domenica 18 gennaio 2015

Gli dei delle civiltà classiche nella storia dell'arte: ERA / GIUNONE

Era Barberini, copia romana II sec. d.C. di 
un’originale del V sec. a.C. attribuito
 a Agorakritos, Musei Vaticani, Città del Vaticano.
Era per i greci, Giunone per i romani, era la dea del matrimonio e della fedeltà coniugale, essendo regina dell’Olimpo, in quanto moglie fedele di Zeus, che a differenza di lei era fedifrago sino al limite immaginabile. Dea anche del parto, la sua figura incarnava i valori che dovevano appartenere ad ogni moglie e madre greca e romana, essendo anch’ella tale: per questo non di rado nelle statue classiche, veniva rappresentata con il polos, un copricapo cilindrico tipico delle matrone.
L’Era Barberini e l’Era Campana, due statue marmoree del II sec. d.C. riproducenti le fattezze di Era – Giunone, ripropongono nell’abbigliamento proprio il polos, a dimostrazione dello status sociale della dea quale matrona e moglie del capofamiglia.

L’Era Barberini, così chiamata perché appartenente alla famiglia Barberini, che se ne impossessò dopo il suo ritrovo nella campagna romana durante il XVI secolo, è una copia romana di un’originale greca attribuita ad Agorakritos (o più genericamente parlando, ad uno scultore fidiaco del V sec.): le sue sinuosità elegantemente nascoste da un arricciato peplo, il polos a coronare l’acconciatura raccolta e lo scettro, riconducono la statua marmorea proprio alla dea della famiglia, protagonista qui di rituali dedicati a lei, avendo in mano la patera, il tipico vasetto utilizzato durante sacrifici e riti.

Era Campana, II sec. d.C copia di 
un’originale greco ellenistica, 
marmo, Musèe du Louvre, Parigi
Gli stessi elementi e caratteristiche, sono riproposti nella Era Campana sita al Louvre, copia marmorea romana di un’originale greco ellenistica, così chiamata perché appartenuta al marchese Giampietro Campana, tra i più noti e invidiati collezionisti di antichità del XIX secolo.
Anche la Era Campana ha tra le mani lo scettro e la patera, ma a differenza della Era Barberini, la sua figura è intrisa di un’aria più sacra, per via del lungo peplo che le avvolge il corpo e le copre il capo, incorniciato dall’immancabile polos.

Una figura che, a partire dal XV secolo, fu presa da diversi artisti quale modello di donna virtuosa a cui ambire nella ritrattistica di nobili donne, o quale personificazione della benevolenza, in senso più astratto. Nel primo caso si veda il ritratto delle tre nipoti del cardinale Mazzarino, nel cui olio su rame del 1669, le tre ragazze – Maria, Olympia ed Hortensia – vengono ritratte nelle vesti di tre delle divinità più influenti dell’Olimpo: Venere (riconoscibile per via della rosa tra le mani), Diana (dea della caccia, avendo tra le mani un arco) e giustappunto Giunone, elegante nelle nobili vesti violecee e nella candida pelle.

Scuola francese, Ritratto di tre nipoti di Mazzarino, come Venere, Giunone e Diana, 
1660, olio su rame, Musèe du Petit Palais, Parigi. 

D’altronde questa introduzione delle divinità all’interno dei dipinti a carattere allegorico contemplativo fu molto in voga nell’Europa del Cinquecento e Seicento, a cavallo tra Barocco, Rococò e  Classicismo fiammingo, come dimostra un olio su tela di Rubens sito al Louvre, composto tra il 1622 – 1625, su commissione di Maria de’Medici, moglie di Enrico IV e madre di Luigi XIII e regina di Francia.

P. Rubens, La presentazione del ritratto di 
Maria de’Medici, 1622 – 1625, olio su tela,
 Musèe du Louvre, Parigi 
Pieter Paul Rubens, infatti essendo stato designato dalla regina dal 1621 al 1626 quale ritrattista di corte e essendosi visto conferito il ruolo di abbellire la galleria di Palazzo del Luxembourg con dipinti riconducenti alla politica attuata dalla sovrana, eseguì tra i dodici pannelli anche la presentazione del ritratto di Maria de’ Medici ad Enrico IV, che, affascinato dalla bellezza della donna, si lascia disarmare da Marte.

L’opera è un’aggregazione di figure allegoriche, mitologiche ed episodi reali, secondo lo stile attuato dal pittore per il ciclo pittorico: ad un Enrico IV adulto – sposò infatti la donna a 47 anni, nel 1600, in seconde nozze – due amorini mostrano il bellissimo ritratto della donna vestita ed ingioiellata dei suoi monili più belli, mentre altri due assieme a Marte, svestono il re ammaliato dello scudo e dell’elmo. Dall’alto di una vaporosa nuvola, tutta la scena viene quindi benedetta dalle divinità sovrane delle civiltà classiche, Giove e Giunone, che, avvolta da un manto dorato, si accompagna ai pavoni simbolo di riconoscimento della sua persona e dal carro d’oro con cui soleva spostarsi.

