolta il disperato appello di Servillo).
    Però in fondo tutto si riduce al nulla, visto che in fondo la società descritta è vuota, atona, noiosa ed annoiata da se stessa. E le reazioni che si leggono in giro confermano questa tesi. Curiosa è la reazione di un tale che ho letto stamane e che difendeva il film da un assedio di critiche mosse da chi non l'ha capito: "NON AVETE CAPITO UN CAZZO, IL FILM PARLA PROPRIO DI VOI!". Chapeau!

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