Spesso, quando
visitiamo musei che sono una vera e propria istituzione, non poniamo attenzione
o ancora, non ragioniamo, su come quei dipinti, quelle sculture, quei beni
siano giunti in quelle sale.
È vero, in generale
basta immaginare che l’opera di musealizzazione in Italia, avviene più o meno
tra il XVIII ed il XIX secolo, per cui i beni facenti parte furono donati,
acquistati, lasciati e cessati nel corso dei decenni a seguire.
Ma riferendoci a
qualche opera in particolare, non sarebbe curioso provare ad immaginare da dove
provenisse questa e da chi fosse stato venduta allo Stato?
A detta di ciò trovo
curiosa la storia riguardante l'opera di Caravaggio, Il sacrificio di Isacco.
Caravaggio, Sacrificio di Isacco, 1603, olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze. |
Il
quadro, commissionato dal cardinale Maffeo Barberini, contiene, sullo sfondo
uno dei rarissimi paesaggi dipinti dall'artista, conosciuto più per lo studio
approfondito della luce, degli interni e della composizione che degli spazi
esterni e soleggiati.
L'opera,
eseguita nei primissimi anni del Caravaggio a Roma, testimonia gli studi coevi,
condotti dal pittore, circa la raffigurazione delle espressioni facciali volte
a rappresentare il dolore, la paura, il terrore: l’Isacco, colto in una smorfia
strozzata in un urlo, è tra l’altro il giovane Cecco Boneri, che si
dicesse essere non solo il suo garzone, ma anche il suo amante; il modello
prestò per il pittore lombardo il suo corpo per diversi dipinti, infatti è
possibile notare la straordinaria somiglianza tra l’Isacco appunto, ed il
ragazzo morso da ramarro.
Quella
custodita agli Uffizi non è la sola tela raffigurante l’iconografia in questione.
Un'altra versione realizzata cinque anni dopo, nel 1603 circa, periodo che
permette all’artista di evolversi e diversificarsi nella composizione della
nuova, è conservata a Princeton in New Jersey, presso la Collezione
Barbara Piasecka Johnson.
Caravaggio, Il sacrificio di Isacco, 1598, olio su tela, Collezione Barbara Piasecka Johnson, Princeton |
Tornando
a noi, se quella tela è ben visibile agli Uffizi, questo lo dobbiamo all’amore
filantropico nazionalista di un certo signor Murray, che dopo aver donato alla galleria un dipinto del Piazzetta, nel 1917
ben decise di donare alla stessa anche il dipinto di Caravaggio, al tempo
custodito presso la Galleria Sciarra di Roma.
Tutto
questo è indubbiamente da considerarsi lodevole, - se avessimo aspettato che lo
Stato in tempi di guerra esercitasse il diritto di prelazione in caso di
vendita a terzi, probabilmente il dipinto a quest’ora sarebbe a New York o
chissà dove - se non fosse divertente analizzare il comportamento della
Direzione degli Uffizi, che da regolamento, non potendo accettare previa
consultazione con la Direzione Generale per le Antichità e le Belle Arti, alcun
opera d’arte, si trovò costretta ad attendere che quest’ultima le desse via
libera a procedere.
Fotografia del 1917, del Caravaggio allora appartenente al signor Murray. |
E
ovviamente la risposta auspicabile arrivò, le pratiche di cessione furono
avviate e il dipinto fu custodito presso la galleria allora regia; ma sicuramente
la prassi a cui fu tenuta la Direzione degli Uffizi, fece ben capire che
probabilmente la concessione di libero arbitrio in alcuni casi straordinari,
come il dono di un Caravaggio, non si rivelava poi il peggiore di tutti i mali.
Ben diverso il caso del Martirio di Sant’Orsola, dello stesso artista, acquistato da un'istituzione privata da una nobile napoletana.
Il dipinto attualmente è sito presso Palazzo Zevallos - Stigliano a
Napoli, ed è di proprietà della Banca Intesa e a differenza del caso più semplice e
genuino del Sacrificio di Isacco, presenta una storia per alcuni versi
particolarmente avvincente.
Tutto partì con una segnalazione dello storico dell’arte, allievo del
Toesca e collaboratore del Longhi, Ferdinando Bologna, che segnalò l’opera, conosciuta
sin dal 1954, ad un altro eminente storico dell’arte, Raffaello Causa, dato che
questa ben si configurava all’interno della mostra sul Seicento napoletano, che
il Causa stava curando nei primi anni Novanta.
Felice della segnalazione, questi lo acquistò dalla sua proprietaria, la
Baronessa Avezzano, per 9.000.000 di lire; il giusto prezzo se si pensa che il
dipinto era stato attribuito dal Longhi a Bartolomeo Manfredini e dallo stesso
Causa ad anonimo caravaggesco, tanto che lo catalogò come tale nella mostra.
A relegare al dipinto la degna attribuzione ci pensò però, il restauro
di Antonio de Mata, che non solo rifoderando il quadro scoprì sul retro la
scritta Michelangelo da Caravaggio seguito dall’acronimo MAD, che stava a
siglare Marcantonio Doria, il commissionario genovese del quadro, ma rinvenne
tra le sostanze presenti nell’opera, dell’antimonio di piombo - detto Giallo di
Napoli - che rimise in discussione le teorie riguardanti l’utilizzo di questa
sostanza.
Caravaggio, Martirio di Sant'Orsola, 1610, olio su tela, Palazzo Zevallos - Stigliano, Napoli. |
Il martirio fu catalogato come quadro autentico di Caravaggio perciò; in
seguito i restauri effettuati dal Giantomassi permisero attraverso la
radiografia dell’opera, di riscontrare diversi pentimenti. La pulitura si ritenne
a tal punto necessaria, perché portò
alla riscoperta della mano di uno degli unni, scomparsa nella fuliggine.
Due opere come mille altre, ognuna con una loro storia ed un loro percorso,
ognuna, testimonianza di particolari scelte. Due opere che dovrebbero indurre a
pensare, ogni volta che ci si ritrova in una galleria ad ammirare opere d’arte,
a quello che c’è dietro ognuna di loro.
Perché se sono lì piuttosto che a Londra o a New York o in una sala da
pranzo di un nobile, magari è grazie alla magnanimità di un uomo che ha
preferito il sentimento patriottico alla moneta o è a causa dell’ingenuità di
una donna che solo pochi anni più tardi avrebbe scoperto l’enorme errore
commesso.
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