Era Barberini, copia romana II sec. d.C. di un’originale del V sec. a.C. attribuito a Agorakritos, Musei Vaticani, Città del Vaticano. |
Era per i greci,
Giunone per i romani, era la dea del matrimonio e della fedeltà coniugale,
essendo regina dell’Olimpo, in quanto moglie fedele di Zeus, che a differenza
di lei era fedifrago sino al limite immaginabile. Dea anche del parto, la sua
figura incarnava i valori che dovevano appartenere ad ogni moglie e madre greca
e romana, essendo anch’ella tale: per questo non di rado nelle statue
classiche, veniva rappresentata con il polos, un copricapo cilindrico tipico delle
matrone.
L’Era Barberini e
l’Era Campana, due statue marmoree del II sec. d.C. riproducenti le fattezze di
Era – Giunone, ripropongono nell’abbigliamento proprio il polos, a
dimostrazione dello status sociale della dea quale matrona e moglie del capofamiglia.
L’Era Barberini, così
chiamata perché appartenente alla famiglia Barberini, che se ne impossessò dopo
il suo ritrovo nella campagna romana durante il XVI secolo, è una copia romana
di un’originale greca attribuita ad Agorakritos (o più genericamente parlando,
ad uno scultore fidiaco del V sec.): le sue sinuosità elegantemente nascoste da
un arricciato peplo, il polos a coronare l’acconciatura raccolta e lo scettro,
riconducono la statua marmorea proprio alla dea della famiglia, protagonista
qui di rituali dedicati a lei, avendo in mano la patera, il tipico vasetto
utilizzato durante sacrifici e riti.
Era Campana, II sec. d.C copia di un’originale greco ellenistica, marmo, Musèe du Louvre, Parigi |
Gli stessi elementi e
caratteristiche, sono riproposti nella Era Campana sita al Louvre, copia marmorea
romana di un’originale greco ellenistica, così chiamata perché appartenuta al
marchese Giampietro Campana, tra i più noti e invidiati collezionisti di
antichità del XIX secolo.
Anche la Era Campana
ha tra le mani lo scettro e la patera, ma a differenza della Era Barberini, la
sua figura è intrisa di un’aria più sacra, per via del lungo peplo che le
avvolge il corpo e le copre il capo, incorniciato dall’immancabile polos.
Una figura che, a
partire dal XV secolo, fu presa da diversi artisti quale modello di donna
virtuosa a cui ambire nella ritrattistica di nobili donne, o quale
personificazione della benevolenza, in senso più astratto. Nel primo caso si
veda il ritratto delle tre nipoti del cardinale Mazzarino, nel cui olio su rame
del 1669, le tre ragazze – Maria, Olympia ed Hortensia – vengono ritratte nelle
vesti di tre delle divinità più influenti dell’Olimpo: Venere (riconoscibile
per via della rosa tra le mani), Diana (dea della caccia, avendo tra le mani un
arco) e giustappunto Giunone, elegante nelle nobili vesti violecee e nella
candida pelle.
Scuola francese,
Ritratto di tre nipoti di Mazzarino, come Venere, Giunone e Diana,
1660, olio
su rame, Musèe du Petit Palais, Parigi.
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D’altronde questa
introduzione delle divinità all’interno dei dipinti a carattere allegorico
contemplativo fu molto in voga nell’Europa del Cinquecento e Seicento, a
cavallo tra Barocco, Rococò e
Classicismo fiammingo, come dimostra un olio su tela di Rubens sito al
Louvre, composto tra il 1622 – 1625, su commissione di Maria de’Medici, moglie
di Enrico IV e madre di Luigi XIII e regina di Francia.
