In occasione dell’Expo
che si terrà a Milano dal 1 maggio al 31 ottobre 2015, anche Svirgolettate ha
voluto onorare l’evento approfondendo alcune tematiche legate al cibo, in un
post appositamente dedicato.
In fondo l’Italia, esulando da qualsiasi luogo comune, è rinomata in tutto il mondo proprio per essere un’eccellenza sia nel campo della cucina e del cibo più in generale, sia in quello dell’arte: due mondi che, quando si incontrano, danno adito a qualcosa di molto vicino alla perfezione.
In fondo l’Italia, esulando da qualsiasi luogo comune, è rinomata in tutto il mondo proprio per essere un’eccellenza sia nel campo della cucina e del cibo più in generale, sia in quello dell’arte: due mondi che, quando si incontrano, danno adito a qualcosa di molto vicino alla perfezione.
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Diverse sono le
tematiche riguardanti il mondo del cibo, nella storia dell’arte: molti artisti
si sono cimentati in più occasioni, dipingendo nature morte, pranzi luculliani
o cene bibliche e neotestamentarie – o scolpendole, si veda ad esempio l’architrave
del portale della Chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, in cui Maestro
Gruamonte nel 1166 raffigurò l’Ultima Cena; – pochi sono invece quelli che
hanno fatto proprio del cibo il loro tratto di riconoscimento, come l’Arcimboldo
verso la fine del XVI secolo.
Maestro Gruamonte, Ultima Cena, 1166, Portale della Chiesa San Giovanni Fuorcivitas, Pistoia |
L’artista lombardo, noto
per il suo modo di creare figure assemblando elementi comuni tra loro, usò
infatti proprio alcuni frutti e vegetali per creare alcuni ritratti, dalla
forte connotazione angosciante: l’Ortolano del 1590, custodito al Museo Civico
Ala Ponzone di Cremona è infatti una tela che ha come soggetto una composizione
di frutta e verdura disposte in una ciotola nera. Ma ruotando la stessa natura
morta di 180°, quel che ne esce è il ritratto di un uomo paffuto, che ha come
cappello la ciotola scura, e come tratti fisiognomici le cipolle in qualità di
gote, la rapa bianca come naso, noce e ghiande come occhi.
G. Arcimboldo, L’ortolano, 1590, olio su tela,
Museo Civico Ala Ponzone, Cremona |
G. Arcimboldo, L’ortolano, 1590, olio su tela, Museo Civico Ala Ponzone, Cremona |
Nella storia dell’arte,
ad ogni modo, solitamente il cibo è sempre stato raccontato pressappoco
attraverso due grandi punti di vista: la rappresentazione - dal vero o figurata
- degli alimenti e il rapporto dell’uomo con esso. Un rapporto non solo di dipendenza,
ma proprio di necessità impellente, perché proprio il cibo è linfa vitale sin
dalla nascita di ogni essere umano.
Il latte che
scaturisce dal seno della mamma nella bocca del bambino infatti, non solo è
simbolo di legame tra genitore e figlio, ma risulta anche essere elemento di
continuità tra le due figure: un passaggio di testimone dell’amore materno
verso il figlio, un dono naturale portatore di vita.
Le madonne del latte,
soggetti raccontati in più riprese dagli artisti di tutti i tempi, ben
testimoniano questo legame non solo sacro, ma proprio affettivo tra la Vergine
e il Salvatore, che prima di tutto sono mamma e figlio.
Molto espressiva è a
tal punto la scultura in marmo dipinto della Madonna del latte di Nino Pisano,
scultura della metà del XIV secolo, conservata presso il Museo Nazionale di San
Matteo a Pisa: il Bambino, cullato dalle
amorevoli braccia della mamma, si aggrappa con le due mani al seno della donna,
tirandole il capezzolo con la bocca per poter bere il suo latte.
Una visione tanto
realistica quanto audace quella del Pisano, che non si riflette per esempio nel
dipinto di Marco Zoppo, in cui il Bambino si fionda sulla tetta della mamma
girata di tre quarti, nascondendole il capezzolo ma lasciando visibile il seno,
così da rendere l’idea dell’abbeveramento.
