Eros per i greci, Cupido
o Amore per i romani, era il dio che personificava l’amore carnale, il
desiderio irrefrenabile, la passione e la voglia. Raffigurato il più delle
volte come un bambino, il figlio di Venere e Vulcano era un dio molto discolo –
una caratteristica spesso riscontrabile tra gli abitanti dell’Olimpo – il cui potere era quello di far innamorare o allontanare dall’amore chiunque
colpisse con arco e frecce.
Tintoretto, Venere,
Vulcano e Cupido, 1560, olio su tela, Galleria Palatina Palazzo Pitti, Firenze
|
Cupido e il coniglio, I sec. d.C.,
affresco,
Museo Archeologico Nazionale, Napoli
|
Iconograficamente
parlando, gli antichi greci e romani non raffigurarono sempre il dio come un
fanciullino, immortalandolo in affreschi e statue anche durante la sua
adolescenza, soprattutto nelle opere finalizzate a raccontare alcuni aneddoti
mitologici in cui il dio si rese protagonista sul piano amoroso.
Due esempi di quanto
detto sono dati da un affresco del I sec. d.C., rinvenuto in un edificio di
Pompei ed attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ed
una statua di epoca romana imperiale, copia di un’originale dello scultore
greco Lisippo del IV sec. a.C.
L’affresco citato
infatti raffigura un Cupido bambino, incuriosito da un coniglio intento a
brucare l’erba, munito come da iconografia di ali piumate, semi avvolto in un
velo candido e sorpreso in una posizione dinamica, quasi fosse in procinto di
voler acciuffare l’animale.
Eros che incorda l’arco, I-III sec. d.C. (copia
romana di un’originale di Lisippo del IV sec. a.C.), marmo, Musei Capitolini, Roma |
La copia romana invece
ripropone un Cupido più adulto di quello raffigurato nell’affresco,
adolescente, più consapevole della sua fisicità nella muscolatura perfetta e
nelle proporzioni anatomiche. Il Cupido, o meglio, trattandosi di un’originale
greco il dio raffigurato in questa scultura è un Eros, è intento ad incordare
l’arco, secondo un aneddoto raccontato da Pausania il Periegeta nella sua opera
letteraria, per cui il ragazzino ponendo forza su un ginocchio e facendo leva
con le braccia, cercava di dare forma curvilinea al suo arco. Un gesto ben riuscito
nella scultura marmorea, dinamico ed armonico allo stesso tempo, che fa
brillare la figura del dio dell’amore in tutto il suo splendore, completamente
nudo e munito di ali scolpite sin nel dettaglio, spoglio della sua faretra,
abilmente riposta appesa al tronco.
A distanza di un
millennio in cui l’avvento del Cristianesimo oscurò per ovvi motivi il
politeismo delle civiltà classiche, gli artisti umanisti e rinascimentali
riscoprirono il mondo letterario e figurativo degli dei, per cui anche Eros /
Amore rientrò nelle figure mitologiche che interessarono maggiormente pittori e
scultori del XV e XVI secolo.
P. della Francesca, Cupido bendato, 1452 – 1466, affresco, Basilica di San Francesco, Arezzo |
Uno fra tutti Piero
della Francesca, che illustrò Cupido nell’affresco attestante le Storie della
Vera Croce nella Basilica di San Francesco ad Arezzo. Il dio, “riesumato” dopo
tanti secoli di assopimento, qui viene rappresentato nell’esatto momento in
cui, rassegnato, ripone le frecce nella faretra perché soppiantato dalla venuta
di Cristo, nuovo portatore di amore; ancora i suoi occhi sono celati da una
benda, simbolo – in questo caso, ma non sarà sempre così – della cecità
inconsapevole degli antichi, impossibilitati a poter vedere e sentire
l’infinito amore di Dio.
