mercoledì 24 dicembre 2014

Gli dei delle civiltà classiche nella storia dell'arte: AFRODITE / VENERE

Trattando la tematica inerente al racconto figurativo e aneddotico delle divinità appartenenti alle civiltà classiche per eccellenza, ruolo di rilievo ha quello riguardante la dea della bellezza, dell’amore e della fertilità. Una dea eclettica capace di essere madre, sorella e moglie, differenziandosi dalle altre abitanti dell’Olimpo per l’innata grazia e l’armonia che caratterizzava il suo corpo.

Infatti, come tramandatoci dagli artisti greci prima, romani poi, le statue raffiguranti la dea erano quelle proporzionalmente più precise, incarnando questa l’ideale della bellezza femminile. Tant’è vero che ancor oggi tali opere d’arte vengono ricondotte alla perfezione tipica dell’arte classica: si pensi alla Venere di Milo, scolpita da Alessandro di Antiochia nel 130 a.C. e custodita al Louvre, che nonostante sia priva delle braccia, nel suo tronco e nella testa esplica a pieno l’armonia delle forme femminili, o alla Venere Callipigia del Museo Archeologico di Napoli, di una forte sensualità nel sollevamento del peplo che lascia scoperto il fondoschiena della dea (la cui testa è posteriore perché la statua ne fu ritrovata priva).

Alessandro di Antiochia, Venere
di Milo, 130 a.C., marmo pario,
Museo del Louvre, Parigi
Venere Callipigia, II sec. d.C.,
 marmo, Museo Archeologico
 Nazionale, Napoli

Venere di Willendorf, 23.000 a.C.,
calcare, Museo di Storia
 Naturale, Vienna
Ad ogni modo con l’interesse verso le civiltà classiche avviato prima dall’Umanesimo, poi dal Rinascimento, anche quello verso la mitologia greco-romana si ravviva in maniera esponenziale, permettendo l’inizio di una florida produzione artistica incentrata sull’iconografia degli dei. Di qui, Venere fu sempre più associata all’ideale della bellezza e della grazia, della perfezione anatomica femminile e della fertilità; un concetto non poi così lontano da quello che gli storici hanno simbolicamente consegnato alla statuaria raffigurante la Dea madre d’epoca preistorica, come la piccola statuetta rinvenuta a Willendorf, scolpita 23.000 anni fa e chiamata per convenzione Venere.

La Venere degli artisti umanisti e rinascimentali quindi, raffigura non una donna carnale e reale, ma un’ideale divino, le cui fattezze sono antropologicamente e fisiognomicamente identiche a quelle della tipica donna bellissima del loro tempo.
Sandro Botticelli raffigura più volte la dea durante la sua lunga produzione artistica; senza dubbio la più riconosciuta a livello mondiale, è la tavola degli Uffizi che racconta la Nascita di Venere: in realtà nonostante il nome consegnato alla tela per comodità, il dipinto raffigura l’arrivo della dea sulle sponde dell’isola di Cipro a bordo della valva di una grande conchiglia.

S. Botticelli, Nascita di Venere, 1482 – 1485, tempera su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze

La bellezza della dea è ad ogni modo surreale e angelicata nel suo carnato perlaceo e delicato e nella sua fluente chioma dorata svolazzante con l’aiuto di Zefiro, ricordando nella sua impostazione pudica delle braccia, con cui tenta di coprire seno e genitali, il modello statuario classico della Venere Pudica – si veda ad esempio la Venere Pudica di Menophantos al Museo Nazionale Romano – nonché il modello della Venere Anadyomene ossia che esce dalle acque, ripresa in futuro da altri artisti tra cui Ingres, che ne dà una versione sensuale e sacra, allontanando la donna da ogni possibile riferimento temporale e spaziale.

Venere Pudica di Menophantos,
I sec. a.C., marmo, Museo
Nazionale Romano, Roma
J. D. Ingres, Venus Anadyomene,
1848, olio su tela,
Musèe du Louvre, Parigi

Un paio d’anni più tardi quindi Botticelli tornerà ancora sul tema mitologico legato alla dea della bellezza, ma per raccontare un aspetto legato alla sua vita amorosa: il legame tra lei e Marte, da cui nasce Amore o Cupido.
Nella tavola custodita alla National Gallery di Londra, Botticelli gioca con il mito di Venere e Marte, che pone le sue basi su un amore illecito, adultero, essendo la donna sposata a Vulcano, ma follemente innamorata del dio della guerra.