N. Pisano, Madonna del latte, 1347 – 1348, marmo dipinto, Museo Nazionale di San Matteo, Pisa |
M. Zoppo, Madonna del latte, 1453 – 1455, olio su tavola (poi su tela), Musèe du Louvre, Parigi |
A. Carracci, Il
mangiafagioli, 1584,
olio su tela, Galleria Colonna, Roma.
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Una necessità che, con
l’avanzamento dell’età, connubia con l’abitudine, trasformando quello che è il
bisogno utile alla sopravvivenza, in un vero e proprio rito, molto spesso di
piacere.
È quanto appare in
generale nei dipinti che illustrano il momento in cui l’uomo incontra il cibo;
un momento di sollievo e appagamento, come nel caso de’ Il mangiafagioli di
Annibale Carracci, nella cui tela si intravede tutta la foga del contadinotto
che si appresta a trangugiare la sua zuppa di legumi con voracità, evidente
nella bocca spalancata pronta a ricevere la cucchiaiata sbrodolante, e nella
presa ferma del panino con la mano sinistra.
D. Velázquez, Scena di una taverna, 1617, olio su tela, Ermitage Museum, San Pietroburgo |
Quando poi il singolo
elemento incontra la comunità, il piacere di mangiare diventa condivisione. Una
condivisione sociale quando avviene negli spazi adibiti alla consumazione del
cibo come osterie, ristoranti e taverne. Luoghi che, molto spesso, si
dimostrano essere la culla della vita del paese, aprendo a nuovi incontri e
piacevoli conversazioni come nel caso della Scena di una taverna di Diego
Velazquez, o fomentando discussioni e vere e proprie prese di posizione come nella
divertente tela di Jan Steen Litigio per delle scommesse, nella cui taverna
tipica dei paesi nordici, un gruppo di persone inizia a litigare in seguito
alla vincita al gioco di alcuni a discapito di altri.
J. Steen, Litigio per delle scommesse, 1665, olio su tela, Art Institute of Detroit, Detroit |
Non manca poi il tocco
di classe, che arriva quando la tavola imbandita, il clima che si respira, i
personaggi al tavolo e tutto il contesto, trasudano la tipicità di un luogo
particolare. Un caso su tutti è la tela di Carl Heinrich Bloch, che illustra il
convivio di tre ragazzi in un’osteria romana: gli abiti tradizionali dei tre
giovani, lo sguardo seducente e ammiccante delle due fanciulle, in contrasto
con quello intriso di gelosia e scontroso del giovanotto baffuto, la bottiglia
di vetro contenente del vino rosso, i panini spezzati, l’insalata nel piatto
centrale, il coltello nella tasca del pantalone di lui, il modo di tenere le
posate della ragazza a sinistra, il modo di tener il bicchiere di quella a
destra, sono indizi che riconducono ad un unico comune denominatore, la loro
italianità.
C. H. Bloch, In un’osteria romana, 1866, olio su tela, Statens Museum for Kunst, Copenhagen |
Giuseppe De Nittis,
Colazione a Posillipo,
1883, olio su tela, Galleria d'Arte Moderna, Milano
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Un’idea che negli
stessi decenni si respira anche in una tela di un artista meridionale, il
barlettano Giuseppe De Nittis, che nel 1883 dipinge un momento privato vissuto
a Napoli con sua moglie ed alcuni amici.
Il dipinto immortala una
colazione a Posillipo, avvenuta nel noto quartiere napoletano. La tavola è imbandita
delle stoviglie, dei flute di spumante e di un rigoglioso bouquet di fiori
rossi e bianchi, ma non vi è ancora nessuna traccia di cibo nei piatti che
appaiono vuoti, il che lascia presagire che la colazione debba ancora avvenire.
Sullo sfondo intanto, a rendere più magica l’atmosfera ci pensa l’avvento dell’alba,
mentre il tocco caratteristico viene dato dai chitarristi neomelodici sulla
destra.
E. Manet, Colazione
sull’erba,
1863, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi.
