Cavallo, 15.000 – 10.000 a.C.,
pittura parietale,
Caverna di Lascaux
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Come nelle migliori
cronistorie tematiche affrontate in questo blog, anche per quanto ne concerne
l’analisi della raffigurazione del cavallo nella storia dell’arte, è d’uopo
soffermarsi sulla presenza già in antichità, del soggetto nelle
rappresentazioni pittoriche parietali o vascolari.
Infatti, come desumile
dalle pitture sulle pareti della Grotta di Lescaux, in Francia, già 15.000 –
10.000 anni fa, gli uomini preistorici erano soliti raffigurare l’animale,
probabilmente ancora selvatico.
Anfora attica a figure nere, VI sec. A.C., terracotta, Museo del Louvre, Parigi |
È con l’arte greca,
che noi riscontriamo le prime immagini anatomicamente precise del cavallo.
Infatti nella civiltà classica per eccellenza, - ma già prima con egiziani e
fenici – il cavallo diviene il mezzo di trasporto bellico degli eserciti, per
cui la sua considerazione nella vita sociale e quotidiana delle polis, acquista
notevole spessore. Da una delle anfore a figure nere del periodo attico,
custodite nel Louvre a Parigi, si delinea un cavallo dalle forme sinuose e
schematiche, regale nel suo aspetto dal corpo robusto e le zampe longilinee.
D’altronde è ben risaputa la storia leggendaria del Cavallo di Troia,
l’espediente gigantesco che permise ai greci di vincere sui troiani, così come dal punto di vista poetico letterario, la presenza del Centauro nella mitologia greca, un essere per metà uomo e per metà cavallo.
Biga con due cavalli, I sec. D.C.,
marmo,
Musei Vaticani, Città del Vaticano.
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Coi romani, lo studio
dell’anatomia, della muscolatura e della fisiognomica del cavallo si affina
sino a raggiungere altissimi livelli. Ormai il cavallo viene raffigurato non
solo ideologicamente quale elemento fondamentale per il vissuto dell’uomo, ma
anche come metafora del suo spirito forte e irruento. I cavalli del gruppo scultoreo
della Sala della biga ai Musei Vaticani, sono infatti cavalli scalpitanti e
immortalati nel loro galoppo febbricitante verso la vittoria. Ovviamente i
tronchi che si diramano dalla base verso i loro petti, servivano per scaricare
a terra il peso del corpo che si erge sulle due zampe posteriori: un supporto
fondamentale per non permettere che il gruppo scultoreo si sgretolasse in due
pezzi o perdesse dell’equilibrio necessario.
Monumento equestre a Caligola,
50
a.C., gruppo scultoreo in marmo,
British Museum, Londra.
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Oltre che dal punto di
vista bellico e quotidiano, per i romani il cavallo rappresentava anche un
fedele alleato ed uno status quo: nella ritrattistica imperiale infatti non di
rado gli imperatori si lasciavano immortalare in monumenti dal sapore equestre,
che relegavano loro un’impostazione densa di potere e regalità. Ne sono due
esempi validi i monumenti equestri salvatisi dalla Damnatio Memorie che colpi i
due soggetti in questione: Caligola e Marco Aurelio.
Caligola fu
l’imperatore che forse più degli altri governò l’Impero Romano nel pieno della
follia. Forte delle sue scelte politiche strambe ed eclettiche, fu molto
innamorato del suo cavallo Incitatus, tanto da arrivare praticamente ad
idolatrarlo: nel corso del suo regno, è leggenda assodata che si coricasse nel
suo letto assieme a questo; altre fonti narrano che non solo gli avesse
regalato una collana così preziosa che era l’invidia di ogni nobildonna romana,
ma che addirittura gli avesse fatto costruire un palazzo personale per farsi
perdonare di aver scelto una donna come moglie a lui; mentre è dato certo che
addirittura arrivò persino a nominare quel suo cavallo senatore dopo averlo
prima nominato sacerdote e poi primo cittadino romano, oltre che averlo
candidato alla carica di console. Questo forte attaccamento di desume dal
gruppo scultoreo del Monumento equestre a Caligola del British Museum, nel quale (quel che si crede) Caligola,
cavalca fiero il suo Incitatus, che dal suo canto, nella perfezione del suo
corpo da cavallo da corsa di bighe, si erge fiero, postando una zampa in
avanti.
