Leggendo l’articolo di
denuncia del caro amico Stefano Cominale, che ha indagato a fondo circa le
cause e lo svolgimento della cattiva gestione dei beni culturali nel nostro
paese, a differenza dell’ottimale valorizzazione data dall’assetto museale dei
paesi esteri (nello specifico la presentazione della mostra su Pompei ed
Ercolano “Life and death
in Pompeii and Herculaneum” ad opera del British Museum, vedi articolo), trovo
altamente stimolante, apportare alcune segnalazioni datate in massima
parte al 1917, ad opera di persone che hanno avuto a che fare in un modo o
nell’altro con il Museo Nazionale di Napoli e con il sito archeologico di
Pompei.
Forse scavando un po’
negli anni è possibile riuscire capire dove nasce o dove si sviluppa il gap
evidente tra la gestione del patrimonio acquisito dagli inglesi e la
gestione del patrimonio di stirpe
italiana, messo in evidenza nell’articolo postato nel Blog del Professore.
Ricercando tra le diverse scartoffie d’archivio
per alcune ricerche personali, in diretto paragone tra Inghilterra e Italia, mi
son imbattuto nella denuncia fatta dal Dottor Salvatore Mirone, studioso di
numismatica, al Ministero della Pubblica Istruzione, al quale faceva notare come
fosse dispiaciuto nel dover considerare l’alta efficienza dei musei
anglosassoni (nello specifico il British Museum di Londra, l’Hunter Collection
di Glasgow e l’Ashmolean Museum di Oxford) nel consegnare alla sua persona
alcuni calchi di monete appartenenti all’antica Catana, previa sua istanza per
motivi di studio, a discapito del Museo Nazionale di Napoli, che dopo numerose
segnalazioni, non si era ancora accinto a consegnare alcun calco delle monete
possedute.
L’allora
sovrintendente Spinazzola, per conto del Museo, dichiarò più volte infatti,
allo studioso, che non voler inviare quei calchi perché appartenenti a monete
rarissime presenti solo presso la Collezione Santangelo; nonostante legge e
regolamenti sui musei non vietassero assolutamente di ritrarre calchi dalle
diverse opere.
Museo Nazionale di Napoli, sezione, foto conservata all'ACS di Roma. |
Un visitatore, a tal
proposito dichiarava in una postilla informale diretta al Ministero: “Il Museo lo si vede più pulito si ma
amputato e ridotto e non v’è settimana che non si chiudano al pubblico grandi
reparti sotto la solita scusa di riassettare i locali! Noi con vecchie guide
alla mano stiamo procedendo ad una severa e meticolosa inchiesta ed un giorno
chiederemo conto di questo pubblico patrimonio!”
Ancora, spostandoci a
Pompei, il signor Levis, scriveva negli stessi giorni, una nota di rammarico
alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti (organo centrale del
Ministero della Pubblica Istruzione, addetto alla tutela, conservazione,
valorizzazione delle opere d’arte ed alla gestione di musei e gallerie del
Regno) dichiarando che, dimorando egli in America, era tornato in Italia con
alcuni amici americani affinché questi potessero ammirare le bellezze della
Certosa di San Martino, degli scavi di Pompei e del Museo Nazionale di Napoli. Ma
il disgusto e la vergogna provate da lui ed i suoi amici, erano state di immane
grandezza nel constatare l’effettiva situazione – definita d’anarchia - ed il
grado di tolleranza alle infrazioni, presente in quei siti, dovute
all’inadeguatezza ed all’inettitudine dei custodi.
Questi infatti,
considerando che era assolutamente vietato l’accesso al “Gabinetto Pornografico”
(probabilmente il Levis si riferiva agli affreschi delle terme suburbane) già da parecchi anni, tranne che previa
istanza al Ministero o alla Sovrintendenza, in cambio di una lauta mancia
aggiravano il sistema e permettevano al visitatore di turno di potervi
accedere.
Non basta. Nonostante
per l’epoca fosse fonte di grande scandalo che una donna ammirasse quelle
pareti affrescate, sempre in cambio di qualche lira chiudevano un occhio
sull’ingresso delle stesse.
Dall’altro lato il
Ministero rispose, certo, ma non come ci aspetteremmo da una carica
istituzionale il cui compito è la salvaguardia dell’arte nazionale. Da una nota
a matita sullo stesso documento attestante la lamentela del signor Levis, si
evince l’arrendevolezza del Ministero a quelle che potremmo definire “forze di
causa maggiore”: “C’è del vero purtroppo!
Ma non bisogna poi prendere le cose così nel tragico! Le mance le chiedono
anche in Francia!”.
Biga di Spoleto, VI sec. a.C., bronzo, Metropolitan Museum, New York. |
Già, le mance. Cento
anni fa sembrava che il problema di fondo fossero le mance e non il criterio di
valutazione d’ingresso ad una zona vietata. E ‘sti gran cazzi se qualche anno
prima una biga in bronzo di età etrusca scoperta in alcuni scavi a Spoleto prendesse
il via verso il Metropolitan di New York riuscendo ad eludere l’Ufficio
Esportazioni (e stiamo parlando di una biga in bronzo, non di un quadretto o
una statuetta da camino), l’importante era salvare la faccia con gli altri
paesi. Se le mance le chiedono in Francia, perché non Italia? Noi italiani non
siamo mica stupidi, sapete?
Allora mi dico, forse
è stato questo atteggiamento di nonchalance e noncuranza, o meglio, di massima
cura verso aspetti superficiali a discapito di quelli più urgenti, a far si che
si strascicasse questo modo di intendere la politica in arte, sino a permettere
che sotto il Ministero Bondi crollasse una parete di una domus pompeiana.
Tornando all’articolo
di Stefano, mi viene da pensare allora che non dovremmo poi così tanto rosicare
se altrove sanno innalzare ai massimi vertici la roba che possiedono non per
loro merito, ma che per loro merito è stata adeguatamente conservata.
Non dovremmo perché la
verità è che noi non sappiamo farlo. Non sapevamo farlo cento anni fa e non
sappiamo farlo oggi.
Solo che forse, a
differenza di cento anni fa, quando fattori di carattere tecnico logistico
permettevano la titubanza verso determinate decisioni, oggi non possiamo
assolutamente addurre alcuna giustificazione al pessimo modo di applicare la
politica di salvaguardia e tutela del nostro fortunato, meraviglioso, sublime,
millenario e soprattutto immane, patrimonio artistico.
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