Sandro Botticelli
invece, qualche decennio dopo darà un significato diverso alla cecità di
cupido, studiando bene il concetto di amore rapportato al dio. Nella sua
Primavera infatti, lo raffigurò come un fanciullino che, svolazzando sul capo
di Venere, mira una delle tre grazie con l’intento di colpirla con una delle
sue frecce, sicuro di sé nonostante una benda sugli occhi gli annulli la vista.
Una visione filosofica
incentrata sul famoso detto “l’amore è cieco” quindi, per cui il massimo
esponente di questo non è interessato allo status sociale, alla razza, all’età
o al sesso dei colpiti: la benda diviene quindi l’evidente simbolo di questa casualità,
che non risparmia nessuno e a sua volta rende cieco chi ne è colpito, poiché
spesso preso dall’irrefrenabile desiderio, non riesce a guardare la realtà
delle cose.
S. Botticelli, Primavera, 1477 – 1482, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze |
Tiziano, Allegoria
della Morte, dell’Amore
e della Fortuna, 1520, dipinto su tela,
National
Gallery of Art, Washington
|
D’altronde la cecità
procurata dalla benda fu un concetto filosofico molto in voga durante tutto il
medioevo, tant’è che oltre all’amore anche le personificazioni della Morte, la
Notte, l’Infedeltà e la Fortuna furono rappresentate in questo modo e
accomunate non così di rado.
Quest’ultima cosa fu all’attenzione anche di
Tiziano, che nella sua Allegoria della Fortuna, Amore e Morte, raffigurò non le
personificazioni bendate, bensì però i simboli delle tre entità, creando un
quadro angoscioso nelle figure chiare in contrasto con gli sfondi scuri, per
cui un Amore provato, aggrappandosi alla ruota della Fortuna, assiste
all’arrivo del macabro cavallo della Morte.
Un Cupido – quello di
Tiziano - che guarda, che non indossa bende, quindi, così come accadrà dal XVI
secolo in poi: a tal punto diventa interessante per capire il processo
filosofico che colpisce la nuova figura di Cupido, far riferimento alla tavola
di Cranach il Vecchio, sita alla National Gallery of Art di Washington.
L. Cranach il Vecchio,
Cupido,
1530, olio su tavola, Philadelphia
Museum of Art, Philadelphia
|
Il grassottello ed
addolcito Cupido di Lucas Cranach il Vecchio infatti, è intento a togliersi la
benda per “poter finalmente vedere” il vero senso dell’amore, che non è più
quello sensuale e cieco, pieno di passione e spinto dal desiderio, ma quello
più spirituale e platonico che coincide con il matrimonio cristiano, in netta
rivalità col primo. Una lotta vinta senza dubbio dalla seconda visione, perché
supportata e voluta da Dio: si veda a tal punto Amor Sacro e Amor Profano di
Giovanni Baglione, che racconta la dualità in modo ancor più convincente,
relegando al primo le fattezze dell’Arcangelo Gabriele ed al secondo, vinto e
sottomesso, le sembianze del dio pagano.
Interessante è notare
come a differenza degli altri Cupido citati, quest’ultimo di Baglione sia
raffigurato come un adolescente in età puberale, soggetto ripreso nello stesso
anno anche dal suo collega da lui tanto odiato Caravaggio nell’Amor Vincit
Omnia.
Così come ricorda la
locuzione latina per cui l’amore vince su ogni cosa, il malizioso e irriverente
Amore di Caravaggio è ritratto nella maestosità e nella consapevolezza della
sua vittoria su ogni forma di arte raffigurata sul pavimento – quindi vinta –
mentre impugnando la sua freccia e spiegando le sue ali dal lungo piumaggio, si
apre in un’espressione di giubilo ed in un’impostazione vittoriosa degli arti.