Monumento equestre a Marco Aurelio (copia), 176 d.C., bronzo, Piazza del Campidoglio, Roma |
Vale lo stesso
discorso per il Monumento equestre a Marco Aurelio, in bronzo, sicuramente più
stabile del primo perché non provvisto del tronco atto a stabilizzare il gruppo
statuario. Anche in questo caso Marco Aurelio, nella sua barba filosofica e
nella sua toga, sovrasta il cavallo agghindato di tutto punto e rifinito nella
muscolatura e nelle striature della pelle delle parti basse delle zampe. Un
gruppo statuario così preciso e meravigliosamente classico, che indusse Papa Paolo
III, nel 1531, ad ordinare a Michelangelo che trovasse a questa una degna
collocazione nella Piazza del Campidoglio a Roma, allora sede delle autorità
politiche cittadine. Ovviamente Michelangelo non si limitò a trovarle una
collocazione, ma, nel pieno dell’idea rinascimentale per cui al centro del
mondo vi è l’uomo – in questo caso l’imperatore a cavallo – la dispose al
centro della piazza ristrutturata completamente e chiusa in un trapezio con la
costruzione del Palazzo Nuovo, simmetrico al frontale Palazzo dei Conservatori.
Michelangelo, Rivisitazione della
Piazza del Campidoglio, 1534 – 1538, Roma.
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Effettivamente la
scelta di Paolo III non appariva sconclusionata, dato che la sua decisione non
fu un vero e proprio revival scovato nei cassetti del passato, ma il seguito di
una scia consolidata ormai da decenni. I monumenti equestri ai grandi
personaggi coevi, meritevoli di imprese politiche o belliche e quindi immortalati
sui loro cavalli in complessi scultorei, si ergevano già nelle piazze di
importanti città – soprattutto del nord: tra tutti si veda il Monumento equestre al Gattamelata,
eseguito dal Donatello tra il 1446 ed il 1453, sita nella Piazza del Santo a
Padova, e il Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni, opera di Andrea del
Verrocchio del 1480 – ’88, che svetta in campo San Zanipolo a Venezia, nel
pieno della fierezza austera del condottiero.
Donatello, Monumento equestre al
Gattamelata,
1446 – '53, bronzo, Piazza del Santo, Padova.
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A. del Verrocchio, Monumento equestre a
Bartolomeo Colleoni, 1480 – '88, bronzo, Campo San Zanipolo, Venezia |
G. Romano, Sala dei Cavalli, 1525 – '27,
affresco, Palazzo Te, Mantova. |
In piena età
rinascimentale, lo studio degli animali si fa più intenso, preciso e mirato:
gli animali non sono più una componente nei dipinti e nelle sculture, ma
divengono veri e propri protagonisti, tanto che pittori del calibro di Giovanni
da Udine, della bottega di Raffaello, si specializzano nel settore. Da lui
prenderà probabilmente spunto anche Giulio Romano, uno dei più talentuosi e
classicisti della bottega del grande maestro urbinate, nella raffigurazione dei cavalli nella Sala dei Cavalli a Palazzo Te a Mantova. Qui il pittore decorò le
pareti con le raffigurazioni dei cavalli a grandezza naturale, delle scuderie
gonzaghesche, di cui quattro è conosciuto persino il nome: Dario, Morel
Favorito, Battaglia e Glorioso.
Leonardo, Studio di cavalli, 1504,
carboncino su carta,
Collezione reale del Castello di Windsor, Londra.
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Altro campo di studio
riguardante i cavalli, fu quello delle scene di battaglia o di calca, uno
studio fondamentale per gli artisti, a cui non di rado venivano commissionate
opere inneggianti alla vittoria di questa o quell’altra battaglia (si veda ad
esempio il trittico della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, nel quale
i cavalli giocano un ruolo fondamentale nella struttura sia compositiva che
emotiva dei dipinti). Nel campo, tra i più talentuosi e precisi bisogna
annoverare Leonardo da Vinci, che ha lasciato diversi bozzetti dei suoi studi
sui cavalli, utili soprattutto per capire come poteva apparire la sua opera
monumentale riguardante la Battaglia di Anghiari, ormai perduta. Di questa
abbiamo solo un bozzetto ridisegnato a metà ‘500 da un suo seguace, riproposto
poi in una fedelissima copia, dal Rubens, agli inizi del XVIII secolo.
