O. Dix, Autoritratto con garofano, 1912, olio su tela, Institute of Arts, Detroit |
Uno degli artisti che
ricompare spesso nei discorsi con cui mi intrattengo con amici ed altri
colleghi storici dell’arte, è il tedesco Otto Dix, tra i miei pittori preferiti
perché, come lo definisco io, è stato uno storiografo artistico del suo tempo. Dico
questo perché nessuno più di lui ha saputo raccontare la società e nel
complesso, la storia del dopoguerra, in maniera nuda e cruda per quello che
era, cosa che gli valse in qualche modo, purtroppo, il ritiro dalle scene.
Otto Dix, classe 1891,
nato a Gera, in Turingia, fu un artista tedesco formatosi presso la Scuola d’Arte
Decorativa di Dresda a partire dal 1910, sino allo scoppio della Prima Guerra
Mondiale, dove lui, interventista convinto, partecipò attivamente sui Fronti
Occidentale e Orientale. Una presa di posizione
politica che mutò a guerra ultimata, quando scosso e traumatizzato dopo quanto
vissuto, si professò non solo pacifista, ma addirittura dedicò la sua maturità
artistica al racconto della guerra e della vita quotidiana postbellica: una
mutazione quella raccontata, non così strana da riscontrare nella letteratura e
nell’arte del post I Guerra Mondiale; basti pensare, uno fra tutti al poeta
italiano Giuseppe Ungaretti, che interventista prima della Grande Guerra,
cambiò la sua visione politica dopo aver vissuto la trincea sul fronte
austroungarico, denunciando nelle sue poesie l’orrore della guerra.
O. Dix, Via Praga, 1920, olio su tela, Galerie der Stadt, Stoccarda |
Lo stesso orrore fu
denunciato quindi da Otto Dix a fine guerra, secondo una visione artistico
stilistica molto vicina a quella dell’espressionismo fauvista che era di
Matisse, de Vlaminck, Kirchner o Munch, ma meno intriso di soggettività emotiva
e più intenso di denuncia sociale sotto uno sguardo più oggettivo possibile: un
oggettivismo così glaciale però, che non poteva esulare dal toccare alcune
corde di forte espressività; un nuovo espressionismo, di stampo tedesco, definito
Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) dal tema della mostra tenutasi a
Mannheim, nel 1925.
E la posizione di Otto
Dix a riguardo fu piuttosto dura, considerando l’incisività delle sue opere
artistiche: dipinti e acqueforti che si dipartivano in un bivio argomentativo:
se da un lato, infatti, forte impatto ebbero i dipinti denuncianti gli orrori
della guerra, dall’altro non di meno lo erano quelli denuncianti la società
tedesca, lasciata alla deriva di sé stessa dopo l’acclamazione della nuova
Repubblica di Weimar.
Un società tedesca
divisa tra chi aveva vissuto passivamente la guerra, rimanendo ferma nei suoi
prestigi nobiliari e nelle sue ricchezze economiche, e chi l’aveva vissuta
attivamente, rimanendo tristemente reciso fisicamente e nell’animo dall’evento:
i reduci di guerra, mutilati e ormai impossibilitati a qualunque lavoro, un
tempo eroi della patria, adesso feccia della società, rifiuto umano difficile
da smaltire.
O. Dix, Il venditore
di fiammiferi, 1921,
olio su tela, Galerie der Stadt, Stoccarda.
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Ne sono esempio tre
dipinti del biennio 1920 – 1921, che raccontano per l’appunto la triste figura
del mutilato di guerra. In Via Praga, olio su tela del 1920, sita alla Galerie
der Stadt, nel Kunstmuseum di Stoccarda, la figura centrale del mutilato di
guerra, monco di entrambe le gambe e del braccio sinistro, sostituite da rozzi
e improbabili protesi lignee, è attorniata da gente che fugge via inorridita,
come la donna in gonna rosa, o da fanciulli dall’aspetto così orrendo che
neanche Bosch nel Cristo Portacroce avrebbe osato tanto; un reduce ormai
impossibilitato a qualunque altra azione che non fosse l’elemosina: un gesto
disperato, evidenziabile nello sguardo ormai spento dell’uomo che chiede pietà.
O. Dix, Invalidi di
guerra giocano a carte, 1920,
olio su tela, Neue Nationalgalerie, Berlino.
