Trattando la tematica inerente
al racconto figurativo e aneddotico delle divinità appartenenti alle civiltà
classiche per eccellenza, ruolo di rilievo ha quello riguardante la dea della
bellezza, dell’amore e della fertilità. Una dea eclettica capace di essere
madre, sorella e moglie, differenziandosi dalle altre abitanti dell’Olimpo per
l’innata grazia e l’armonia che caratterizzava il suo corpo.
Infatti, come
tramandatoci dagli artisti greci prima, romani poi, le statue raffiguranti la
dea erano quelle proporzionalmente più precise, incarnando questa l’ideale
della bellezza femminile. Tant’è vero che ancor oggi tali opere d’arte vengono
ricondotte alla perfezione tipica dell’arte classica: si pensi alla Venere di
Milo, scolpita da Alessandro di Antiochia nel 130 a.C. e custodita al Louvre,
che nonostante sia priva delle braccia, nel suo tronco e nella testa esplica a
pieno l’armonia delle forme femminili, o alla Venere Callipigia del Museo
Archeologico di Napoli, di una forte sensualità nel sollevamento del peplo che
lascia scoperto il fondoschiena della dea (la cui testa è posteriore perché la
statua ne fu ritrovata priva).
Alessandro di Antiochia, Venere di Milo, 130 a.C., marmo pario, Museo del Louvre, Parigi |
Venere Callipigia, II sec. d.C., marmo, Museo Archeologico Nazionale, Napoli |
Venere di Willendorf, 23.000 a.C., calcare, Museo di Storia Naturale, Vienna |
Ad ogni modo con
l’interesse verso le civiltà classiche avviato prima dall’Umanesimo, poi dal
Rinascimento, anche quello verso la mitologia greco-romana si ravviva in
maniera esponenziale, permettendo l’inizio di una florida produzione artistica
incentrata sull’iconografia degli dei. Di qui, Venere fu sempre più associata
all’ideale della bellezza e della grazia, della perfezione anatomica femminile
e della fertilità; un concetto non poi così lontano da quello che gli storici
hanno simbolicamente consegnato alla statuaria raffigurante la Dea madre
d’epoca preistorica, come la piccola statuetta rinvenuta a Willendorf, scolpita
23.000 anni fa e chiamata per convenzione Venere.
La Venere degli
artisti umanisti e rinascimentali quindi, raffigura non una donna carnale e
reale, ma un’ideale divino, le cui fattezze sono antropologicamente e
fisiognomicamente identiche a quelle della tipica donna bellissima del loro
tempo.
Sandro Botticelli
raffigura più volte la dea durante la sua lunga produzione artistica; senza
dubbio la più riconosciuta a livello mondiale, è la tavola degli Uffizi che
racconta la Nascita di Venere: in realtà nonostante il nome consegnato alla tela
per comodità, il dipinto raffigura l’arrivo della dea sulle sponde dell’isola
di Cipro a bordo della valva di una grande conchiglia.
S. Botticelli, Nascita di Venere, 1482 – 1485, tempera su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze |
La bellezza della dea
è ad ogni modo surreale e angelicata nel suo carnato perlaceo e delicato e
nella sua fluente chioma dorata svolazzante con l’aiuto di Zefiro, ricordando
nella sua impostazione pudica delle braccia, con cui tenta di coprire seno e
genitali, il modello statuario classico della Venere Pudica – si veda ad
esempio la Venere Pudica di Menophantos al Museo Nazionale Romano – nonché il
modello della Venere Anadyomene ossia che esce dalle acque, ripresa in futuro da altri artisti tra cui
Ingres, che ne dà una versione sensuale e sacra, allontanando la donna da ogni
possibile riferimento temporale e spaziale.
Venere Pudica di Menophantos, I sec. a.C., marmo, Museo Nazionale Romano, Roma |
J. D. Ingres, Venus Anadyomene, 1848, olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi |
Un paio d’anni più
tardi quindi Botticelli tornerà ancora sul tema mitologico legato alla dea
della bellezza, ma per raccontare un aspetto legato alla sua vita amorosa: il
legame tra lei e Marte, da cui nasce Amore o Cupido.
Nella tavola custodita
alla National Gallery di Londra, Botticelli gioca con il mito di Venere e
Marte, che pone le sue basi su un amore illecito, adultero, essendo la donna
sposata a Vulcano, ma follemente innamorata del dio della guerra.
