Cratere proveniente dalla Magna Grecia, IV secolo a.C., British Museum, Londra. |
Lo specchio è un
oggetto riscontrabile in più riprese nella storia dell’arte di tutti i tempi;
addirittura si può tranquillamente addurre che è uno di quegli elementi presi
in considerazione dagli artisti nelle loro opere, che non hanno mai visto
periodi di abbandono: esulando infatti dall’ideazione artistica del mero oggetto,
l’arte dello specchiarsi è riscontrabile sin dall’antichità, come testimoniato
dai diversi vasi greci e romani, raffiguranti donne intente a vaneggiarsi con
uno specchietto tra le mani. E ancora continuando, questa realtà è
riscontrabile sino ai giorni nostri attraverso dipinti dal soggetto invariato,
dalla Donna allo specchio del Tiziano, alla medesima di Fernando Botero, passando per la
Venere allo specchio di Piet Paul Rubens e La toilette di Ernst Ludwig Kirchner.
Tiziano, Donna allo specchio, 1512 – 1515, olio su tela, Louvre, Parigi |
P. Rubens, Venere allo specchio, 1613, olio su
tavola, Staatliche Kunstsammlung, Vaduz |
E.L. Kirchner, La toilette, 1912, olio su tela,
Museo d’Arte Moderna, Colonia |
F. Botero, Donna allo specchio, 2003, olio su tela, collezione privata. |
Ma l’utilizzo dello
specchio, in arte non è solo riscontrabile all’azione intrinseca derivante, ma
in più occasioni è valso quale elemento per uno studio particolare degli
effetti ottici e dei rimandi simbolici legati ad esso. In quest’ultimo caso
infatti, è sicuramente interessante notare il legame creato da Hieronymus Bosch
nello scomparto raffigurante La superbia, ne’ I sette peccati capitali del 1500
– 1525 tra lo specchio ed il demone che lo sorregge: lo specchio nel quale si
riflette l’immagine della donna superba infatti, diviene il mezzo del peccato
di vanità, pertanto viene retto dal suo massimo rappresentante, il diavolo, che
per l’occasione, imita la peccatrice nell’acconciatura.
H. Bosch, I sette peccati capitali, 1500 – 1525,
olio su tavola, Museo del Prado, Madrid |
H. Bosch, La Superbia (part. de’ I sette peccati capitali)
1500 - '25, olio su tavola, Museo del Prado, Madrid.
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Sul piano ottico,
sicuramente è interessante notare lo studio dicotomico del riflesso proveniente
dallo specchio. Dicotomico perché, l’interesse dei diversi artisti che si sono
messi alla prova, è vertito verso due diverse strade, entrambe tecnicamente
valide: la prima, volta a catturare gli effetti della convessità di uno
specchio; la seconda, volta a catturare il gioco dei volumi creato
dalla posizione particolare degli specchi durante il ritratto di un soggetto.
J. Van Eyck, Ritratto
dei coniugi Arnolfini, 1434,
olio su tavola, National Gallery, Londra.
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Uno degli artisti che
ha reso perfettamente la realtà proiettata in uno specchio convesso è stato Jan Van
Eyck, che ne dà prova di maestria nella tavola raffigurante il Ritratto dei
coniugi Arnolfini, del 1434. Nella tavola del Van Eyck, come da piena
tradizione fiamminga (riscontrabile di lì a pochi anni anche in Bosch, ne’ I
sette peccati capitali), la simbologia ha un ruolo cardine nel racconto del
matrimonio dei due ricchi banchieri lucchesi trasferitisi a Bruges per affari:
il vetro dello specchio infatti allude alla purezza della donna, mentre la
cornice decadivisa in scomparti, accoglie elementi della Passione di Cristo,
nel pieno della spiritualità cristiana della coppia.
Ma è l’effetto ottico
che ne deriva, che rende Van Eyck uno dei pionieri dello sconfinamento del
supporto: infatti per la prima volta nella storia dell’arte, lo specchio
riflette sin nella minuzia quanto sta accadendo dietro, riproponendo non solo
gli ambienti che si dislocano oltre la stanza rappresentata, ma anche i
personaggi non presenti nel dipinto, che però quindi, ne diventano
involontariamente parte integrante: oltre al pittore, vengono raffigurate anche
altre due persone, probabilmente i testimoni della coppia, una prova
schiacciante – ancora una volta – della benedizione cristiana del matrimonio
celebrato.
J. Van Eyck, Ritratto
dei coniugi Arnolfini (particolare specchio), 1434, olio su tavola, National Gallery, Londra.
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R. Campin, Trittico di
Werl
(ala sinistra), 1438,
olio su tavola,
Museo del Prado, Madrid.
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Questo quindi è quello che accade a
seguire, sia nella di poco più tarda tavola del Trittico di Werl di Robert Campin (1438),
che segue i dettami del Van Eyck circa lo sconfinamento della realtà raffigurata
nella tavola, sia nel dipinto del Sant’Eligio nella bottega di un orafo,
dipinta da Petrus Christus nel 1449: l’introduzione di uno specchio convesso
che ci sballotti la vista su quanto non potremmo vedere raffigurato nel palco
della tavola, pare essere divenuto quindi un must dell’arte fiamminga del tempo.
