P. Picasso, Testa di Arlecchino, 1971, olio su tela, rubato al Kunsthal, Rotterdam |
Il fatto è presto
detto: nell’ottobre del 2012, sette quadri di valore inestimabile (per quanto
siano stati stimati tra i 100 ed i 200 milioni di euro, sul piano storico-artistico
non è possibile quantificare la loro importanza) furono rubati in piena notte,
dal museo Kunsthal di Rotterdam. Tra i capolavori sottratti configuravano la
Testa di Arlecchino di Pablo Picasso, la Donna che
legge di Henri Matisse e Waterloo Bridge di Claude Monet,
oltre a Donna con gli occhi chiusi di Lucien Freud.
A quasi dieci mesi di
distanza, un gruppo di investigatori in Romania è giunto ad individuare nell’abitazione
di una donna rumena, Olga Dogaru, la sede in cui sarebbero stati custoditi quei
sette dipinti, essendo questa la madre di uno degli incriminati per il furto
delle opere. Forte è stato lo sgomento di questi quando durante la
perquisizione hanno riscontrato tracce di vernice e lembi di tela, nel forno di casa Dogaru.
H. Matisse, Donna che legge, 1919, olio su tela, rubato al Kunsthall Museum, Rotterdam |
La donna interrogata, ha
confermato agli inquirenti la triste verità, ammettendo di aver dato alle
fiamme i dipinti per eliminare le prove che potevano incastrare il figlio;
gesto che le costerebbe una pena esemplare per crimini contro l’umanità.
Di sicuro non è la
prima volta che un museo sia stato soggetto a furti; basti ricordare il caso
forse più eclatante, quello che vide come protagonista la Gioconda di Leonardo
da Vinci, custodita al Louvre di Parigi.
Il furto della Gioconda
(Ritratto di Monna Lisa Gherardini – chiamata Gioconda in quanto moglie di
Francesco del Giocondo), avvenne la notte tra domenica 20 e
lunedì 21 agosto
1911.
In quell’occasione,
dopo aver accusato Guillaume Apollinaire prima e Pablo Picasso poi, per le loro
idee a riguardo dell’arte, (il primo
aveva un movente non indifferente avendo più volte dichiarato che se ne avesse
avuto le facoltà avrebbe volentieri distrutto i capolavori di ogni sorta di
museo per lasciar posto all'arte nuova), la realtà ripiegò verso altri aspetti
meno nobili della rivendicazione artistica.
Il numero de La Domenica del Corriere, che illustrava l'ipotetico furto de' La Gioconda |
Le motivazioni del
furto infatti, non erano da ricercarsi in una rivendicazione del senso
artistico tipico di Apollinaire, ancor più che di Picasso, quanto nella
rivendicazione nazionale del dipinto in questione: Vincenzo Peruggia, ex
impiegato del museo, nativo di Luini, era da sempre convinto che la Gioconda
fosse stata uno dei tanti trofei requisiti durante le campagne Napoleoniche in Italia e ricondotti
in Francia. Per questo l’aveva sottratta dalla teca e l’aveva custodita presso
varie pensioni francesi ed italiane sotto al letto e appesa in cucina.
La risoluzione del
caso fu dovuta nel 1913, all’antiquario Alfredo Geri ed al direttore degli Uffizi di
allora, Giovanni Poggi, solo in parte per loro merito: fu lo stesso Peruggia
che contattò l’antiquario per vendergli la Gioconda; il Geri quindi avvisò il
Poggi e insieme si recarono al luogo dell’appuntamento per verificarne l’autenticità.
Una vicenda dal retrogusto
romantico e nazionalista, (che forse per alcuni versi permise di giustificare il
gesto dell’ingenuo patriota italiano), molto lontana da quanto accaduto ai
dipinti rubati a Rotterdam. Lontana per il lieto fine del primo caso e per la
triste conseguenza del secondo; lontana per la motivazione ideologica e sentita
del furto della Gioconda, se paragonata al movente del furto dei sette quadri,
prettamente lucroso.
Ma d'altronde, dando ragione a quei nostalgici di epoche mai vissute, allora erano altri tempi.
Leonardo da Vinci, Monna Lisa, 1503 - 1517, olio su tavola, Museo del Louvre, Parigi |
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