S. Botticelli, Venere e Marte, 1483, tempera su tavola, National Gallery, Londra |
L. J. F. Lagrenee, Venere e Marte (Allegoria
della Pace), 1770, olio su tela,Paul Getty Museum, Los Angeles |
Nella tela
appartenente all’ultimo ventennio del XV secolo, una Venere dall’acconciatura e
dagli abiti rinascimentali assiste estasiata il suo amante crollato in un sonno
talmente profondo da non accorgersi degli innumerevoli scherzetti che i piccoli
satiri gli stanno propinando: uno è intento a suonare un corno nel suo orecchio;
altri gli rubano elmo e lancia. È una scena quotidiana ed ordinaria quella
raccontata da Botticelli, pacifica ed arcadica, che allontana dai due dei
l’idea di essere due esseri vendicativi e calcolatori, come spesso solevano
rivelarsi nella lettura delle opere epiche classiche.
Lo stesso tema
amoroso, tre secoli più tardi sarà ripreso da Lagrenee, che però nella sua tela dell'Allegoria della Pace, racconterà l’aspetto più erotico ed intimistico della coppia, celando dietro
questi due soggetti l’allegoria della pace. Il messaggio della tela, vuol
essere infatti un direttissimo “fate l’amore, non fate la guerra”, per cui la
scelta del pittore di immortalare nella tela una scena erotica riguardante la
dea dell’amore che si accoppia con il dio della guerra, rivelava l’idea ben precisa
di far notare come l’amore avesse la meglio sulla guerra, riuscendo la dea a
convincere il suo amante a deporre le armi per riposare con lei.
J.L. David, Marte disarmato da Venere, 1824,
olio su tela, Musèe Royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles |
Anche David toccherà
la stessa questione nella sua opera tarda Marte disarmato da Venere, alla quale
affida anche un personale messaggio politico, lui che si era sempre esposto nel
corso della sua vita. La tela è custodita a Bruxelles, la stessa città nel
quale fu esiliato infatti per aver appoggiato la politica napoleonica, e
racconta la decisione di Marte di lasciare da parte gli elementi
caratterizzanti la sua armatura da guerra, per concedersi all’amore della sua
Venere, che adagiata sul triclinio del compagno, lo cinge con una corona di
alloro e di fiori. Nell’adesione neoclassica della sua pittura, David resta
molto fedele alla classicità della scena, che non risente di modernismi
evidenti, e consegna alla dea un potere non indifferente: quello decisionale
verso il compagno, che per quanto potente dio della guerra, è sempre destinato
a cadere ai piedi della sua donna ad ogni suo schiocco di dita.
B. Spranger, Venere e Vulcano, 1610, olio su tela, Kusthistorisches Museum, Vienna |
Marte però non fu
l’unico dio a cui si legò Venere, che è da considerarsi tra le dee più
prolifiche dell’Olimpo: tra i suoi compagni vanno considerati Saturno, Nettuno,
Bacco, Mercurio e suo padre Giove; in quest’ultimo caso la cosa non deve
destare scalpore o scandalo, perché per gli antichi l’incesto tra gli dei era utile a rafforzare
l’idea il concetto di appartenenza allo status di divinità, superiore di gran
lunga a quello di semidivinità derivante dalla relazione di un dio con un
mortale.
Cosa che però Venere
non disdegnò in più riprese. Se infatti il rapporto sentimentale e sessuale con
suo marito Vulcano, ci viene raramente raccontato dagli artisti nel corso dei
secoli, per cui la tela di Bartholomeus
Spranger del 1610 diviene un documento iconografico importante, raffigurando
l’austera dea in intimità con un ammaliato marito brutto nelle fattezze e scuro
nella carnagione, quello della dea con il più bello dei mortali, Adoni, è uno
dei soggetti riguardanti la dea, più raccontati.
Uno su tutti è proprio
Goltzius, l’incisore e pittore fiammingo seicentesco specializzato nella
riproduzione di soggetti a carattere erotico, che raffigura nella sua tela la
storia un momento sereno riguardante la storia, che presenta un epilogo
strappalacrime. Il mito infatti racconta che Adone nacque da Mirra, donna
innamorata di suo padre che, vedendo impossibilitato il suo amore, chiese agli
dei di essere trasformata in albero.