Il soggetto è
quotidiano seppur sacro; Sant’Eligio, protettore degli orafi, misura dell’oro e
svolge il normale lavoro di un suo protetto, davanti ad una coppia di
fidanzati. Quel che sorprende ancora una volta però, per l’appunto è quanto
viene riflesso dallo specchio, che apre all’ambiente esterno della destra dei
soggetti raffigurati: un ambiente aperto in cui si scorgono una piazza e alcune
abitazioni, mentre in primo piano un falconiere ed una donna passeggiano, forse
intenti ad entrare nella bottega.
P. Christus, Sant’Eligio
nella bottega di un orefice,
1449, olio su tavola, Metropolitan Museum, New
York.
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P. Christus, Sant’Eligio
nella bottega di un orefice (part.),
1449, olio su tavola, Metropolitan Museum, New
York.
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E con un balzo in
avanti di quasi un secolo, al 1525 è ascrivibile uno degli autoritratti davanti
allo specchio più conosciuti e rinomati: quello che il Parmigianino eseguì in
giovane età (22 anni) riproducendo le sue fattezze per come apparivano alla
vista di uno specchio convesso, su una tavola fatta creare appositamente anch’essa
convessa per una resa più credibile.
Ed è proprio il Vasari
a raccontare l’esecuzione dell’opera e lo studio particolarmente attento al
dettaglio: un gioco, quello attuato dal Parmigianino, volto ad ingigantire e
diminuire le diverse parti del corpo in base alla vicinanza o alla lontananza
dal piano, per cui la risultante è stata un autoritratto alquanto veritiero
dato da una mano in primo piano, giustamente di molto più grande e sinuosa rispetto al corpo più lontano, ed un arrotondamento
sferico dell’ambiente circostante nel quale spicca la finestra (soggetto che
ritroveremo riproposto da Maurits Cornelis Escher, nella litografia della Mano con la sfera del
1935, con la variante della sfericità dello specchio piuttosto che della
convessità).
Parmigianino, Autoritratto allo specchio, 1524,
olio su tavola convessa, Kunsthistorisches Museum, Vienna. |
M.C. Escher, Mano con la sfera, 1935, litografia. |
Caravaggio, Narciso, 1597 - 1599, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma. |
Ma d’altronde lo stesso Caravaggio non era nuovo a questo tipo di studi, dato che negli stessi anni aveva eseguito il Narciso, che, come da racconto mitologico, rimane abbagliato dalla sua fulgida bellezza nel mentre che si rispecchia in un bacino. È interessante qui notare non solo l’ammaliamento del ragazzo che per la prima volta si rispecchia, ma anche il gioco di luce che si crea tra realtà e riflesso, dove la prima vive del bagliore della luce, e la seconda della quiete delle tenebre, quasi a preannunciare quanto sarebbe accaduto di lì a pochi attimi,(la morte per annegamento di Narciso, caduto in acqua per essersi spinto troppo in avanti verso la sua figura riflessa).
D. Velazquez, Las
Meninas, 1656,
olio su tela, Museo del
Prado, Madrid.
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J. Gumpp, Autoritratto, 1646, olio su tavola,
Galleria degli Uffizi, Firenze |
Più di due secoli
dopo, ritroviamo lo specchio quale protagonista assoluto della tela, ne’ Il bar
delle Folies Bergére di Edouard Manet, dove lo specchio dietro il bancone su cui sono
disposte le bottiglie e la frutta per i clienti, rivela una sala immensa
gremita di persone elegantemente agghindate, intenta a socializzare e desinare.
Dallo specchio noi intendiamo quindi gli spazi del bar ma non solo, anche il
tempo di svolgimento dell’azione: la sera.
Ma lo specchio oltre
che come rivelatore di effetti ottici straordinari, è stato usato anche per
rivelare quella che è l’anima del soggetto raffigurato: tanto per citare un
artista capace di questo tipo di ragionamento emozionale nelle sue opere, sono
da considerarsi due tele di Pablo Picasso, emblematiche perché da queste è ravvisabile
quasi una sorta di rivelazione del vero sentimento, attuata dallo specchio nei
confronti del soggetto intento.
Infatti sia ne’ La
donna allo specchio, del 1932, sia ne’ L’Arlecchino allo specchio, del 1923, è
ravvisabile nei soggetti una sorta di espressione cupa e triste, del tutto
rafforzata e indotta dallo specchio: se nel primo caso vi è un confronto che
concretizza in modo più marcato l’espressione non giubila provata dalla donna,
nel secondo caso lo specchiarsi, induce l’arlecchino a prendere visione dei
suoi reali sentimenti: la faccia infatti è quella tipica del lacrimevole Pierrot, nonostante
il costume dell’allegro servo bergamasco. Ma d’altronde lo specchio rivela sempre chi abbiamo davanti, per cui non è mai possibile mentire a noi stessi, ed evidentemente quell'Arlecchino lo sapeva bene.
P. Picasso, Ragazza allo specchio, 1932, olio su tela, Moma, New York. |
P. Picasso, Arlecchino
allo specchio, 1923,
olio su tela, museo Thyssen-Bornemisza, Madrid.
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