G. Baglione, Amor Sacro e Amor Profano, 1602, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma |
Caravaggio, Amor Vincit Omnia, 1602, olio su tela, Staatliche Museen, Berlino |
F. Hayez, Cupido, 1813 – 1818, olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano |
Anche il Cupido di
Francisco Hayez, di due secoli più tardo, è un ragazzo cresciuto così come
quello di Caravaggio. Ma a differenza del primo, più canzonatore e peperino,
quest’ultimo è più composto e impostato, venendo immortalato quasi come se
stesse posando per il pittore, consapevole del suo ruolo di dio dell’amore
nella ferma impugnatura dell’arco.
Un ruolo che gli
procurò problemi sin da piccolo, secondo quanto narra la mitologia greca: Zeus,
una volta saputo dall’oracolo che Afrodite avrebbe partorito un bambino che
sarebbe stato fonte di guai per tutti gli dei, impose alla dea di ucciderlo
seduta stante. Ma la dea impossibilitata a fare ciò al suo figlioletto, all’insaputa
di suo padre e di tutti gli dei, lo abbandonò in un bosco, dove, una volta cresciuto,
iniziò a fabbricarsi il suo arco e le sue frecce, per poter finalmente
adempiere al suo lavoro di dio.
Parmigianino, Eros che
fabbrica
l’arco, 1535, olio su tela,
Kunsthistorische Museum, Vienna
|
Una ricostruzione
riportata su tela dal Parmigianino nel dipinto del 1535, che raffigura il bellissimo
ragazzetto girato di spalle, intento a fabbricarsi un arco da un ramo di legno.
Oltre a Cupido, dipinto secondo un’attenzione ai particolari fisiognomici
tipica del pittore parmense, ritratto con sguardo fiero e determinato tipico di
chi è consapevole di quale sarà il suo compito, nella parte inferiore trovano
posto anche le raffigurazioni di due fanciulli, che taluni studiosi riconducono
alle personificazioni di Anteros e Liseros (la potenza dell’amore e la forza necessaria per
respingerlo, o l’Amor Profano e l’Amor Sacro), ripresi mentre il primo cerca di
sopraffare la seconda.
E non è un caso che
Anteros sia presente nella tela del Parmigianino, considerando che
mitologicamente parlando il dio dell’amore corrisposto è fratello di Eros e sua
parte vitale. Infatti il mito narra che, Afrodite preoccupata del fatto che il
figlioletto non crescesse, chiese aiuto alla titanide Temi che, le consigliò di
generare assieme all’amante Ares un fratellino per suo figlio. Così nacque
Anteros, che permise ad Eros di poter crescere in modo sano potendo godere dell’affetto
di un fratello: unica pecca, non appena Antenos si allontanava da Eros, quest’ultimo
tornava bambino.
Eros accompagnato da Peito, I sec. d.C., affresco, Museo Archeologico Nazionale, Napoli |
Già un affresco del I
sec. d.C. rinvenuto in una casa pompeiana ed attualmente conservato al Museo
Archeologico Nazionale di Napoli, testimonia la compresenza dei due dei, ritratti
come piccoli fanciulli. Nel dipinto murale, il piccolo Eros viene accompagnato
da Peito, la personificazione della persuasione, che lo lascia a sua madre
Afrodite in compagnia di Anteros: con la presenza della Persuasione infatti il
dio dell’amore spera di ottenere dalla madre una punizione più clemente, per
ottemperare alla colpa di aver scagliato dardi d’amore alla rinfusa e a
casaccio.
C. Procaccini, Eros e Anteros, inizi XVII sec.,olio su tela, Museu Nacional de Belas Artes, Rio de Janeiro |
Un rapporto fraterno e
propedeutico che però viene messo in discussione e addirittura invertito dal
Rinascimento in poi, quando in Anteros si volle vedere la figura dell’Amore Sacro, più
accondiscendente ai canoni neoplatonici in vigore nelle corti, in contrapposizione per l’appunto alla visione dell’Amor Profano –
desiderio, carnalità, seduzione – rappresentato come anzidetto da Eros.
