mercoledì 9 aprile 2014

La figura di Cristo nella Storia dell'Arte tra iconografia e simbolismo

P. Batoni, Sacro Cuore di Gesù, 1767, olio su rame,
Chiesa del Gesù, Roma. 
Dopo aver per sommi capi trattato l’iconografia della Trinità nella Storia dell’Arte tra iconografia e simbolismo, in questo post prendo in analisi l’iconografia di una delle tre figure divine che la compongono: quella del FiglioOnestamente devo ammettere che, dopo aver inseguito diversi percorsi utili a ricostruire degnamente una sorta di evoluzione/concezione della figura del Cristo in pittura e scultura, non sono riuscito a stilare né un discorso prettamente storico cronografico, né uno basato sulla biografia di Gesù. Ad ogni modo analizzerò ogni aspetto, prendendo in esame elementi esemplari che trattano la sua figura nei suoi diversi aspetti.

Ovviamente è praticamente quasi impossibile riscontrare la figura di Gesù nelle sue fattezze conosciute ai più (capelli lunghi biondo castani, occhi chiari, barba e fisico filiforme, - come nel Sacro Cuore di Gesù di Pompeo Batoni, per intenderci) prima del IV secolo, dato che come storia insegna, prima dell’Editto di Tessalonica del 380, in cui si riconobbe il Cristianesimo quale Religione di Stato, la raffigurazione di Cristo Salvatore era ravvisabile solo nei simboli animaleschi a lui ricollegabili, tra cui il pesce e l’agnello: un esempio l'Agnello che benedice i pani, affrescato nelle Catacombe di Comodilla a Roma.

Agnello che benedice i pani, IV secolo, Affresco, Catacombe di S. Domitilla, Roma.

Buon Pastore, III secolo, marmo,
Museo Gregoriano Profano - Vaticani,

Città del Vaticano.
Infatti come ravvisabile da alcune sculture e affreschi datati al III – V secolo, Gesù in questi anni di persecuzione, viene raffigurato come il Buon Pastore con i suoi agnelli: infatti proprio come un pastore, Gesù guida i suoi fedeli (gli agnelli) verso il cammino da intraprendere per la salvezza eterna. Questo si traduce iconograficamente nella tramutazione del cristo nel pastore adolescente che attorniato dalle sue caprette svolge il suo lavoro: esempi meravigliosi di questa raffigurazione pastorale sono la scultura del Buon Pastore conservato nel Museo Gregoriano Profano (Vaticani) a Roma del III secolo, l’affresco omonimo delle Catacombe di Santa Priscilla del V secolo e la scena bucolica musiva del Buon Pastore con il suo gregge, nella lunetta del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, della prima metà del V secolo.

Buon Pastore con il suo gregge, seconda metà V secolo, mosaico, Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna. 
Cristo sul Trono, VI secolo, mosaico,
Chiesa di Sant'Apollinare nuovo, Ravenna. 
Cristo che divide le pecore dai capretti, VI secolo, mosaico, Chiesa di Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.
Spostandoci solo di qualche chilometro e di più o meno un secolo, la stessa iconografia del Buon Pastore la ritroviamo nel mosaico che però, si identifica tranquillamente con quella di Cristo. Il Cristo che divide le pecore dai capretti in Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna, è un Gesù che non si discosta affatto fisiognomicamente da quello del Buon Pastore, ma a differenza di questi acquista un’identità visibile e ufficialmente riconosciuta. Nella stessa chiesa peraltro, trova luogo il mosaico coevo di Cristo sul Trono, un’altra tipologia iconografica che rivaluta un altro aspetto legato al Figlio di Dio: Cristo è Signore dell’Universo, e nella sua severa ieraticità, si erge a tale, ricordando nell’impostazione gli imperatori dell’Impero Romano, pur risultandone ovviamente al di sopra di essi. Esattamente come un’Imperatore del Cielo e della Terra quindi, appare assiso in un trono gemmato, con tanto di aureola intarsiata di pietre preziose, in primo piano rispetto ad uno sfondo dorato che smaterializza lo spazio e il tempo a noi conosciuti.