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Una colazione che
senza dubbi viene molto citata nelle lezioni di storia dell’arte, perché punto
cardine della corrente impressionista, è La colazione sull’erba di Edouard Manet.
La tela, che destò molto scalpore perché in qualche modo sembrava sbeffeggiare
l’idea di arte quale materia nobile, attraverso
l’utilizzo di colori contrastanti tra loro e dell’introduzione di un soggetto
diseducativo quale una donna nuda tra giovani borghesi, dal punto di vista che
interessa l’argomento di questo post, raffigura tre giovani ragazzi che hanno
appena ultimato la loro colazione, di cui rimangono resti di pane e frutta, su
un panno azzurro ed in un cesto di vimini in primo piano sulla sinistra,
secondo un’impostazione copiata da un’incisione di Raimondi del Giudizio di
Paride di Raffaello.
C. Monet, Il pranzo, 1868, olio su
tela,
Städelsches Kunstinstitut, Francoforte
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Colazioni molto
lontane dall’idea tipicamente italiana del latte con biscotti e dolcetti di
ogni tipo, molto più tendente alla visione nordica di piatti cucinati e ricchi
di proteine e carboidrati, accompagnati con frutta di stagione. Quella che
appare nella tela di un Henri Matisse ancora molto giovane e accademico,
raffigurante una tavola imbandita. Il dipinto del 1896, dal chiaro tocco
impressionista, apre infatti ad una tavola ricca di alzatine piene dei più variegati
frutti freschi, accompagnati da alcune pagnottelle. È evidente nel dipinto però
come, il chiaro intento del pittore francese non fosse quello di documentare le
pietanze tipiche della colazione (o pranzo) in questione, ma quello di
dimostrare la sua maestria nella resa dell’effetto vitreo di bottiglie e
bicchieri, che paiono riflettere la luce del giorno proveniente dalle diverse
aperture della stanza.
Anche l’intento di
Claude Monet ne’ Il pranzo non è di certo quello di documentare le pietanze
consumate dai suoi familiari seduti a tavola, bensì quello di raccontare un
momento di vita privato; ciò nonostante però è lodevole l’accuratezza con cui
il pittore si appropinquia al cibo in tavola: due uova fresche sul piatto di
cui uno nel portauovo, pagnotte di pane di grano, uva a grappoli, un vasetto di marmellata coperta da un panno, un piatto
centrale con la pietanza del giorno, l’oliera e l’acetiera, la bottiglia del
vino rosso. Tutti elementi che connotano non solo la qualità del pranzo del
pittore ma anche il suo stile di vita medio borghese.
H. Matisse, La tavola imbandita, 1896, olio su tela, Stavros S. Niarcos Foundation, Atene |
S. Lega, Un dopopranzo alla pergola, 1868, olio
su tela, Pinacoteca di Brera, Milano |
E nel racconto delle
diverse fasi giornaliere dell’incontro tra uomo e cibo, dopo il pranzo
sopraggiunge il dopopranzo, quel momento in cui avviene la digestione, con l’aiuto
del caffè o del digestivo secondo la buona tradizione mediterranea. Nel un
dopopranzo alla pergola, il dipinto di Silvestro Lega custodito alla Pinacoteca
di Brera a Milano, si respira tutta l’aria della primavera mediterranea: la
presenza di un’atmosfera soleggiata ma non invasiva, l’ombreggiatura data dal
pergolato e il prato in fiore, sono degli ottimi coadiuvanti al caffè portato
sul vassoio dalla serva.
Leonardo da Vinci,
Ultima Cena, 1494 – 1498,
tempera grassa su intonaco, Refettorio
Santa Maria
delle Grazie, Milano.
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Ovviamente così come
la colazione ed il pranzo, anche la cena viene raffigurata sovente dagli
artisti nel corso dei secoli. Ne sono chiare dimostrazioni gli innumerevoli dipinti
raffiguranti l’Ultima cena o la Cena in Emmaus, due degli episodi
neotestamentari più conosciuti dal popolo.