H. Goltzius, Venere e Adone, 1614, olio su tela, Alte Pinakothek, Monaco |
Da una delle sue
lacrime di resina quindi nacque il giovinotto che fu preso da Venere appena
nato e condotto nell’Erebo da Persefone, affinché lo allevasse in quel luogo
sino a che non fosse divenuto adolescente.
A momento giunto,
nell’andare a reclamare il suo ragazzo, Venere notò quanto bello fosse diventato
Adone e chiese a Persefone di poterlo portare con sé per sempre, ma questa innamorata anch'essa del fanciullo, rifiutò, costringendo Giove a decidere che Adone vivesse metà anno con
Persefone nell’eremo e metà con Venere nei boschi sulla Terra.
Tiziano, Venere e Adone, 1553,
olio
su tela, Museo del Prado, Madrid.
|
Ma un giorno accadde
che durante una battuta di caccia, un cinghiale inferocito attaccò il ragazzo e
lo uccise, provocando il turbamento e le lacrime di dolore di Venere, che
cadendo al suolo diedero vita all’anemone. La tela di Goltzius racconta il momento
antecedente alla morte di Adone, quando Venere è ancora felice tra le braccia
del pastore che la stringe a lei, mentre dietro di loro il piccolo Amore
cavalca uno dei cani dei ragazzo. Un’armonia molto lontana dal forte
struggimento presente nella tela di Tiziano di mezzo secolo anteriore, in cui
Venere, quasi prevedendo la futura morte del suo uomo, cerca in tutti i modi di
aggrapparsi a lui e di impedirgli di partire per la battuta di caccia.
Giorgione, Venere dormiente, 1507 – 1510, olio
su tela, Gemaldegalerie Alte Meister, Dresda |
Tiziano peraltro aveva
già rappresentato Venere nel pieno della sua bellezza, in una tela ora agli
Uffizi, dipinta per il Duca di Urbino Guidobaldo II della Rovere, e per questo
definita Venere di Urbino. Qui la dea distesa è completamente nuda, è seguendo
i canoni della Venere Pudica, si copre i
genitali con una mano, lasciando scoperto il seno senza però turbarsene.
Infatti la Venere ritratta da Tiziano è una donna sensuale, che ben conosce il
potere ammaliante e seducente della sua bellezza, che guarda con atteggiamento
altero dritto davanti a sé, a differenza della Venere ritratta da Giorgione
vent’anni prima, che è adagiata nella medesima posizione, ma viene ripresa
durante il suo riposo, nel pieno di una seduzione ingenua, perché
inconsapevole.
Tiziano, Venere di Urbino, 1538, olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze |
Oltre che intenta a
relazionarsi con i suoi uomini a cui è più legata, un’iconografia raffigurante
la dea, riguarda il suo rapporto con suo figlio Amore, dio dell’Eros e
dell’amore carnale, avuto dal suo matrimonio con Vulcano. Bronzino nel 1553 e
Alessandro Allori nel 1570 danno una versione pressoché analoga nella composizione
e nell’atteggiamento dei soggetti, nei due dipinti raffiguranti Venere che
disarma cupido.
Bronzino, Venere, Amore e Satiro, 1553, olio su tavola, Galleria Colonna, Roma |
L’impostazione è
pressoché identica, svolgendosi la scena orizzontalmente, con Venere che occupa
quasi completamente il registro inferiore col suo corpo seducente,
completamente nudo o solamente coperto con un velo trasparente, che disarma
Amore del suo arco con fare divertito, mentre questi tenta invano di
riprenderlo lanciandosi su sua madre. È una scena ludica, intima, che però nel
primo caso è accompagnata dalla presenza di un satiro che sembra uscire quasi
di sorpresa dal panneggio rossiccio; nella tela dell’Allori invece del satiro
in primo piano si apre uno scorcio paesaggistico che lascia intravedere una
figura agitata (forse Vulcano?). Ancora è interessante evidenziare l’acceso
gioco cromatico che le ali di Amore creano nella tela in entrambi i casi,
curioso è notare la particolare
attenzione posta dall’Allori sulla simbologia della dea, riconoscibile dalla
presenza dei piccioni e delle rose, il fiore dedicato a lei.