P. Uccello, Battaglia di San Romano,
1438, misto su tavola, Louvre Parigi,
National Gallery Londra, Uffizi Firenze
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P. Rubens, Bozzetto de’ La Battaglia di
Anghiari, 1603, matita su carta, Museo del Louvre, Parigi |
Caravaggio, Conversione di S. Paolo, 1601, olio su tela, Santa Maria del Popolo, Roma |
Ed agli stessi anni
appartiene la tela de’ La conversione di San Paolo, che il Caravaggio dipinse
per la Cappella Cerasi nella Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma, nel 1601. E nella migliore
tradizione caravaggesca, esponente massimo del Naturalismo Italiano
seicentesco, il cavallo da cui cade il cavaliere redento, si mostra nella sua
reale figura, con imperfezioni annesse. Infatti a differenza della resa
cinquecentesca del soggetto, solitamente abbellita e privata di ogni tipo di
fastidiosa imperfezione, il cavallo in questione si presenta nudo e crudo nel
suo pellame pezzato bianco e marrone, illuminato da un fascio di luce divino
come da fare del pittore bergamasco, e ripreso da
dietro: dalle zampe posteriori alle possenti cosce, dai muscoli delle zampe
anteriori allo zoccolo ferrato, l’animale è perfetto nella drammaticità dell’evento
appena accaduto.
Quasi due secoli più
tardi, verso la fine del XVIII secolo, Johann Heinrich Fussli, pittore
romantico svizzero per eccellenza, ripropose una nuova visione legata al
cavallo nella sua opera L’incubo, legata agli aspetti onirici e mistici della
notte, nel pieno clima goticheggiante del Romanticismo tedesco.
J.H. Fussli, L’incubo, 1790, olio su tela,
Goethe Museum, Francoforte sul Meno |
Nella fattispecie, il
cavallo ritratto nel dipinto è una giumenta bianca dall’aspetto fantasmagorico,
scalpitante e fremente nei suoi bulbi oculari pronunciati e nella sua folta
criniera aleggiante, che, come in un teatro dell’orrore fa il suo ingresso trionfante
nella scena. L’animale non fu inserito nel dipinto a tema, per caso: secondo
tradizioni nordiche infatti, gli incubi erano sempre preannunciati da un nano
mostruoso (che in questo caso è posato sul ventre della vergine) che cavalca
una giumenta.
Circa vent’anni dopo,
agli inizi dell’Ottocento, sarà il neoclassico Jacques Louis David a
riconsegnare al cavallo il suo ruolo signorile di potente alleato del signore.
Nel Napoleone valica il San Bernardo, il condottiero è erto nella sua possanza
al pari degli altri due illustri predecessori che valicarono le alpi: Carlo
Magno e Annibale. Fermo nella sua magniloquenza, nella tela Napoleone è ritratto
mentre al groppo del suo fidato Marengo, si appresta all’ennesima impresa
eroica. E tutto è eroico nel dipinto: lo sguardo fiero di Napoleone; la sua
tenuta impeccabile con tanto di spada alla cintola e manto rosso avvolto attorno al suo corpo; la
posa impennata di Marengo, perfetto nel suo profilo scolpito, nel candore del
suo manto e nell’ariosità del suo folto crine e della sua lunghissima coda.
J. L. David, Napoleone valica il San Bernardo, 1800, Museo del Castello Malmaison, Rueil Malmaison |
E. Degas, La sfilata, 1866 – 1868, olio su tela, Museo d’Orsay, Parigi. |
Ma il cavallo è anche
compagno di lavoro e di tempo libero. Lo raccontano bene due artisti che hanno
cavalcato i due secoli Ottocento e Novecento, uno francese, l’altro italiano: Degas e Fattori.