E si veda quindi anche il dipinto encomiastico raffigurante la Regina Elisabetta con Venere, Giunone e Minerva, dipinto dal pittore di corte Joris Hoefnagel nel 1569 e sito nel Castello di Windsor, in cui la candida regina si appresta ad uscire dal palazzo reale con damigelle a seguito per incontrare le tre dee in cui il popolo la riconosce: Venere, per via della sua verginità e del suo candore, Minerva, perché dea della guerra benefica ma anche delle arti e della sapienza, e infine Giunone, dea del matrimonio – a suggellare il suo matrimonio con il popolo – e, rappresentata con una corona, regina degli dei così come Elisabetta lo è del popolo inglese, nonché dea dell’abbondanza.

J. Hoefnagel, La Regina Elisabetta con Venere, Giunone e Minerva, 1569, Castello di Windsor, Londra. 

Un aspetto preso in considerazione da Paolo Veronese, sempre nella seconda metà del XVI secolo, nel pannello incorniciato sul soffitto di Palazzo Ducale a Venezia, raffigurante Giunone che versa i suoi gioielli su Venezia.
In quanto dea dell’abbondanza infatti, Giunone dall’alto di una nuvola, fuoriuscendo da un’atmosfera divina dorata, lancia i suoi gioielli su una dama pronta ad accoglierli, personificazione di Venezia: a dimostrarlo il leone, simbolo della città e il globo alle spalle della donna, simbolo delle terre lontane soggette al potere della ricca città marinara, sicura della benedizione di Giunone.
Tutto è luce e colore nell’opera del pittore veneto, che trascura le tonalità più scure – salvo nella rappresentazione del leone, in un gioco dato da contrasti cangianti e d’effetto per cui alla dorata e regale Giunone si contrappone la celestiale e pura Venezia.

P. Veronese, Giunone versa i suoi gioielli su Venezia, 1556, olio su tela, Palazzo Ducale, Venezia 

E. Le Sueur, Giunone diffonde i suoi benefici su Cartagine,
1645, olio su tela, Pinacoteca Manfrediana, Venezia
Quasi un secolo dopo anche Eustache Le Sueur riproporrà la stessa tipologia di benedizione, in una tela dal carattere puramente mitologico: Giunone che diffonde i suoi benefici su Cartagine.
La regina degli dei, avvolta in un abito di un arancio quasi fluorescente e vivo ed in una toga blu, attraverso la cornucopia sorretta da un amorino, elargisce la sua benedizione sulla città che l’ha voluta come protettrice, dedicandole un tempio.

Anche l’Eneide narra del dicotomico rapporto di Giunone di affetto verso Didone, la regina della sua Cartagine e di odio verso Enea, che fondando Roma con la sua progenie, avrebbe permesso la distruzione della città africana: più di un’opera, nel corso dei secoli, ha avuto come soggetto questo rapporto discutibile, una su tutte la tavola dipinta da Filippo Falciatore nel 1765, oggi sita a West Palm Beach in Florida.

F. Falciatore, La caccia reale di Enea e Didone, 1765,
olio su tavola, Norton Museum of Art, West Palm Beach
Il dipinto riporta nello specifico l’aneddoto della caccia reale di cui furono protagonisti Enea e Didone, riportato nel IV libro del poema scritto da Virgilio, secondo cui Venere preoccupata per le sorti del figlio inviso a Giunone, e questa preoccupata del fatto che l’eroe lasciando le sponde cartaginesi si dirigesse a Roma, stipularono un accordo per far sì che i due ragazzi si sposassero: durante la caccia quindi, scatenando un temporale imprevisto, Giunone creò i presupposti di un incontro forzato tra i due, che caddero in tentazione e si unirono in matrimonio. Ma la dedizione di Enea e il ragguaglio di Mercurio a proseguire, scombussoleranno i piani delle due dee, irritando in modo ancor più evidente la regina degli dei.

E. Le Sueur, Giunone appicca il fuoco su Troia, 1645,
olio su tela, Pinacoteca Manfrediana, Venezia
Sempre a Le Sueur è ascrivibile con certezza anche l’altro pannello presente nella Pinacoteca Manfrediana di Venezia assieme alla Giunone che elargisce i suoi benefici Cartagine: Giunone appicca il fuoco su Troia.
La modella che personifica Giunone è sempre la stessa, gli abiti e la tiara da regina pure, così come gli amorini e l’atmosfera ovattata creata dalle nuvole su cui è adagiata la dea: cambia solo il suo ruolo, non più di benefattrice, ma di nefasta nemica.