P. Rubens, La
presentazione del ritratto di
Maria de’Medici, 1622 – 1625, olio su tela,
Musèe
du Louvre, Parigi
|
Pieter Paul Rubens,
infatti essendo stato designato dalla regina dal 1621 al 1626 quale ritrattista
di corte e essendosi visto conferito il ruolo di abbellire la galleria di
Palazzo del Luxembourg con dipinti riconducenti alla politica attuata dalla
sovrana, eseguì tra i dodici pannelli anche la presentazione del ritratto di
Maria de’ Medici ad Enrico IV, che, affascinato dalla bellezza della donna, si
lascia disarmare da Marte.
L’opera è
un’aggregazione di figure allegoriche, mitologiche ed episodi reali, secondo lo
stile attuato dal pittore per il ciclo pittorico: ad un Enrico IV adulto –
sposò infatti la donna a 47 anni, nel 1600, in seconde nozze – due amorini
mostrano il bellissimo ritratto della donna vestita ed ingioiellata dei suoi
monili più belli, mentre altri due assieme a Marte, svestono il re ammaliato
dello scudo e dell’elmo. Dall’alto di una vaporosa nuvola, tutta la scena viene
quindi benedetta dalle divinità sovrane delle civiltà classiche, Giove e
Giunone, che, avvolta da un manto dorato, si accompagna ai pavoni simbolo di
riconoscimento della sua persona e dal carro d’oro con cui soleva spostarsi.
E si veda quindi anche
il dipinto encomiastico raffigurante la Regina Elisabetta con Venere, Giunone e
Minerva, dipinto dal pittore di corte Joris Hoefnagel nel 1569 e sito nel
Castello di Windsor, in cui la candida regina si appresta ad uscire dal palazzo
reale con damigelle a seguito per incontrare le tre dee in cui il popolo la
riconosce: Venere, per via della sua verginità e del suo candore, Minerva,
perché dea della guerra benefica ma anche delle arti e della sapienza, e infine
Giunone, dea del matrimonio – a suggellare il suo matrimonio con il popolo – e,
rappresentata con una corona, regina degli dei così come Elisabetta lo è del
popolo inglese, nonché dea dell’abbondanza.
J. Hoefnagel, La
Regina Elisabetta con Venere, Giunone e Minerva, 1569, Castello di Windsor,
Londra.
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Un aspetto preso in
considerazione da Paolo Veronese, sempre nella seconda metà del XVI secolo, nel
pannello incorniciato sul soffitto di Palazzo Ducale a Venezia, raffigurante
Giunone che versa i suoi gioielli su Venezia.
In quanto dea
dell’abbondanza infatti, Giunone dall’alto di una nuvola, fuoriuscendo da
un’atmosfera divina dorata, lancia i suoi gioielli su una dama pronta ad
accoglierli, personificazione di Venezia: a dimostrarlo il leone, simbolo della
città e il globo alle spalle della donna, simbolo delle terre lontane soggette
al potere della ricca città marinara, sicura della benedizione di Giunone.
Tutto è luce e colore
nell’opera del pittore veneto, che trascura le tonalità più scure – salvo nella
rappresentazione del leone, in un gioco dato da contrasti cangianti e d’effetto
per cui alla dorata e regale Giunone si contrappone la celestiale e pura
Venezia.
P. Veronese, Giunone versa i suoi gioielli su Venezia, 1556, olio su tela, Palazzo Ducale, Venezia |
E. Le
Sueur, Giunone diffonde i suoi benefici su Cartagine, 1645, olio su tela, Pinacoteca Manfrediana, Venezia |
Quasi un secolo dopo
anche Eustache Le Sueur riproporrà la stessa tipologia di benedizione, in una
tela dal carattere puramente mitologico: Giunone che diffonde i suoi benefici
su Cartagine.
La regina degli dei,
avvolta in un abito di un arancio quasi fluorescente e vivo ed in una toga blu,
attraverso la cornucopia sorretta da un amorino, elargisce la sua benedizione
sulla città che l’ha voluta come protettrice, dedicandole un tempio.