Ma il Cristo in trono non appare solo come un adolescente sbarbato, come nel caso di Sant’Apollinare, anzi, vede una maturità fisiognomica tipica della figura che riconosciamo in molti dipinti e mosaici: basti vedere uno su tutti, il Cristo in trono di Santa Prudenziana a Roma, che si attornia dei suoi discepoli in un ambiente altamente complesso perché incastonato in un insieme di volumi architettonici che fanno da sfondo alla scena. Il Cristo in questione infatti si presenta nel periodo più maturo della sua vita, con i capelli lunghi incolti e la barba; la veste d’oro, la croce gemmata, i simboli del Tetramorfo e il libro con la parola di Dio, completano il quadro.

Cristo in Trono con i discepoli, V secolo, mosaico, Chiesa di Santa Prudenziana, Roma.

Cristo Pantokrator, XII sec., mosaico,
Duomo SS. Salvatore, Cefalù.
Un Gesù, quello di Santa Prudenziana, che si inizia a diffondere nei secoli nelle basiliche e nelle chiese di tutta l’Europa cristiana, come dimostra ad esempio il mosaico bizantino del Cristo Pantokrator (Creatore di ogni cosa), sito nel catino absidale del Duomo di Cefalù: una magniloquente figura ieratica, dal volto scavato e ricoperto di una barba che sembra così soffice che pare sfumare dalla pelle, che tiene nella sua mano sinistra il libro della Parola di Dio, mentre benedice con la destra; un Cristo bizantino nell’impostazione statica e nella resa tecnica, solcato da grandi linee accartocciano il drappeggio e bidimensionano la sua capigliatura.

Maestro Guglielmo, Cristo Triumphans, 1138,
pittura su tavola, Duomo S. Maria Assunta, Sarzana. 
Di stampo bizantino sono anche le pale d’altare a forma di croce che vedono protagonista Cristo crocifisso; un Cristo che però ha gli occhi sgranati, è sveglio: un Cristo che vince la morte perché Figlio di Dio, perché il Salvatore dell’Umanità. Il Cristo Triumphans (Cristo Trionfante per l’appunto), si presenta quindi fermo, privo di dolore o spasmi, vivo e sereno, sorretto ad una croce che racconta in linea di massima tramite pannelli applicati a ridosso del corpo e delle braccia di questa, momenti della vita di Gesù.

A questa tipologia appartiene il Crocifisso di Maestro Guglielmo, il cui Gesù è coperto da un perizoma che gli cela inguine, cosce e gambe e non fa peso sul suo corpo, anzi incurante dei chiodi lo getta direttamente sui piedi: è un Gesù dignitoso, fiero e divino quello di Maestro Guglielmo, lontano da quella che a partire dalla metà del Duecento, sarà l’altra versione del Cristo Crocifisso, il Cristo Patient.

Maestro della Croce 434, Cristo Patient, 1230 Ca.,
pittura su tavola, Galleria degli Uffizì, Firenze.
Ovviamente il distacco tra il Cristo trionfante sulla morte e quello più umano del Cristo morente, non è stato repentino e drastico. Lo dimostra la cosiddetta Croce 434 sito agli Uffizi (434 è il numero di catalogazione dell’opera nell’inventario) attribuito al “Maestro della Croce 434”: il Cristo raffigurato in questa pala infatti è un uomo moribondo e sofferente, talmente sofferente che arriccia la fronte e stringe gli occhi per il dolore. Negli otto pannelli incorniciati nei due riquadri tra il braccio e il corpo lungo della croce, si raccontano episodi della sua Passione, quasi come se questi potessero in qualche modo servire allo spettatore per comprendere a pieno la sofferenza di quel Cristo, che rimane ancora bizantino nella capigliatura e nel perizoma, ma che inizia a ravvisare i primi cambiamenti nella resa anatomica dei muscoli e della posizione, leggermente sbilanciata in avanti.

Cimabue, Cristo Patient, 1272 - 1288, pittura su tavola,
Museo della Chiesa di Santa Croce, Firenze
Quella posizione arcuata tipica del Cristo Patient di Cimabue in Santa Croce a Firenze, che rappresenta un Cristo ormai morto e quindi sereno nel sollievo della morte; un Cristo esanime che, non avendo più vita, reclina il capo privo di forze e getta il corpo in avanti a creare un’armonia spasmodica di linee curve. A differenza del Cristo bizantino, questo ormai diviene un cristo che si avvicina sempre di più alla pittura latina moderna di Giotto, una pittura che riconduce ad uno studio più attento dei dettagli: il corpo di Cristo acquista tridimensionalità, i muscoli addominali disegnano il ventre, il petto e rifiniscono le costole; i capelli acquistano volumetria e non vengono scanditi da linee incisive; il colore della pelle diviene meno violaceo e rende meglio il carnato; il perizoma si accorcia sino alle cosce aderisce ad esse in un gioco di vedo non vedo.