Una rivalità che sul
piano artistico si tramuta in una lotta continua tra i due fratelli, dove ad
avere la meglio sarà sempre ovviamente l’Amor Sacro: si vedano su tutti il dipinto
di Camillo Procaccini sito al Museu Nacional de Belas Artes di Rio de Janeiro –
inizi XVII sec. – ed il gruppo scultoreo di Antonio Raggi del 1645 ca, esposto nella
Galleria Estense di Modena.
A. Raggi, Amor Sacro e Amor Profano, 1645 ca, marmo, Galleria Estense, Modena |
I due fratelli ritratti
dal Procaccini sono intenti a litigare forzatamente tra loro stringendo una
palma: le espressioni sono di sforzo immane – compensandosi in forza i due fratelli,
nessuno dei due riesce a sopraffare l’altro – l’aria è tesa, aiutata da un
panorama angosciante in cui nuvoloni preannunciano un temporale; nulla di più
diverso dall’armonico e celestiale affresco raffigurante Eros e Antenos di
Annibale Carracci alla Galleria Farnese, che però richiama perfettamente le
pose dei due fratellini, e dal quale forse il Procaccini ha preso spunto per la
sua tela.
La scultura del Raggi,
di impostazione berniniana è tutta un crescendo di tensione muscolare e volumi,
dato dalla rotante torsione del fanciullo in piedi e dalla sfinita forza con
cui il fanciullo cascato tenta di opporre resistenza: il primo trionfante è l’Amor
Sacro nelle sembianze di Antanos, il secondo vinto è l’Amor Profano nella
figura di Eros.
A. Carracci, Eros e Anteros, 1597 – 1600, affresco, Galleria Farnese, Roma |
Mentre quando è in
compagnia di sua madre Venere, Cupido viene ritratto dagli artisti del XV – XIX
sec. in più situazioni, alcune intimistiche altre giocose, altre ancora dense
di simbolismi e significati più nascosti. Come nel caso della tela di Lorenzo
Lotto al Metropolitan Museum, raffigurante Cupido e Venere, del 1530 ca.
Nell’opera di chiara
impostazione rinascimentale – si vedano gioielli, tendaggi ed ornamenti a
testimonianza di ciò – la Venere vestita solo di un velo trasparente, di una
tiara tempestata di pietre preziose, di orecchini ed un bracciale, si diletta a
stuzzicare con un Cupido irriverente che gioca a centrare una ghirlanda di
mirto col getto della pipì.
Tutto qui, riconduce al matrimonio ed alla fecondità:
la tiara ed il velo di Venere, tipica acconciature delle nozze; la conchiglia
appesa sul suo capo, che indica la femminilità; la cornucopia sull’attaccatura
del drappo rosso, che simboleggia abbondanza e fecondità; l’orecchino di perla
della Venere, a dimostrazione della purezza della donna; la ghirlanda di mirto,
sempreverde come l’amore e il matrimonio, ed infine il getto di urina che cade
sulla donna, un piccolo gioco allusivo alla fertilità augurante.
L. Lotto, Cupido e Venere, 1530 ca, olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York |
L. Giordano, Venere Cupido e Marte, 1663, olio su tela, Museo di Capodimonte, Napoli |
L’idea del getto viene
in seguito riproposto circa vent’anni dopo anche da Luca Giordano nel suo
dipinto con Venere, Marte e Cupido, in cui i due amanti sono intenti a chiacchierare
tra di loro, mentre la sontuosa, ingioiellata e sensuale Venere allatta il
piccolo Cupido che scalpita e si dimena: dal seno della dea escono schizzi di
latte diretti alla bocca del bambino, a simboleggiare la fertilità e la
fecondità, così come lo era il getto di urina nell’opera del Lotto.
