L’idea mi frullava in
testa già da qualche tempo, ma avendo recentemente discusso su due fronti
diversi circa la fruibilità dell’arte e quali stili e generi che le appartengono, forse è giunto il
tempo di buttar giù due righe a riguardo. Le due domande cardine a cui vorrei
arrivare a dar risposta in questo articolo sono inerenti infatti a questi due
fattori di non poco conto; sarebbe un passo in avanti senza dubbio, delineare
una sorta di pensiero filosofico volto a individuare una volta per tutte, i
criteri necessari per definire l’arte democratica anziché elitaria, nonché il suo scopo nella società.
Ma andiamo per gradi.
Una delle due
discussioni affrontate, riguardava il fatturato economico di una mostra
artistica, rapportato (ovviamente) alla sua fruizione. Nello specifico, la mia
amica Fiorella, laureata in Scienze dei beni culturali a Bari, stesso corso di
laurea del sottoscritto, risentiva del fatto che si dovesse organizzare una
collettiva di arte giapponese, in un paese sperduto e inaccessibile della
provincia leccese. A suo dire la scelta era alquanto ardita e inconsueta; far
una cosa del genere avrebbe indotto automaticamente a relegare i curatori della
mostra quali insani di mente.
La notizia ha scosso
piacevolmente i miei neuroni: ricordando che l’anno scorso, mentre ero in
vacanza proprio nel basso Salento, avevo assistito ad un concerto di un gruppo
della Val di Non, nella piazza di Tiggiano, mi son chiesto come mai tanto
sconforto. La mia risposta quindi è stata “Se si vuole, si può fare”. Una
risposta non convincente evidentemente perché l’idea di arte di Fiorella
discostava dalla mia; a suo parere infatti non avrebbe senso organizzare una
mostra se questa poi non fosse fruibile da un gruppo quantitativamente concreto.
Questa motivazione senza
dubbio mi ha indotto a riflettere ancora. Dal mio punto di vista infatti, lo
scopo di una mostra artistica è quello di educare e formare; se anche solo una
persona assisterà alla mostra suddetta, per quanto dislocata nel più anfratto
dei territori, allora l'averla allestita saranno stati tempo ed energia ben spesi.
Perché il singolo fa numero, sempre se vogliamo ragionare da storici dell’arte,
anziché da economisti.
Claudia, creazione di Milo Manara. |
Ora, individuando la
specializzazione di Manara, nel fumetto, questo è riconosciuto tecnicamente
come “linguaggio costituito da più codici, tra i quali si
distinguono principalmente quelli del testo e dell'immagine, i quali insieme generano la
categoria della temporalità"; definito da Hugo Pratt quale “letteratura
disegnata” e da Will Eisner, quale “arte sequenziale”.
Quanto detto dai due
geni è opinabile ma sicuramente accettabile; d’altronde una cosa non esclude l’altra:
il fumetto è connubio di letteratura e arte; forse è proprio arte per il popolo,
come ho avuto modo di contestualizzare nell’articolo scritto a quattro mani con
l’amico Ottavio, blogger di Breadcrumbs, in cui argomentavo una retrospettiva su
Lichtenstein al Tate Modern di Londra.
R. Lichtenstein, That's the way, 1968, pittura su tela, Kunsthalle, Berna. |
Rispondendo
direttamente al quesito, probabilmente la verità, come nella maggior parte delle
disquisizioni, sta nel mezzo. "L'arte è tutto ciò che gli uomini chiamano
arte", diceva il filosofo Dino Formaggio, per cui il fumetto di Manara
sarebbe arte, giusto solo per il fatto che Leonardo ed altri che la pensano
come lui l’ha definito tale; "Quando tutto è arte niente è arte"
rispondeva però, poi, Bruno Munari, artista designer, smontando i castelli
costruiti.
Dov'è la verità? La verità forse è che questo argomento è così sottile che non
si può inquadrarlo in uno schieramento. O almeno non oggettivamente;
soggettivamente ognuno di noi può scegliere se relegare al fumetto un'impostazione
accademica che lo inquadra come figlio della letteratura, consegnarle un valore
artistico secondo l'impostazione democratica "formaggiana" o invece,
fare del fumetto, ma dell’arte in genere, una materia estremamente elitaria,
secondo lo stampo "munariano".
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