Uno degli esempi più
lampanti di quanto detto è proprio il Cenacolo leonardesco sito nel Refettorio
di Santa Maria delle Grazie, che sarà sicuramente uno dei punti di forza della
città di Milano in pieno Expo: un’opera conosciuta al mondo per la drammaticità
derivante dalla disgregazione dovuta all’inefficacia della tecnica pittorica adoperata
dal grande maestro, che volle sperimentare la tempera grassa sull’intonaco.
Tra le raffigurazioni
dell’Ultima Cena più riuscite vi è però senza dubbi quella di Alessandro
Allori, attualmente all’Accademia Carrara di Bergamo, olio su tela del 1582. La
tavola imbandita dove cenano Cristo e i discepoli è un tripudio di prelibatezze
di campagna e di mare: olive, frutti di mare, limoni, pere, pane; tutto è
pronto per la grande celebrazione di cui protagonista è il piatto centrale
gigantesco che contiene il pane spezzato con cui Gesù farà l’eucarestia.
Una rappresentazione
notevole quella dell’Allori, che non si discosta molto da quella presente sulle
pareti interne della Basilica di Santa Maria Maggiore sempre a Bergamo, opera
trecentesca di una maestranza locale, forse riscontrabile in Pacino da Nova,
luculliana nelle portate, magniloquente nella dislocazione dei soggetti che
avvolgono la lunga tavolata, lasciando però l’apertura adeguata a rendere la
scena di stampo teatrale.
A. Allori, Ultima Cena, 1582, olio su tela, Accademia Carrara, Bergamo |
Pacino da Nova (?), Ultima Cena, 1375 – 1390, affresco, Basilica di Santa Maria Maggiore, Bergamo |
Nulla a che vedere con
la Cena in Emmaus sita alla National Gallery di Londra che il Caravaggio dipinse
circa vent’anni dopo: quella del pittore lombardo è una cena più intima, meno
studiata perché meno studiate sono le pose dei personaggi, più dinamica perché gli
sguardi vengono attratti dalle mani di Gesù e del discepolo esterrefatto alla
sua sinistra, piuttosto che dalle pietanze sul tavolo. Pietanze tra le quali, campeggia
la canestra di vimini dipinta dal pittore un paio di anni prima.
Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601 – 1602, olio su tela, National Gallery, Londra |
Caravaggio, La canestra di frutta, 1599, olio su tela, Pinacoteca Ambrosiana, Milano |
Ed è proprio la Canestra
di frutta del Caravaggio, che ci conduce al secondo blocco argomentativo
riguardante il modo in cui è stato raccontato il cibo nella storia dell’arte:
la raffigurazione del cibo quale soggetto protagonista di un’opera.
In realtà non c’è
molto da dire a riguardo, dato che sino all’avvento dell’arte contemporanea il
cibo è quasi sempre stato raffigurato in maniera verosimile e inteso nel pieno
dell’importanza ad esso relegato.
Sicuramente la
Canestra di frutta del 1599 simboleggia un vero e proprio punto di rottura con
il passato e, quindi, un punto di inizio per quella che sarà la concezione
della natura morta quale protagonista unica di un’opera d’arte. Prima di allora
infatti nessun artista si era dilettato nella raffigurazione di una natura
morta a discapito di paesaggi o soggetti mitologici e religiosi.
Ma la Canestra di
frutta del Caravaggio non è solo questo, è anche una spugna di riconduzioni
simboliche e iconografiche: da un lato è evidente il richiamo alla Vanitas, della
caducità della vita attraverso la resa di frutti colpiti da malattie e insetti,
dall’altro i diversi frutti presenti sono un richiamo alla Passione di Cristo,
come ad esempio l’uva da cui si ottiene il vino o la mela simbolo di salvezza.
P. Cezanne, Natura morta con mele e arance, 1899, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi |
Tre secoli più tardi
anche le nature morte di Paul Cezanne saranno connotate da un significato
tecnico stilistico più che raffigurativo. Infatti le sue sei composizioni
aventi per protagoniste frutti per lo più invernali, dipinte nel 1899 - una su
tutte la Natura morta con mele ed arance – sono un modo concreto per ritornare
all’idea di composizione fiamminga del XVII secolo, mantenendo però una nuova
concezione plastica e dinamica d’insieme dato dalle arance sferiche e dalle
mele piene e caratterizzate dalle mille sfaccettature cromatiche, che ben fanno
da contrasto al panno bianco che a sua volta fa da contrasto al panno violaceo
sullo sfondo, aprendo a quello che sarà il suo stile fatto di volumi e cromie
contrapposte tra loro.