Ancora altri temi
inerenti al rapporto di Cupido con Venere sono dati dal disarmo del suo arco da
parte della madre, che spesso soleva indispettirlo in questo modo. Paolo
Veronese nella sua tela che raffigura appunto Cupido disarmato da Venere,
raffigura proprio quest’ultimo passaggio attraverso le espressioni dei due
protagonisti, dove la mamma è divertita dal fatto di aver privato dei poteri il
piccolo figlioletto, ed il dio è infastidito e irritato dalla cosa, tanto da
cercare di aggrapparsi a lei cercando di riprendersi la sua arma.
P. Veronese, Cupido disarmato da Venere, 1560 ca, olio su tela, Worcester Art Museum, Worcester |
P. Batoni, Diana rompe l’arco di Cupido, 1761,
olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York |
La stessa preoccupazione
che si legge nel dipinto di Pompeo Batoni sito al Metropolitan Museum, di due
secoli più tardo di quello del Veronese, in cui però a indispettire il dio dell’amore
non è Venere ma Diana, la dea della caccia. L’azione in questione però è più
drammatica perché la dea, seduta su una roccia, immersa in un paesaggio
boschivo suo habitat naturale, è intenta a spezzare l’arco del dio – o almeno a
fargli credere che farà questo. Sul volto di Cupido, per quanto la sua figura
sia di profilo se non quasi voltata verso la dea, è comunque ravvisabile tutta
la preoccupazione e lo sconcerto procurate dal folle gesto di Diana, che così
facendo priverebbe il dio del mezzo utile a far innamorare o disinnamorare la
gente.
Magari un gioco o
forse una vendetta quella della Diana di Batoni, considerando quanto Cupido
fosse poco gradito agli altri dei – ed in generale al popolo greco – per il suo
modo giocoso, combinaguai e vendicativo di scagliare frecce tra dei e mortali o
semidei.
Ne è un esempio il
mito di Apollo e Dafne, che racconta la vicenda per cui Cupido, irritato e
geloso delle imprese eroiche di Apollo, decise di farlo innamorare di una donna
che non gli avrebbe mai corrisposto: quindi, prendendo due frecce che avrebbero
procurato nelle persone colpite due sentimenti diversi, scagliò verso il Dio il
dardo con la punta d’oro per farlo innamorare della ninfa Dafne, e verso la
ragazza un dardo con la punta di ferro per farla fuggire dall’amore di Apollo.
La tela del 1615 di
Francesco Albani sita al Louvre, racconta proprio il momento in cui il piccolo
ed irresponsabile Cupido, attorniato da una nuvola fumosa che apre alla dorata
atmosfera in cui lui prende posto, si diverte ad ammirare la scena in cui
Apollo insegue Dafne – indicatagli dallo stesso ragazzino con l’indice; l’epilogo
è presto detto: Dafne, inorridita all’idea di cadere nelle grinfie di Apollo,
chiede a sua madre Creusa si salvarla, venendo da questa trasformata in una
pianta di alloro.
F. Albani, Apollo e Daphne, 1615, olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi |
Ma lo stesso dio oltre
a provocare gli altri dei con le sue frecce, in un’occasione ne rimase egli per
primo colpito: accadde infatti una volta che, spinto da sua madre a vendicarla
perché una fanciulla mortale bellissima, tale Psiche, veniva costantemente
paragonata a lei, invece di scagliare la freccia d’innamoramento verso il più
brutto e repellente degli uomini, la indirizzò inavvertitamente verso il suo
piede, cadendo egli per primo vittima del suo potere.
Non potendo quindi
annullare quanto accaduto, rapì la bella Psiche per portarla nella sua dimora;
la ragazza già lo aspettava in cima ad una rupe, perché le era stato predetto
da un oracolo che un uomo alato l’avrebbe rapita per prenderla in sposa, sicché
all’arrivo di Cupido, per quanto fosse angosciata dal non sapere cosa le stesse
accadendo, non era affatto sorpresa. Una tela di William Adolphe Bouguereau racconta proprio
questo passaggio del rapimento, in cui il bellissimo ed aitante Amore si libra nell’aria con la rassicurata Psiche, iconograficamente
raffigurata con ali di una falena.