Anche l’Eneide narra del
dicotomico rapporto di Giunone di affetto verso Didone, la regina della sua
Cartagine e di odio verso Enea, che fondando Roma con la sua progenie, avrebbe
permesso la distruzione della città africana: più di un’opera, nel corso dei
secoli, ha avuto come soggetto questo rapporto discutibile, una su tutte la
tavola dipinta da Filippo Falciatore nel 1765, oggi sita a West Palm Beach in
Florida.
F.
Falciatore, La caccia reale di Enea e Didone, 1765, olio su tavola, Norton Museum of Art, West Palm Beach |
Il dipinto riporta
nello specifico l’aneddoto della caccia reale di cui furono protagonisti Enea e
Didone, riportato nel IV libro del poema scritto da Virgilio, secondo cui
Venere preoccupata per le sorti del figlio inviso a Giunone, e questa
preoccupata del fatto che l’eroe lasciando le sponde cartaginesi si dirigesse a
Roma, stipularono un accordo per far sì che i due ragazzi si sposassero:
durante la caccia quindi, scatenando un temporale imprevisto, Giunone creò i
presupposti di un incontro forzato tra i due, che caddero in tentazione e si
unirono in matrimonio. Ma la dedizione di Enea e il ragguaglio di Mercurio a
proseguire, scombussoleranno i piani delle due dee, irritando in modo ancor più
evidente la regina degli dei.
E. Le
Sueur, Giunone appicca il fuoco su Troia, 1645, olio su tela, Pinacoteca Manfrediana, Venezia |
Sempre a Le Sueur è
ascrivibile con certezza anche l’altro pannello presente nella Pinacoteca
Manfrediana di Venezia assieme alla Giunone che elargisce i suoi benefici
Cartagine: Giunone appicca il fuoco su Troia.
La modella che
personifica Giunone è sempre la stessa, gli abiti e la tiara da regina pure,
così come gli amorini e l’atmosfera ovattata creata dalle nuvole su cui è
adagiata la dea: cambia solo il suo ruolo, non più di benefattrice, ma di
nefasta nemica.
Una storia che vede i
suoi preamboli in due radici mitologiche, una romana e una greca: secondo
Virgilio infatti, Giunone era nemica di Troia perché consapevole del fatto che
un suo discendente avrebbe distrutto la sua Cartagine; secondo il mito greco,
lo era perché rancorosa verso Paride di non averla scelta nel famoso giudizio.
Diverse sono state le
rappresentazioni del Giudizio di Paride, in cui compare la regina dell’Olimpo,
alcune intente a mettere in risalto l’aneddoto, altre più incentrate alla
fisicità seducente e perfetta delle tre bellissime dee. Ad ogni modo
protagoniste dell’aneddoto rimangono comunque le tre donne, nonostante siano queste
le giudicate e non i giudici: la tela di Enrique Simonet Lombardo del 1904,
concentra tutte le attenzioni proprio sulle tre bellissime dee, due delle quali
– Venere e Minerva, - appaiono denudate, seppur riconoscibili dai loro elementi
e simboli; Giunone invece appare vestita del tipico abbigliamento che le confà
da sempre, col polos, il peplo da matrona, ed accompagnata da uno splendido
pavone che aprendo al massimo la sua coda, la confonde col paesaggio
circostante.
E. Simonet Lombardo, Il giudizio di Paride, 1904, olio su tela, Museo de Bellas Artes de Malaga, Malaga |
Hans Von Aachen,
pittore fiammingo operante a cavallo tra XVI e XVII secolo appartiene invece
alla seconda categoria, raffigurando in una tela, i primi piani di
rinascimentali Pallade Atena, Venere e Giunone, che ingioiellate ed incipriate
di tutto punto, si confrontano sul giudizio del pastore, ormai giunto a
conclusione: Venere, al centro e con il seno scoperto – indice di sensualità –
tiene trionfante il pomo tra le mani; Minerva, incorniciata nello spettacolare
elmo guarda oltre, mentre Giunone, con il velo del matrimonio – ne era la
protettrice – guarda Venere con aria diffidente e invidiosa.