Edgar Degas, nel pieno della
seconda metà dell’Ottocento, studia a fondo i protagonisti di quello che era
uno dei passatempi più amati dai parigini del suo tempo: le corse all’ippodromo.
Negli anni ’60 infatti il pittore dipinge diverse tele a tema, tutte incentrate
sia sulla resa anatomica del cavallo, animale da cui era molto affascinato, (tanto
da studiare le rese anatomiche dei grandi maestri del passato e degli artisti
che lo avevano preceduto di qualche generazione) e sul clima di competizione,
svago e tensione che si respirava durante le corse. La sfilata preannuncia
proprio la gara che si sta per disputare: in primo piano i fantini in groppa ai
loro cavalli attendono l’inizio della competizione; sulla sinistra si dirama la
folla che attende lo spettacolo. E Degas cattura il tutto da un angolo atipico,
come se fosse uno dei fantini in competizione: non c’è la teatralità della
scena frontale; tutto è ripreso nel silenzio e nell’inconsapevolezza dei veri
protagonisti dello spettacolo che si sta per tenere: i fantini ed i cavalli.
G. Fattori, Ritorno della Cavalleria,1888, olio su tela, Pinacoteca Provinciale,Bari |
Giovanni Fattori invece
racconta i cavalli nella quotidianità della
vita dell’uomo. Anche lui non rinuncia a riprese sensazionali dei cavalli da
fanteria (si veda il coinvolgente Ritorno alla cavalleria, in cui i cavalli
neri creano un gioco geometrico ordinato nella loro disposizione da parata), ma
quel che più colpisce della sua pittura tematica è l’attenzione al cavallo
quale elemento di lavoro nelle campagne. La tela de’ Il Cavallo morto è
delicata nel forte pathos che trasmette: nel pieno dei campi biondi di grano,
su un sentiero sdrucciolo e zigzagante, un cavallo giace morto, forse dopo una
caduta dovuta alle fatiche nei campi, forse di vecchiaia. Al suo fianco il
contadino inebetito e ormai desolato, resta fermo a pensare che ne sarà del
futuro dei campi, come potrà continuare a faticare da solo adesso che il suo
fedele amico e collega non c’è più, adesso che è venuto a mancare anche uno dei
beni più preziosi che un povero contadino potesse al tempo permettersi.
G. Fattori, Il cavallo morto, 1903, olio su tavola, Collezione Taragoni, Genova |
E con Fattori siamo
ormai agli inizi del Novecento, secolo che rivoluziona il modo di vedere i
cavalli, secondo le regole dei diversi stili pittorici e delle avanguardie più
innovative.
In Italia nei primi
due decenni del secolo, sicuramente risulta interessante notare lo studio sull’animale
fatto da due artisti appartenenti a due correnti molto diverse tra loro: l’energico
e raggiante Futurismo e la statica e mitologica Metafisica.
U. Boccioni, La città che sale, 1910, olio su
tela, Museum of Modern Art (MoMA), New York |
Umberto Boccioni nelle
sue tele futuriste, alimentate da svirgolettate filamentose raffigura il
cavallo come elemento impetuoso di dinamismo. Si veda una delle sue prime opere
futuriste, La città che sale del 1910, tela dipinta durante la contemplazione
dei lavori in un cantiere di Milano. Qui, il cavallo che padroneggia al centro
dell’opera è un chiaro riferimento simbolico all’evoluzione, alla produttività
ed all’accelerazione di cui si faceva portavoce il Manifesto di Filippo
Marinetti: nella sua furia, indomabile e ormai a briglie sciolte, il cavallo si
dimena furente e nulla possono gli uomini nel tenerlo a bada; ormai la società
si sta evolvendo, sta progredendo inesorabile verso il futuro ed è l’uomo che
deve adattarsi a quanto gli accade sotto agli occhi e non il contrario.