A. Warhol, Campbell’s soup cans, 1962, pittura polimerica sintetica su tela, MoMA, New York |
Saltando di qualche
decennio, negli anni ’60 del Novecento, il cibo viene investito di una nuova
etichetta più filosofica, divenendo ambasciatore di una visione dissacratoria
dell’arte. È quanto fa Andy Warhol nel considerare la minestra in scatola come
bandiera del nuovo modo di concepire l’arte. Agli inizi del nuovo decennio rivoluzionario
infatti, l’artista americano riprodurrà stampe, disegni e dipinti seriali della
Campbell’s soup, una minestra preconfezionata distribuita nei supermarket
oltreoceano.
P. Manzoni, Merda d'artista (47), 1961,
Scatoletta di latta e carta stampata, collezione Codognato, Venezia |
L’intento di Warhol
ovviamente non tende a riguardare la sfera estetica dell’opera in questione, - limitandosi
a riprodurre una mera e sciapa scatoletta, - ma è quello di spingere il fruitore
a considerare la nuova società a cui l’arte stessa si riferisce, una società
ormai così omologata ed omogenea che, appunto, in barba a qualunque convenzione
sociale, consuma la stessa scatoletta di minestra a prescindere dal ceto
sociale d’appartenenza: un po’ quanto accade quindi pure nell’arte, che Warhol
ripulisce del suo carattere aulico, rendendola riferibile a tutti, indistintamente,
da quel punto in poi.
Anche in Italia, negli
stessi anni, un artista milanese, Piero Manzoni, era alle prese con scatolette
prodotte in modo seriale; scatolette che però non contenevano affatto zuppa di
pomodoro o altri alimenti, bensì le feci dell’artista, sempre secondo una
visione volta a cercare altre visioni dell'arte oltre e quella nobile.
P. Manzoni, Consumazione dell'arte dinamica del pubblico divorare l'arte - esemplare n. 34, 1960, uovo - legno, Collezione Boschi di Stefano, Milano |
Proprio allo stesso, è
ascrivibile nel 1960, la performance “Consumazione dell’arte dinamica del
pubblico divorare l’arte”, tenutasi a Milano presso la Galleria Azimut,
consistente nell’ingerimento da parte degli spettatori, di uova lesse che l’artista
aveva marchiato con il suo pollice imbevuto di inchiostro: il fine della
performance era quello di dimostrare come, la tangibilità di quell’evento, si
perdesse nell’esatto momento in cui veniva ingerito l’uovo, simbolo concreto
dell’avvenimento.
Ma non solo: l’uovo
ingerito diveniva simbolo di un legame figurato tra artista e fruitore, legame
simboleggiato dall’impronta del pollice marchiata sull’uovo lesso.
Sicuramente però, con
l’avvento della tecnologia ed il perfezionamento dello stile pittorico
attraverso il matrimonio di questo con la fotografia, è con il fotorealismo che
si è ottenuta un visione del cibo identica nel dettaglio all’originale da cui è
copiato, quasi come se fosse un’istantanea scattata.
R. Goings, Ciambella, 1995, olio su tela |
Uno degli esponenti di
questa corrente, Ralph Goings, nelle sue tele ben rende l’accuratezza e la
precisione delle nature morte raffigurate; nature morte che molto spesso
raccontano nel suo caso, il mondo underground delle metropoli americane a
cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, connotati dalle salse ketchup e maionese
sui tavoli delle rosticcerie dei quartieri malfamati e dalle ciambelle
semifredde accanto a volgari caffè spacciati per espresso, nelle anonime tavole
calde dei ghetti più malfidati: realtà geograficamente e qualitativamente molto lontane da quella che molto probabilmente sarà la politica dell'EXPO.