(Per altro lo stesso
Bouguereau non era nuovo a questo tema,
avendo dipinto una delle tele più associate al suo nome, in cui compaiono Amore
e Psiche fanciulli attorniati da nuvole).
A. W. Bouguereau, Il
rapimento di Psiche,
1895, olio su tela, collezione privata
|
A. W. Bouguereau, Amore e Psiche fanciulli, 1890, olio su tela, collezione privata |
Una volta nella dimora
di Amore, il dio chiese alla fanciulla di potersi accoppiare ed incontrarsi
solo di notte, onde evitare sia che lei potesse scoprire la sua natura di dio e
che sua madre venisse a sapere di questo amore e così accadde per molte notti:
la tela di Jacques Louis David cattura un tipico momento post accoppiamento, in
cui un soddisfatto e sornione Amore è intento ad alzarsi dal letto per sparire
prima che l’avvenente Psiche si svegli; fuori l’arrivo dell’alba ricorda che il
suo tempo è scaduto è la luce non gli sarà favorevole, per cui è tempo di andare.
J. L. David, Amore e Psiche, 1817, olio su tela, Cleveland Museum of Art, Cleveland |
E quindi accadde che
alla fine però, vinta dalla curiosità ed aizzata dalle sue sorelle che
premevano affinché ella conoscesse l’identità di suo marito, una notte mentre
Amore dormiva, si svegliò, prese una lampada ad olio, l’accese ed illuminò il
suo sposo, scoprendo chi in realtà questi fosse. Ma una goccia d’olio bollente
cadde sul dio, svegliandolo, che non gradì la cosa e decise di fuggire da lei.
G. M. Crespi, Psiche scopre Amore, 1709, olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze |
Diversi artisti
contestualizzarono questo episodio nelle loro tele riguardanti Amore e Psiche,
uno tra tutti fu Giuseppe Maria Crespi, che lavorò alla corte medicea agli
inizi del XVIII sec.
Nel dipinto in cui
Psiche scopre l’identità di Amore, è qualitativamente ottimo il gioco di luci
ed ombre che vanno a sovrapporsi sui protagonisti e nell’ambiente circostante,
per cui viene garantita l’idea di notte, il senso dello scoprimento del dio,
del suo fastidio e della sorpresa della donna: d’altronde le espressioni
parlano chiaro, Amore sembra sorpreso in negativo dal gesto nefasto della
donna, tentando di coprire il suo volto con la mano affinché lei non possa
guardarlo.
Per potersi
ricongiungere quindi con il suo amato, Psiche dapprima si sbarazzò delle
sorelle – i miti greci sapevano essere molto cruenti – poi chiese alla madre di
lui, Venere, se ci fosse un modo per poter riavere indietro suo marito. La dea
quindi mossa a compassione ma desiderosa allo stesso tempo di veder compiuta la
sua vendetta, le ordinò di superare ben quattro prove impossibili, che però
furono concluse grazie all’aiuto che Psiche ricevette da animali ed altri dei.
Quindi l’epilogo
amoroso per eccellenza: dopo tante fatiche Psiche e Amore si ritrovano e
finalmente possono coronare il loro sogno di stare insieme per sempre. Un
sentimento che nessuno meglio di Antonio Canova, seppe mettere in evidenza nel
suo gruppo scultoreo del 1788 di Amore e Psiche, uno dei pezzi forti del
Louvre, in cui i due amanti vengono raffigurati in una posa elegante e
leggiadra, in modo che le due figure formino una X incrociando le ali del dio
con il suo corpo e quello della donna, nell’attesa spasmodica e desiderata che
quel bacio tra le due figure così vicine tra di loro, avvenga prima o poi.
A. Canova, Amore e Psiche, 1793, marmo, Musèe du Louvre, Parigi |
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