S. Botticelli, Venere e Marte, 1483, tempera su tavola, National Gallery, Londra

L. J. F. Lagrenee, Venere e Marte (Allegoria della Pace),
1770, olio su tela,Paul Getty Museum, Los Angeles
Nella tela appartenente all’ultimo ventennio del XV secolo, una Venere dall’acconciatura e dagli abiti rinascimentali assiste estasiata il suo amante crollato in un sonno talmente profondo da non accorgersi degli innumerevoli scherzetti che i piccoli satiri gli stanno propinando: uno è intento a suonare un corno nel suo orecchio; altri gli rubano elmo e lancia. È una scena quotidiana ed ordinaria quella raccontata da Botticelli, pacifica ed arcadica, che allontana dai due dei l’idea di essere due esseri vendicativi e calcolatori, come spesso solevano rivelarsi nella lettura delle opere epiche classiche.

Lo stesso tema amoroso, tre secoli più tardi sarà ripreso da Lagrenee, che però nella sua tela dell'Allegoria della Pace, racconterà l’aspetto più erotico ed intimistico della coppia, celando dietro questi due soggetti l’allegoria della pace. Il messaggio della tela, vuol essere infatti un direttissimo “fate l’amore, non fate la guerra”, per cui la scelta del pittore di immortalare nella tela una scena erotica riguardante la dea dell’amore che si accoppia con il dio della guerra, rivelava l’idea ben precisa di far notare come l’amore avesse la meglio sulla guerra, riuscendo la dea a convincere il suo amante a deporre le armi per riposare con lei.

J.L. David, Marte disarmato da Venere, 1824, olio su tela,
Musèe Royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles
Anche David toccherà la stessa questione nella sua opera tarda Marte disarmato da Venere, alla quale affida anche un personale messaggio politico, lui che si era sempre esposto nel corso della sua vita. La tela è custodita a Bruxelles, la stessa città nel quale fu esiliato infatti per aver appoggiato la politica napoleonica, e racconta la decisione di Marte di lasciare da parte gli elementi caratterizzanti la sua armatura da guerra, per concedersi all’amore della sua Venere, che adagiata sul triclinio del compagno, lo cinge con una corona di alloro e di fiori. Nell’adesione neoclassica della sua pittura, David resta molto fedele alla classicità della scena, che non risente di modernismi evidenti, e consegna alla dea un potere non indifferente: quello decisionale verso il compagno, che per quanto potente dio della guerra, è sempre destinato a cadere ai piedi della sua donna ad ogni suo schiocco di dita.

B. Spranger, Venere e Vulcano, 1610, olio
su tela, Kusthistorisches Museum, Vienna
Marte però non fu l’unico dio a cui si legò Venere, che è da considerarsi tra le dee più prolifiche dell’Olimpo: tra i suoi compagni vanno considerati Saturno, Nettuno, Bacco, Mercurio e suo padre Giove; in quest’ultimo caso la cosa non deve destare scalpore o scandalo, perché per gli antichi  l’incesto tra gli dei era utile a rafforzare l’idea il concetto di appartenenza allo status di divinità, superiore di gran lunga a quello di semidivinità derivante dalla relazione di un dio con un mortale.

Cosa che però Venere non disdegnò in più riprese. Se infatti il rapporto sentimentale e sessuale con suo marito Vulcano, ci viene raramente raccontato dagli artisti nel corso dei secoli, per cui la tela di  Bartholomeus Spranger del 1610 diviene un documento iconografico importante, raffigurando l’austera dea in intimità con un ammaliato marito brutto nelle fattezze e scuro nella carnagione, quello della dea con il più bello dei mortali, Adoni, è uno dei soggetti riguardanti la dea, più raccontati.

Uno su tutti è proprio Goltzius, l’incisore e pittore fiammingo seicentesco specializzato nella riproduzione di soggetti a carattere erotico, che raffigura nella sua tela la storia un momento sereno riguardante la storia, che presenta un epilogo strappalacrime. Il mito infatti racconta che Adone nacque da Mirra, donna innamorata di suo padre che, vedendo impossibilitato il suo amore, chiese agli dei di essere trasformata in albero.