A. Allori, Venere e Cupido, 1570, olio su tela, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles |
L. Ferrari, Venere impedisce ad Enea
di uccidere Elena, 1650,
olio su tela, Art Gallery of South Australia, Adelaide
|
E se Amore è il figlio
divino prediletto dalla dea della bellezza, probabilmente Enea è quello
semidivino. Il futuro procreatore della stirpe romana (secondo l’Eneide di
Virgilio) infatti, secondo la mitologia era figlio di Venere ed Anchise, cugino
del Re di Troia Priamo. Il mito narra che il bimbo nacque in seguito
all’invaghimento della dea per il pastore mortale, che pagò però con la cecità
il suo farsi vanto di aver avuto una tresca con la dea della bellezza. Una
mamma legata al figlio, di cui guidò le gesta eroiche e che consigliò
sapientemente, come nella vicenda raccontata da Luca Ferrari nella tela custodita ad Adelaide,
del 1650.
B. Thorvaldsen, Venere con la mela, 1805, marmo, Musèe du Louvre, Parigi |
Nel dipinto Venere
impedisce ad Enea di uccidere Elena, cosicché potesse impiegare il tempo
inutilmente sprecato a fuggire con la sua famiglia dalle mura troiane. È senza
dubbi lodevole l’espressività dei soggetti rappresentati, che raggiunge il
culmine nel serrato gioco di sguardi tra la dea e suo figlio, che tenta di
capire il volere della madre pur non riuscendoci, dato che ha davanti a sé la
donna che ha creato i presupposti per la disfatta della sua gente. Ma in fondo
è stata la stessa Venere ad indicare al giovane Paride la donna più bella del
mondo, per cui era anche giustificabile una sorta di senso di colpa di questa
nei confronti di Elena, rea di essere stata soggiogata dal volere divino.
Più di un secolo dopo,
nel pieno della corrente neoclassica volta a riproporre i canoni, lo stile,
l’eleganza e la vetustà delle civiltà classiche, Thorvaldsen raffigurerà la dea
Venere con in mano la mela che le fu donata proprio da Paride nel celebre
episodio in cui il pastore, chiamato a scegliere la dea più bella tra Venere,
Giunone e Minerva, scelse la prima, che le promise di indicargli la donna più
bella del mondo. La Venere di Thorvaldsen è una divinità conscia della sua
sensualità, orgogliosa del premio vinto tanto da esporlo in mano senza ritegno,
come fosse il trofeo dei trofei e non senza ragione: il pomo era la
dimostrazione che la sua bellezza superava quella delle altre dee.
E nel pieno della
competizione accesa tra i due più grandi esponenti della scultura neoclassica, negli
stessi anni Canova scolpirà una Venere pudica, la Venere Italica, talmente
somigliante ad una donna reale da essere decantata da Ugo Foscolo. La statua
gli fu commissionata per colmare il vuoto procurato dal trafugamento
napoleonico della Venere Medici, rivelandosi una degna sostituta: per
rendere la sensazione della morbidezza delle carni infatti, Canova stese sul
marmo un impasto rosato che contribuì a relegarla tra le opere d’arte più
riuscite del grande artista.
A. Canova, Venere Italica, 1804 – 1812, marmo, Galleria Palatina, Firenze |
Cleomene di Apollodoro, Venere Medici, I sec. a.C., marmo, Galleria degli Uffizi, Firenze |
Scuola di Fontainebleu, Venere alla toilette,
XVI secolo, olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi |
Ma ovviamente per
concludere, checché se ne dica, quando si pensa a Venere ed alla dea della bellezza,
la si riconduce al suo narcisismo, al suo essere sempre perfetta per onorare
l’elemento di cui è la divinità. Su quest’aspetto nel corso dei secoli diversi
artisti si sono dedicati a ritrarla alla toilette, spesso in compagnia di
Amore: due esempi su tutti sono la Venere alla toilette dipinto da un allievo
della Scuola di Fontainebleu agli inizi del XVI secolo e La toilette di Venere,
dipinta da Boucher nel 1751, nelle cui tele, una Venere denudata, perfetta nel
suo corpo liscio e delicato, agghindata solo di tiare e gioielli, si guarda
allo specchio o si fa agghindare da Amore, fiera della sua bellezza, che è ad
un livello talmente alto che non può essere superato da alcuna mortale né dea.
F. Boucher, La toeletta di Venere, 1751, olio su tela, Metropolitan Museum, New York |
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