H. von Aachen, Pallade Atena, Venere e Giunone, 1593, olio su tela, Museum of Fine Arts, Boston |
Anonimo XVII sec.,
Giunone favorisce i Rotuli,
seconda metà del XVII
sec., olio su tela,
collezione privata, Parma. Da foto di Alberto Tosi.
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E non avrà la meglio
neanche quando spronerà i Rotuli a far guerra ad Enea, per aver preso in sposa
Lavinia, già promessa al loro re, Turno.
Infatti, come per
altro raccontato nella tela di un artista anonimo del XVII secolo, Giunone
cercò di favorire i Rotuli contro Enea, prima aizzando la madre di Lavinia
contro il padre, affinché mantenesse la promessa fatta a Turno e gliela desse
in sposa, poi fomentando i Rotuli a combattere contro Enea, il cui prologo però
sarà ovviamente favorevole all’eroe virgiliano.
Ma l’Eneide non è
l’unico libro di carattere epico – mitologico ripreso dagli artisti
rinascimentali in poi, in cui si evince il protagonismo divino di Giunone;
anche alcuni episodi de’ Le Metamorfosi di Ovidio vengono infatti rappresentate
da questi, in più occasioni.
È il caso, come
narrato nel IV libro delle Metamorfosi di Ovidio, della discesa di Giunone
negli Inferi, in seguito all’onta subita dalla decisione di Atamante, figlio di
Eolo, di crescere assieme alla sua compagna Ino il piccolo Bacco, nato dal
rapporto tra la sorella di lei, Semele, ed il dio Giove marito adultero di
Giunone.
J. Brueghel, Giunone negli inferi, 1598, olio su rame, Staatliche Kunstammlungen, Dresda |
Nel dipinto del 1598,
di Jan Brueghel, sito allo Staatliche Kunstammlungen di Dresda, la regina degli
dei, raffigurata come una donna burrosa vestita di un abito turchese acceso in
contrasto con i toni caldi degli Inferi, è intenta a percorrere l’oltretomba
per chiedere alle Furie di aiutare a vendicarla: il finale è presto detto, dato
che Atamante fu colpito da pazzia e uccise il figlio Learco, avuto con Ino,
mentre la donna decise quindi di gettarsi in mare con l’altra figlia avuto dall’uomo,
Melicerte, favorendo così la sua trasformazione in divinità marine.
Una donna molto
vendicativa e attenta, Giunone, quando in gioco vi era l’onore del suo
matrimonio con Giove: la dea infatti poco digeriva tutte le scappatelle del
marito, ma innamorata del suo uomo ogni volta che ne scopriva qualcuna, finiva
puntualmente per incolpare la sventurata di turno, o per ostacolare i figli
nati da quei rapporti, come nel caso del citato Bacco, o di Ercole, figlio di
Giove e di Alcmena.
P.
Rubens, La nascita della Via Lattea, olio su tela, 1635 – 1638, Museo del Prado, Madrid |
Proprio a quest’ultimo
mito è legata la spiegazione della nascita della Via Lattea, secondo cui
infatti Giove, per fare in modo che il suo diletto Ercole potesse ambire all’immortalità,
lo spinse a fare l’unica cosa possibile per ambirvi: bere il latte dal seno di
Giunone.
Rubens in una tela del
1635, illustra l’episodio in modo molto poetico e mistico, ambientandolo in
piena notte in modo da poter spiegare visivamente come il getto del latte del
seno della dea potesse trasformarsi in tante piccole stelle pronte ad adornare
la volta celeste.