H. Goltzius, Venere e Adone, 1614, 
olio su tela, Alte Pinakothek, Monaco
Da una delle sue lacrime di resina quindi nacque il giovinotto che fu preso da Venere appena nato e condotto nell’Erebo da Persefone, affinché lo allevasse in quel luogo sino a che non fosse divenuto adolescente.
A momento giunto, nell’andare a reclamare il suo ragazzo, Venere notò quanto bello fosse diventato Adone e chiese a Persefone di poterlo portare con sé per sempre, ma questa innamorata anch'essa del fanciullo, rifiutò, costringendo Giove a decidere che Adone vivesse metà anno con Persefone nell’eremo e metà con Venere nei boschi sulla Terra.

Tiziano, Venere e Adone, 1553, 
olio su tela, Museo del Prado, Madrid. 
Ma un giorno accadde che durante una battuta di caccia, un cinghiale inferocito attaccò il ragazzo e lo uccise, provocando il turbamento e le lacrime di dolore di Venere, che cadendo al suolo diedero vita all’anemone. La tela di Goltzius racconta il momento antecedente alla morte di Adone, quando Venere è ancora felice tra le braccia del pastore che la stringe a lei, mentre dietro di loro il piccolo Amore cavalca uno dei cani dei ragazzo. Un’armonia molto lontana dal forte struggimento presente nella tela di Tiziano di mezzo secolo anteriore, in cui Venere, quasi prevedendo la futura morte del suo uomo, cerca in tutti i modi di aggrapparsi a lui e di impedirgli di partire per la battuta di caccia.

Giorgione, Venere dormiente, 1507 – 1510, olio
su tela, Gemaldegalerie Alte Meister, Dresda
Tiziano peraltro aveva già rappresentato Venere nel pieno della sua bellezza, in una tela ora agli Uffizi, dipinta per il Duca di Urbino Guidobaldo II della Rovere, e per questo definita Venere di Urbino. Qui la dea distesa è completamente nuda, è seguendo i canoni della Venere Pudica, si copre  i genitali con una mano, lasciando scoperto il seno senza però turbarsene. Infatti la Venere ritratta da Tiziano è una donna sensuale, che ben conosce il potere ammaliante e seducente della sua bellezza, che guarda con atteggiamento altero dritto davanti a sé, a differenza della Venere ritratta da Giorgione vent’anni prima, che è adagiata nella medesima posizione, ma viene ripresa durante il suo riposo, nel pieno di una seduzione ingenua, perché inconsapevole.

Tiziano, Venere di Urbino, 1538, olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze

Oltre che intenta a relazionarsi con i suoi uomini a cui è più legata, un’iconografia raffigurante la dea, riguarda il suo rapporto con suo figlio Amore, dio dell’Eros e dell’amore carnale, avuto dal suo matrimonio con Vulcano. Bronzino nel 1553 e Alessandro Allori nel 1570 danno una versione pressoché analoga nella composizione e nell’atteggiamento dei soggetti, nei due dipinti raffiguranti Venere che disarma cupido.

Bronzino, Venere, Amore e Satiro, 1553, olio su tavola, Galleria Colonna, Roma

L’impostazione è pressoché identica, svolgendosi la scena orizzontalmente, con Venere che occupa quasi completamente il registro inferiore col suo corpo seducente, completamente nudo o solamente coperto con un velo trasparente, che disarma Amore del suo arco con fare divertito, mentre questi tenta invano di riprenderlo lanciandosi su sua madre. È una scena ludica, intima, che però nel primo caso è accompagnata dalla presenza di un satiro che sembra uscire quasi di sorpresa dal panneggio rossiccio; nella tela dell’Allori invece del satiro in primo piano si apre uno scorcio paesaggistico che lascia intravedere una figura agitata (forse Vulcano?). Ancora è interessante evidenziare l’acceso gioco cromatico che le ali di Amore creano nella tela in entrambi i casi, curioso è  notare la particolare attenzione posta dall’Allori sulla simbologia della dea, riconoscibile dalla presenza dei piccioni e delle rose, il fiore dedicato a lei.