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La stessa
consapevolezza che si riscontra ne’ Il venditore di fiammiferi, del 1921, conservato
nella stessa galleria, seduto sui marciapiedi di Dresda (il pittore in quegli
anni aderì alla Secessione di Dresda con Grosz e Schlichter, fondata nella
stessa città, in cui rimase sino al 1922), allontanato ed abilmente schivato
dalle persone probabilmente inorridite dalla visione di una realtà tanto
sconvolgente e macabra, e disdegnato persino dal cane, che si serve di lui per
i suoi bisogni. E ancora ne’ Invalidi
di guerra che giocano a carte, alla Neue Nationalgalerie di Berlino, è
interessante notare lo storpiamento fisico al limite dell’inverosimile,
relegato alle tre figure sedute al tavolo: nel pieno dell’impeto angosciante
che può pervadere lo spettatore, le tre figure giocano divertite a carte,
nonostante la privazione di gambe, braccia occhi, mascelle, fantasiosamente sostituite
da protesi in legno o ferro, manco fossero cyborg.
O. Dix, Il ritratto
di Sylvia Von Harden,
1926, olio e tempera su tavola,
Centre
George Pompidou, Parigi.
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Trasferitosi prima a
Dusseldolf sino al 1925, poi dopo un breve soggiorno di due anni a Mannheim e a
Berlino, stabilmente a Dresda dal 1927, dato che gli fu affidata una cattedra all’Accademia,
Dix non cessò di raffigurare la sua visione del mondo attuale tedesco,
concedendo i suoi sforzi verso la borghesia della città: una classe politica
ormai nuova, all’avanguardia, come dimostra esserne degna rappresentante la
giornalista Sylvia Von Harden, raffigurata dal pittore nel 1926, quale icona di
un nuovo arrivismo professionale, esulante da qualunque attaccamento alla
bellezza o al vezzo: la Sylvia Von Harden di Otto Dix è una donna affermata,
dal pratico monocolo e dal moderno taglio corto di capelli; una donna che fuma
e che non disdegna i piaceri della vita, dal cocktail alla sigaretta.
E due anni dopo è la
volta del Trittico della Metropoli, un componimento artistico di tre tele,
volto a raccontare i fasti ed il degrado della Dresda degli ultimi anni ’20,
nella quale convivono i residui dell’orrore della guerra, ed il risentimento di
rivalsa e di voglia di concedersi all’irrefrenabile.
Il trittico, una
composizione che rimanda alla religiosità delle pale d’altare, probabilmente
era stato inteso dal Dix quale suo contrapposto, visto i temi trattati: anche
qui infatti, nonostante i colori caldi e l’addolcimento delle figure, il
rimando ad una società ormai alla deriva è lampante; le donne si concedono
facilmente e i reduci di guerra affollano le strade, pericolose e piene di
insidie.
O. Dix, Il trittico
della metropoli, 1928, olio su tela, Galerie der Stadt, Stoccarda.
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O. Dix, Suicidio in
trincea, 1924,
acquaforte, Coll.Van de Velde, Anversa.
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Oltre che alla società
a lui attuale, il ricordo traumatico di Dix si rivelò in alcune sue opere ben
mirate, volte a denunciare i ricordi della guerra vissuta dall’artista: di
forte impatto è la serie di acqueforti del 1924, conservate nella Collezione
Ronny e Jessy Van de Velde ad Anversa; una serie che racconta in una visione
macabra e aberrante, quanto accaduto su entrambi i fronti da lui combattuti.
Di forte impatto è Il
suicidio in trincea, che raffigura un soldato ormai scheletrico (lo scheletro è
il simbolo del male e della morte), morto in seguito alla sua decisione di
togliersi la vita, evidentemente shockato da quanto vissuto in prima persona:
il fucile impugnato contro di sé, giace ancora lì, con l’imboccatura inserita
nell’apparato boccale del milite.
O. Dix, Il
bombardamento di Lens, 1924,
acquaforte, Collezione Van de Velde,
Anversa.