Giotto, Cristo Patient, 1290 - 1295, pittura su tavola,
Chiesa di S. Maria Novella, Firenze. 
Gli stessi elementi che in Cimabue non sembrano giungere ad una soluzione completa, trovano la loro completezza in Giotto, che nel suo Crocifisso di Santa Maria Novella a Firenze, analizza perfettamente la morte di Cristo. La resa anatomica del corpo infatti segue una voluminosità ineccepibile, che ridisegna ogni fattezza di Gesù. Il tronco viene reso meravigliosamente nella sue particolarità, dalla pancia pronunciata alla cassa toracica visibile nelle costole e nello sterno, dalle ginocchia alle braccia stese che seguono un movimento roteante dal braccio all’avambraccio. Degni di lode sono l’esecuzione dei capelli, che acquistano un volume ed una morbidezza quasi tangibili ed il pareo annodato nella bassa vita, anche se quello che salta immediatamente agli occhi è lo studio formidabile attuato all’impostazione del corpo morbo sulla croce, che, effettivamente, sarebbe innaturale se seguisse l’inarcamento cimabuesco: l’intero corpo crolla sulle ginocchia che si inarcano in avanti dato i piedi inchiodati ed il busto si slancia in avanti esanime, trattenuto dalle braccia irrigidite e dalle mani inchiodate.

Giotto, Giudizio Universale, 1306, affresco,
Cappella degli Scrovegni, Padova. 
Un Giotto che in più occasioni relega al Cristo il giusto ruolo iconografico, come nel caso del Giudizio Universale nella Cappella degli Scrovegni a Padova, dove Gesù appare in veste di giudice in una ellissi di luce. Una tipologia, che richiama in modo evidente quella del Cristo in mandorla, tipica degli ultimi due secoli del I millennio della Rinascenza Ottoniana. Questo spesso è un Cristo che appare alle genti nella più classica delle Teofanie, o ancora in altre occasioni è mediatore tra il popolo della Terra e quello dei Cieli: nel corso dei secoli, diversi sono gli esempi ascrivibili alla tipologia; fra tutti la Miniatura dell’XI secolo raffigurante un Cristo mediatore in mandorla con i quattro simboli degli Evangelisti sui lati, la lunetta del Portale della Cattedrale di Arles del XII secolo, dove il Cristo in mandorla è attorniato dal Tetramorfo e da schiere di Angeli e Santi sul soffitto della lunetta e nel fregio, sino ad arrivare alle opere del Perugino del XV secolo, dove nell’Ascensione crea attorno al Cristo una mandorla di Angeli, e nella Trasfigurazione, la stessa viene resa come una porta di luce nel cielo.

Cristo Mediatore,  XI secolo, miniatura.
Cristo in mandorla, XII sec, scultura del portale,
 Cattedrale di S.Trofimo, Arles.
 
Perugino, Trasfigurazione, 1517, olio su tavola,
Galleria Nazionale dell'Umbria, Perugia. 
Perugino, Ascensione, 1496 - 1500, olio su tavola,
Musèe de Beaux Art, Lione. 

Interessante è notare a questo punto, come il suo allievo Raffaello si discosti dall’idea della mandorla ridefinita in modo coatto nel cielo, e nella sua Trasfigurazione, raffiguri un Cristo intriso di una luce derivante dal cielo e per nulla delimitata, anzi sfumante nelle nuvole. Un gioco che da più spazio alla contemplazione del divino e che permette di impostare il soggetto in modo che ascenda verso il cielo, in una visione dal basso verso l’alto ed in un tripudio di colori sgargianti che sarà riscontrabile anche nel Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, che però si discosta per la resa fisiognomica del Cristo, giovane e sbarbato come le prime raffigurazioni paleocristiane, e per la luce alle sue spalle che ricorda il Giudizio Universale di Giotto a Padova nella sua ellisse.

Raffaello, Trasfigurazione,
1518 - 1520, olio su tavola,
Pinacoteca Vaticana,
Città del Vaticano.