A. Allori, Venere e Cupido, 1570, olio su tela, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles

L. Ferrari, Venere impedisce ad Enea di uccidere Elena, 1650, 
olio su tela, Art Gallery of South Australia, Adelaide
E se Amore è il figlio divino prediletto dalla dea della bellezza, probabilmente Enea è quello semidivino. Il futuro procreatore della stirpe romana (secondo l’Eneide di Virgilio) infatti, secondo la mitologia era figlio di Venere ed Anchise, cugino del Re di Troia Priamo. Il mito narra che il bimbo nacque in seguito all’invaghimento della dea per il pastore mortale, che pagò però con la cecità il suo farsi vanto di aver avuto una tresca con la dea della bellezza. Una mamma legata al figlio, di cui guidò le gesta eroiche e che consigliò sapientemente, come nella vicenda raccontata da  Luca Ferrari nella tela custodita ad Adelaide, del 1650.

B. Thorvaldsen, Venere con
la mela, 1805, marmo,
 Musèe du Louvre, Parigi
Nel dipinto Venere impedisce ad Enea di uccidere Elena, cosicché potesse impiegare il tempo inutilmente sprecato a fuggire con la sua famiglia dalle mura troiane. È senza dubbi lodevole l’espressività dei soggetti rappresentati, che raggiunge il culmine nel serrato gioco di sguardi tra la dea e suo figlio, che tenta di capire il volere della madre pur non riuscendoci, dato che ha davanti a sé la donna che ha creato i presupposti per la disfatta della sua gente. Ma in fondo è stata la stessa Venere ad indicare al giovane Paride la donna più bella del mondo, per cui era anche giustificabile una sorta di senso di colpa di questa nei confronti di Elena, rea di essere stata soggiogata dal volere divino.

Più di un secolo dopo, nel pieno della corrente neoclassica volta a riproporre i canoni, lo stile, l’eleganza e la vetustà delle civiltà classiche, Thorvaldsen raffigurerà la dea Venere con in mano la mela che le fu donata proprio da Paride nel celebre episodio in cui il pastore, chiamato a scegliere la dea più bella tra Venere, Giunone e Minerva, scelse la prima, che le promise di indicargli la donna più bella del mondo. La Venere di Thorvaldsen è una divinità conscia della sua sensualità, orgogliosa del premio vinto tanto da esporlo in mano senza ritegno, come fosse il trofeo dei trofei e non senza ragione: il pomo era la dimostrazione che la sua bellezza superava quella delle altre dee.

E nel pieno della competizione accesa tra i due più grandi esponenti della scultura neoclassica, negli stessi anni Canova scolpirà una Venere pudica, la Venere Italica, talmente somigliante ad una donna reale da essere decantata da Ugo Foscolo. La statua gli fu commissionata per colmare il vuoto procurato dal trafugamento napoleonico della Venere Medici, rivelandosi una degna sostituta: per rendere la sensazione della morbidezza delle carni infatti, Canova stese sul marmo un impasto rosato che contribuì a relegarla tra le opere d’arte più riuscite del grande artista.

A. Canova, Venere Italica, 1804 – 1812,
 marmo, Galleria Palatina, Firenze
Cleomene di Apollodoro, Venere Medici,
I sec. a.C., marmo, Galleria degli Uffizi, Firenze

Scuola di Fontainebleu, Venere alla toilette, XVI
secolo, olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi
Ma ovviamente per concludere, checché se ne dica, quando si pensa a Venere ed alla dea della bellezza, la si riconduce al suo narcisismo, al suo essere sempre perfetta per onorare l’elemento di cui è la divinità. Su quest’aspetto nel corso dei secoli diversi artisti si sono dedicati a ritrarla alla toilette, spesso in compagnia di Amore: due esempi su tutti sono la Venere alla toilette dipinto da un allievo della Scuola di Fontainebleu agli inizi del XVI secolo e La toilette di Venere, dipinta da Boucher nel 1751, nelle cui tele, una Venere denudata, perfetta nel suo corpo liscio e delicato, agghindata solo di tiare e gioielli, si guarda allo specchio o si fa agghindare da Amore, fiera della sua bellezza, che è ad un livello talmente alto che non può essere superato da alcuna mortale né dea.


F. Boucher, La toeletta di Venere, 1751, olio su tela, Metropolitan Museum, New York

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