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Ma altrettanto
significative sono le acqueforti che raccontano l’orrore della guerra nei
centri urbani, come La guerra durante un attacco di gas ed Il bombardamento di
Lens: nel primo disegno, l’effetto di terrore è dato dalla distorsione fisica
provocata dalle maschere antigas indossate dai soldati; nel secondo, è dato dallo
sguardo atterrito degli abitanti della città francese, che tentano di sfuggire
alla distruzione causata dalle bombe scagliate dall’aeroplano. Un terrore che
si esplica a pieno nel Trittico sulla guerra del 1929 – 1932; un’apoteosi di
morte, sofferenza, strazio e angoscia, tramutati in mucchi di corpi morti,
sangue, carne e ossa, come si evince dalla pala centrale; un rimando all’azione
bellica cruenta e abominevole, come si evince dalle pale laterali; un inno alla
morte, come si deduce dalla predella della pala centrale.
O. Dix, La guerra
durante un attacco di gas, 1924, acquaforte, Collezione Van de Velde, Anversa |
O. Dix, Il trittico
della Guerra, 1929 – 1932, olio su tela,
Gemaldegalerie Neue Meister, Dresda.
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Orridi sentimenti, quelli
raccontati da Dix, che nientemeno erano stati vissuti da molti tedeschi; gli
stessi che avrebbero volentieri evitato di ricordare lo scempio a cui avevano
assistito. Motivo per cui non di rado le opere a sfondo di denuncia bellica di
Dix furono rifiutate dalla critica e fortemente ostracizzate: caso emblematico
fu quello di un dipinto La trincea, comprato da uno dei musei di Colonia nel
1923 e poi restituito perché fonte di aspre critiche da parte dei fruitori.
Lo stesso dipinto andò
perduto durante la Seconda Guerra Mondiale, probabilmente arso dai Nazisti che
vedevano in Otto Dix un artista degenerato: ipotesi probabile data la
definizione concessa al dipinto durante una mostra sull’arte degerata del 1937,
per cui fu presentato come “Sabotaggio alla difesa”.
O. Dix, I sette
peccati capitali, 1933,
olio su tela, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe.
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Infatti, lo stesso era
stato catalogato come esponente dell’arte degenerata già nel 1933, ed invitato
quindi non solo ad abbandonare il suo posto di docente dell’Accademia, ma anche
a rinunciare alla sua poetica artistica di denuncia, lasciando che si potesse
dedicare a soggetti paesaggistici.
Una poetica che lascia
il suo ricordo nella tela dello stesso anno della sua etichetta, I sette
peccati capitali; un dipinto denso di allegoria e simbolismo, il cui fine fu
quello di denunciare per un’ultima volta la società ormai allo sbaraglio del
suo tempo: in primo piano, una strega ravvisabile nell’avarizia, stringe a sé delle
banconote; dietro di lei l’accidia, dalle sembianze di uno scheletro privo di
cuore e di occhi, sembra costretto a vivere passivamente per l’eternità; a
seguire la lussuria, una donna ridicola nella ricerca del piacere, che si tocca
il seno, cerca di attrarre con la sua lingua, che forma una vagina gigante,
aprendo le ginocchia.
Dietro la lussuria, si
fa viva la gola, attraverso la goffaggine di un uomo che ha incastrato per il
troppo desiderio di cibo, la sua testa nel pentolone, tanto da divenirne un
tutt’uno; ancora, accanto, la superbia, gonfia e tronfia in modo spropositato,
così attenta alla pienezza di sé, che ormai dalla sua bocca escono solo
escrementi; a destra della superbia quindi, l’ira, le cui fattezze sono quelle
di una bestia maledetta, che sbraita e tiene in mano coltelli pronta a
scattare.
E infine l’invidioso,
in groppa all’avarizia e attorniato da tutti gli altri vizi capitali; un ometto
piccolo e raggrinzito su se stesso, che scruta, guarda e pare odiare il mondo
che lo circonda, perché lui non è alla stessa altezza: un chiaro riferimento al
Fuhrer, uomo che ha desiderato fortemente il potere per poter avere la sua
rivincita su quel mondo che lo aveva deriso e denigrato. Come si capisce dai
baffetti, che consegnano ad Hitler definitivamente l’identità dell’invidia;
baffetti dipinti solo nel 1945 a regime nazista sparito, quasi come se quell’ultima
pennellata potesse essere la firma di un romanzo di guerra durato vent’anni, in
cui Dix aveva fortemente creduto.
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