Tutto contribuisce a
riconoscere i personaggi illustrati nel dipinto a carattere mitologico: in
primo piano la dea, dalle carni perlacee, il velo da sposa e la tiara
splendente; accanto a lei, tra le sue ginocchia, il forzutissimo Ercole che
tanto ricorda i putti dipinti da Michelangelo e Giulio Romano in diverse opere;
dietro di Giunone il suo carro d’oro trainato dai bellissimi pavoni e a seguire
Giove, accompagnato dall’acquila con la saetta tra gli artigli, che attende
impaziente che Ercole abbia bevuto il siero dell’immortalità.
P. Rubens, Giunone ed Argo, 1610, olio su tela, Wallraf-Richartz Museum, Colonia |
Già il pittore, circa
vent’anni prima di dipingere la nascita della Via Lattea, aveva avuto a che
fare con la stessa dea, ritraendola mentre, afflitta, contempla il corpo di
Argo e ne stacca gli occhi per adornare le code dei suoi pavoni, con l’aiuto
della fedele serva Iride.
La tela ovviamente,
ricalca l’epilogo dell’episodio mitologico di Argo, Io e Mercurio, secondo cui
Giove, sgamato dalla moglie mentre tentava di accoppiarsi con Io, fece in tempo
a trasformarla in una giovenca affinché questa non potesse rivelare a sua
moglie il misfatto e a lei la regalò.
Per cui la dea, dubbiosa
di quanto accaduto, mise un suo servo, il gigante Argo dai cento occhi, a fare
da guardiano alla giovenga, così che, se le sue intuizioni fossero state
fondate, Giove non potesse avvicinarvisi. Ma il dio dal canto suo, invece, mandò
Mercurio ad uccidere Argo, il quale, per adempiere al volere di Giove, recise
la testa del gigante,uccidendolo. Sicché a Giunone non toccò che piangere la
morte del suo servo e incastonare i suoi cento occhi nelle code dei suoi
pavoni, a ricordo indelebile del suo servizio.
P.
Lastman, Giunone scopre Giove con Io, 1618, olio su tela, National Gallery, Londra |
Se Rubens scelse di
illustrare l’episodio dell’incastonatura degli occhi di Argo sulla coda dei
volatili, altri artisti illustrarono altre scene dell’aneddoto, comunque
emotivamente forti. Ne è la prova il dipinto di Pieter Lastman, in cui Giunone
appunto scopre l’adulterio del marito, che fa in tempo a trasformare Io in una
giovenca: la drammaticità della scena è evidente e aiutata dalle espressioni
delle due divinità, sconvolte per i due motivi opposti, nonché dalla dinamicità
della sorpresa della dea che giunge a bordo del suo carro d’oro trainato dai
pavoni.
G.F. Doyen, Giove e
Giunone ricevono il nettareda Ebe,
1759, olio su tela, Musèe d’art et histoire, Langres.
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Ma lontana dagli amori
clandestini e adulteri del marito, i due sono sempre disposti a riscoprire l’intimità
o a vivere pacificamente il loro rapporto di coniugi e regnanti, momenti di
idillio illustrati da diversi artisti in modo più o meno più o meno conviviale –
si veda ad esempio il dipinto di Gabriel Francois Doyen in cui Giove e Giunone
ricevono il nettare degli dei da Ebe, - piuttosto che più o meno erotico: ne
sono esempio l’incisione altamente erotica di Agostino Carracci che ha le due
divinità come protagonisti, o l’affresco di Annibale Carracci nella Galleria
Farnese, che riprende un approccio amoroso più soft dei due coniugi.
La stessa atmosfera,
quest’ultima, che si respira nel dipinto di fine XVIII secolo di James Barry,
sito nello Sheffield City Museum, raffigurante Giove e Giunone sul Monte Ida,
che si scrutano e si cercano attraverso i loro sguardi. Una complicità unica,
che ben palesa le doti di cui andava fiera la dea del matrimonio, che seducente
per alcuni versi, gelosa per altri e accondiscendente nel giusto poteva ritenersi
la migliore delle mogli.
J. Barry, Giove e
Giunone sul monte Ida, 1790 - 1799, olio su tela, Sheffield City Museum,
Sheffield
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