Una storia che vede i suoi preamboli in due radici mitologiche, una romana e una greca: secondo Virgilio infatti, Giunone era nemica di Troia perché consapevole del fatto che un suo discendente avrebbe distrutto la sua Cartagine; secondo il mito greco, lo era perché rancorosa verso Paride di non averla scelta nel famoso giudizio.
  
Diverse sono state le rappresentazioni del Giudizio di Paride, in cui compare la regina dell’Olimpo, alcune intente a mettere in risalto l’aneddoto, altre più incentrate alla fisicità seducente e perfetta delle tre bellissime dee. Ad ogni modo protagoniste dell’aneddoto rimangono comunque le tre donne, nonostante siano queste le giudicate e non i giudici: la tela di Enrique Simonet Lombardo del 1904, concentra tutte le attenzioni proprio sulle tre bellissime dee, due delle quali – Venere e Minerva, - appaiono denudate, seppur riconoscibili dai loro elementi e simboli; Giunone invece appare vestita del tipico abbigliamento che le confà da sempre, col polos, il peplo da matrona, ed accompagnata da uno splendido pavone che aprendo al massimo la sua coda, la confonde col paesaggio circostante.

E. Simonet Lombardo, Il giudizio di Paride, 1904, olio su tela, Museo de Bellas Artes de Malaga, Malaga

Hans Von Aachen, pittore fiammingo operante a cavallo tra XVI e XVII secolo appartiene invece alla seconda categoria, raffigurando in una tela, i primi piani di rinascimentali Pallade Atena, Venere e Giunone, che ingioiellate ed incipriate di tutto punto, si confrontano sul giudizio del pastore, ormai giunto a conclusione: Venere, al centro e con il seno scoperto – indice di sensualità – tiene trionfante il pomo tra le mani; Minerva, incorniciata nello spettacolare elmo guarda oltre, mentre Giunone, con il velo del matrimonio – ne era la protettrice – guarda Venere con aria diffidente e invidiosa.

H. von Aachen, Pallade Atena, Venere e Giunone, 1593, olio su tela, Museum of Fine Arts, Boston

Anonimo XVII sec., Giunone favorisce i Rotuli,
 seconda metà del XVII sec., olio su tela,
 collezione privata, Parma. Da foto di Alberto Tosi.   
E non avrà la meglio neanche quando spronerà i Rotuli a far guerra ad Enea, per aver preso in sposa Lavinia, già promessa al loro re, Turno.
Infatti, come per altro raccontato nella tela di un artista anonimo del XVII secolo, Giunone cercò di favorire i Rotuli contro Enea, prima aizzando la madre di Lavinia contro il padre, affinché mantenesse la promessa fatta a Turno e gliela desse in sposa, poi fomentando i Rotuli a combattere contro Enea, il cui prologo però sarà ovviamente favorevole all’eroe virgiliano.

Ma l’Eneide non è l’unico libro di carattere epico – mitologico ripreso dagli artisti rinascimentali in poi, in cui si evince il protagonismo divino di Giunone; anche alcuni episodi de’ Le Metamorfosi di Ovidio vengono infatti rappresentate da questi, in più occasioni.
È il caso, come narrato nel IV libro delle Metamorfosi di Ovidio, della discesa di Giunone negli Inferi, in seguito all’onta subita dalla decisione di Atamante, figlio di Eolo, di crescere assieme alla sua compagna Ino il piccolo Bacco, nato dal rapporto tra la sorella di lei, Semele, ed il dio Giove marito adultero di Giunone.

J. Brueghel, Giunone negli inferi, 1598,
olio su rame, Staatliche Kunstammlungen, Dresda
Nel dipinto del 1598, di Jan Brueghel, sito allo Staatliche Kunstammlungen di Dresda, la regina degli dei, raffigurata come una donna burrosa vestita di un abito turchese acceso in contrasto con i toni caldi degli Inferi, è intenta a percorrere l’oltretomba per chiedere alle Furie di aiutare a vendicarla: il finale è presto detto, dato che Atamante fu colpito da pazzia e uccise il figlio Learco, avuto con Ino, mentre la donna decise quindi di gettarsi in mare con l’altra figlia avuto dall’uomo, Melicerte, favorendo così la sua trasformazione in divinità marine.

Una donna molto vendicativa e attenta, Giunone, quando in gioco vi era l’onore del suo matrimonio con Giove: la dea infatti poco digeriva tutte le scappatelle del marito, ma innamorata del suo uomo ogni volta che ne scopriva qualcuna, finiva puntualmente per incolpare la sventurata di turno, o per ostacolare i figli nati da quei rapporti, come nel caso del citato Bacco, o di Ercole, figlio di Giove e di Alcmena.