Giorgio De Chirico,
dal canto suo, riprende il cavallo nell’esatto contrario di Boccioni,
collocandolo in distese litoranee, nella quiete di un tempo indefinito e di uno
spazio sconosciuto che si perde all’alba delle civiltà classiche. Nei due
esempi de’ Cavalli in riva al mare (il soggetto sarà ripreso più volte dal
pittore metafisico), i due equini sono ripresi nella loro maestà mitologica,
meravigliosi nelle loro criniere ondulate e eleganti nei loro fisici resi ancor
più longilinei dalle pennellate vigorose chiare e scure a creare ombre e luci.
I cavalli in riva al mare sembrano una coppia che è in grado di provare i
sentimenti dell’uomo, persa nel ricordo dei tempi andati e desiderosa di godere
del dolce momento ricreato nelle tele.
G. De Chirico, Cavalli in riva al mare, 1927, olio su tela, Museo Carlo Bilotti, Roma |
G. De Chirico, Cavalli in riva al mare, 1927, olio
su tela, Museo Carlo Bilotti, Roma |
Negli stessi anni di
Boccioni invece in Germania, sarà Franz Marc ad interessarsi alla figura del
cavallo. Esattamente come Degas, anche Marc riprenderà il soggetto
scomponendolo e ricomponendolo verso vie sperimentali che toccano le diverse
correnti pittoriche europee che si affacciavano in quel tempo. Esemplari perché
uguali ma allo stesso tempo molto diversi tra loro sono le due tele de’ Il
cavallo blu del 1911 e La Torre di cavalli azzurri del 1913: nel primo si
ravvisa un evidente sentimento naif e fauvista, nella semplicità del disegno
che giustappunto trasmette un senso di armonia e dolcezza e nel contrasto dei
colori vivi, che regalano vitalità al cavallo; nel secondo si nota un approccio
al Cubismo di Braque e Picasso nella schematizzazione dei cavalli, che creano
quasi una torre di figure geometriche nel sovrapporsi tra loro.
F. Marc, Il cavallo blu, 1911, olio su tela,
Stadtische Galerie im Lenbachhaus, Monaco |
F. Marc, Torre di
cavalli azzurri, 1913,
olio su tela, Collezione privata.
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P. Picasso, Ragazzo con il cavallo, 1906, olio su tela, MoMA, New York |
E se Marc si avvicina
al cubismo e lo sperimenta coi suoi cavalli, Picasso ne è padrone. Dai
tantissimi bozzetti, disegni, sculture e dipinti lasciati in eredita dal genio
di Malaga, si evince un’attenzione particolare e disparata verso la figura del
cavallo, da parte dell’artista, che riprende il soggetto ancor prima di
sprofondare nel cubismo, come si evince dal Ragazzo con il cavallo del 1906. Ma
nell’opera di denuncia Guernica, dipinta nel 1937 a seguito del bombardamento
aereo della Legione Condor sulla città spagnola, durante la guerra civile, il
cavallo diviene il simbolo di un popolo intero. Infatti nel tormento e nella
disperazione generale che governano la composizione, al centro di essa trova
luogo un cavallo imbizzarrito e impaurito, inserito in quel dipinto denso di
simbolismi, a rappresentare il popolo spagnolo ormai sfinito, turbato e
alienato dalla guerra civile.
P. Picasso, Guernica,
1937, olio su tela, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid.
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R. Magritte, La firma in bianco, 1965, olio su tela, National Gallery of Art, Washington. |
Ma ben più dolce e quieto infine, è l’esperimento del surrealista René Magritte con il soggetto equino, che,
nella tela La firma in bianco, tenta di raccontare con un’immagine l’idea dello
sguardo furtivo sulle cose. Infatti nel dipinto è raffigurata una dama a
cavallo nei boschi tra diversi tronchi d’albero: in un gioco di scomposizioni
prospettiche e volumetriche, la donna e il cavallo scompaiono e riappaiono tra
i tronchi, nell’interdizione di chi ammira il dipinto.
L’idea di Magritte era
quella di dimostrare, attraverso il dipinto esemplare, che nella vita di tutti
i giorni ci sono cose che si possono vedere in alcune occasioni ed in altre no,
ma ciò non significa che nel momento in cui non le vediamo, non ci sono. Una
spiegazione semplice attraverso una visione surreale, ben tenuta da un cavallo
che si destreggia con le sue esili zampe tra tronchi e rami.
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