Michelangelo, Giudizio Universale (part.), 1536 - 1541, 
affresco, Cappella Sistina (Vaticani), Città del Vaticano. 

Beato Angelico,
Cristo coronato di spine,
1430 - 1450, tempera su tavola,
Duomo di S. Francesco, Livorno
A concludere questo tour generico della rappresentazione della figura di Cristo nell’arte, va sottolineato che sicuramente tra gli episodi riguardanti il Vangelo, più rappresentati dagli artisti, configurano senza dubbio quelli inerenti alla Passione, perché densi di un pathos e di una sofferenza capace di inglobare lo spettatore nelle vicende vissute dal Salvatore.
È quanto fa il Beato Angelico nella raffigurazione del Cristo coronato di spine, che consegna a Gesù una sofferenza così umana e spropositata, da risultare persino eccessivamente cruenta: il volto disperato si irriga di sangue che fuoriesce dalla testa, e gli stessi occhi si inondano di quello stesso sangue che è il sangue dell’Umanità.

D. Bramante, Cristo alla Colonna,
1490 ca, olio su tavola,
Pinacoteca di Brera, Milano.  

Anche Antonello da Messina nella seconda metà del XV secolo, raffigura un Gesù che è sia divino che uomo: divino nella sua missione di Salvator Mundi, uomo nella sopportazione delle torture, dalla corona di spine alla colonna, che induce alle lacrime ed all’invocazione del Padre perché questo possa aiutarlo a resistere alla sofferenza. Volti segnati dal dolore, quindi, che sono gli stessi ravvisabili qualche annetto più tardi nell’ormai desolato, affranto e abbandonato Cristo alla colonna del Bramante.




A. da Messina, Salvator Mundi,
1465 - 1475, olio su tavola,
National Gallery, Londra. 
A. da Messina, Ecce Homo,
1470 - 1475, olio su tavola,
Collegio Alberoni, Piacenza.
A. da Messina, Cristo alla colonna,
1475 - 1479, olio su tavola,
Museo del Louvre, Parigi.


Una sofferenza cruda, lancinante e disperata che trova accoglimento solo con la morte, quando lo spirito lascia il corpo ormai incapace di provare alcun dolore. Un corpo nudo e sterile, privo di qualunque santità, riposto su un sedile di pietra e lasciato alla commiserazione ed al pianto: Andrea Mantegna e Annibale Carracci lo raccontano bene (il primo nel Lamento sul Cristo Morto, del 1490 ed il secondo ne’ La salma di Cristo del 1583) nell’impostazione del soggetto ripreso dai piedi consumati e feriti dei chiodi e nell’adagiamento del corpo. Ma se il primo anche nella morte consegna a Gesù un’eleganza dignitosa che vuole ravvedere un barlume di divinità in quel corpo, il secondo è drastico. Nella bocca semiaperta, nel corpo martoriato e sanguinante riposto alla meglio sul sedile di pietra, nei piedi sporchi, tende a ricordare che per quanto divino, il Figlio di Dio era un semplice uomo, e da tale è morto, pur di salvare l’umanità. 

Annibale Carracci, La salma di Cristo, 1583,
 olio su tela, Staatsgalerie Stuttgart, Stoccarda. 
A. Mantegna, Lamento sul Cristo Morto,
1490, tempera su tela,
Pinacoteca di Brera, Milano. 
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1 commento:

  1. In una chiesa di Colognola ai Colli (Verona) esiste un dipinto con il Cristo a Braccia aperte come fosse in croce ma indossante la tunica e quindi completamente vestito. La chiesa è molto antica e dovrebbe risalire circa al XII secolo, probabilmente a data precedente la battaglia di Hattin (1187) dopo la quale, constatato che il Cristo non era risultato vittorioso, si preferì mettere in evidenza più il sacrificio che il trionfo vittorioso. Infatti, da San Francesco in poi, il Cristo viene rappresentato come inchiodato alla croce cioè come colui che con la sua sofferenza ha meritato davanti al Padre il perdono dei peccati degli uomini. Per i Bizantini invece la croce assumeva quasi il significato di un'arma vittoriosa e il Cristo appariva come un generale romano amato, anziché della lancia o della spada, della Croce che impugnava fra le mani proprio come un'arma.

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