P. Rubens, La nascita della Via Lattea, olio su tela,
1635 – 1638, Museo del Prado, Madrid
Proprio a quest’ultimo mito è legata la spiegazione della nascita della Via Lattea, secondo cui infatti Giove, per fare in modo che il suo diletto Ercole potesse ambire all’immortalità, lo spinse a fare l’unica cosa possibile per ambirvi: bere il latte dal seno di Giunone.
Rubens in una tela del 1635, illustra l’episodio in modo molto poetico e mistico, ambientandolo in piena notte in modo da poter spiegare visivamente come il getto del latte del seno della dea potesse trasformarsi in tante piccole stelle pronte ad adornare la volta celeste.

Tutto contribuisce a riconoscere i personaggi illustrati nel dipinto a carattere mitologico: in primo piano la dea, dalle carni perlacee, il velo da sposa e la tiara splendente; accanto a lei, tra le sue ginocchia, il forzutissimo Ercole che tanto ricorda i putti dipinti da Michelangelo e Giulio Romano in diverse opere; dietro di Giunone il suo carro d’oro trainato dai bellissimi pavoni e a seguire Giove, accompagnato dall’acquila con la saetta tra gli artigli, che attende impaziente che Ercole abbia bevuto il siero dell’immortalità.

P. Rubens, Giunone ed Argo, 1610, olio su tela,
Wallraf-Richartz Museum, Colonia
Già il pittore, circa vent’anni prima di dipingere la nascita della Via Lattea, aveva avuto a che fare con la stessa dea, ritraendola mentre, afflitta, contempla il corpo di Argo e ne stacca gli occhi per adornare le code dei suoi pavoni, con l’aiuto della fedele serva Iride.
La tela ovviamente, ricalca l’epilogo dell’episodio mitologico di Argo, Io e Mercurio, secondo cui Giove, sgamato dalla moglie mentre tentava di accoppiarsi con Io, fece in tempo a trasformarla in una giovenca affinché questa non potesse rivelare a sua moglie il misfatto e a lei la regalò.

Per cui la dea, dubbiosa di quanto accaduto, mise un suo servo, il gigante Argo dai cento occhi, a fare da guardiano alla giovenga, così che, se le sue intuizioni fossero state fondate, Giove non potesse avvicinarvisi. Ma il dio dal canto suo, invece, mandò Mercurio ad uccidere Argo, il quale, per adempiere al volere di Giove, recise la testa del gigante,uccidendolo. Sicché a Giunone non toccò che piangere la morte del suo servo e incastonare i suoi cento occhi nelle code dei suoi pavoni, a ricordo indelebile del suo servizio.

P. Lastman, Giunone scopre Giove con Io,
1618, olio su tela, National Gallery, Londra
Se Rubens scelse di illustrare l’episodio dell’incastonatura degli occhi di Argo sulla coda dei volatili, altri artisti illustrarono altre scene dell’aneddoto, comunque emotivamente forti. Ne è la prova il dipinto di Pieter Lastman, in cui Giunone appunto scopre l’adulterio del marito, che fa in tempo a trasformare Io in una giovenca: la drammaticità della scena è evidente e aiutata dalle espressioni delle due divinità, sconvolte per i due motivi opposti, nonché dalla dinamicità della sorpresa della dea che giunge a bordo del suo carro d’oro trainato dai pavoni.

G.F. Doyen, Giove e Giunone ricevono il nettareda Ebe,
 1759, olio su tela,  Musèe d’art et histoire, Langres. 
Ma lontana dagli amori clandestini e adulteri del marito, i due sono sempre disposti a riscoprire l’intimità o a vivere pacificamente il loro rapporto di coniugi e regnanti, momenti di idillio illustrati da diversi artisti in modo più o meno più o meno conviviale – si veda ad esempio il dipinto di Gabriel Francois Doyen in cui Giove e Giunone ricevono il nettare degli dei da Ebe, - piuttosto che più o meno erotico: ne sono esempio l’incisione altamente erotica di Agostino Carracci che ha le due divinità come protagonisti, o l’affresco di Annibale Carracci nella Galleria Farnese, che riprende un approccio amoroso più soft dei due coniugi.


La stessa atmosfera, quest’ultima, che si respira nel dipinto di fine XVIII secolo di James Barry, sito nello Sheffield City Museum, raffigurante Giove e Giunone sul Monte Ida, che si scrutano e si cercano attraverso i loro sguardi. Una complicità unica, che ben palesa le doti di cui andava fiera la dea del matrimonio, che seducente per alcuni versi, gelosa per altri e accondiscendente nel giusto poteva ritenersi la migliore delle mogli.  

J. Barry, Giove e Giunone sul monte Ida, 1790 - 1799, olio su tela, Sheffield City Museum, Sheffield 

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