A chi crede che l’avvento
del Fascismo in realtà è esplicabile con la Marcia su Roma del 28 febbraio
1922, bisognerebbe forse indicargli come data concreta per la sua effettiva apoteosi,
il 9 Novembre dell’anno prima, quando ufficialmente questo, da una mera
connotazione di movimento, diventava vero e proprio partito.
E la cosa, checché se
ne dica, non è casuale. Ogni trapasso che si rispetti è sempre derivante da una
trasformazione in atto, o probabilmente appena conclusa: in questo caso l’evidente
consapevolezza che il Fascismo sarebbe stato il futuro d’Italia in un clima di
incertezza politica dove in pochi mesi si susseguivano diversi governi, da
quelli di Facta e Bonomi, a quello del “Cagoia” Giolitti, aveva permesso l’affermarsi di un movimento
che inizialmente non lasciava ben sperare. Tanto da farlo diventare di stampo
nazionale.
Di stampo nazionale
nell’ideologia, di stampo nazionale nell’esecuzione, di stampo nazionale nella
propaganda, ancor prima che il suo massimo esponente ed ideatore, Benito
Mussolini, con l’incarico datogli dal Re Vittorio Emanuele III, istituisse il
nuovo governo.
La mia tesi, di certo
azzardata, trova parziale accoglimento in un articolo, che mi è saltato agli
occhi, dell’Italian American Review,
che si definisce “The most popular Italian American Weekly Magazine in the
United States”.
L’articolo datato al
24 dicembre del 1921, ben trapela il clima di diffidenza che il fascista medio, dimostrava verso il Governo attuale.
Narrando circa la decisione presa dal
Governo di istituire un comitato scelto
per studiare la diffusione della lingua e della cultura italiana all’estero, la
critica efferata si rivelava nella costatazione che tale decisione fosse stata
presa con un ritardo abnorme rispetto alle numerose segnalazioni pervenute
dagli emigrati italiani in terra d’America.
La problematica alla
base, sembrava essere la propensione dell’italo-americano a darsi alla
criminalità, necessità vista come uno sfogo derivato da un approccio poco
chiaro tra figli nativi americani e genitori nativi italiani, che vivevano due culture
diverse perché diversi i paesi che avevano dato loro i natali. E la causa di
tutto questo era da riscontrarsi nella poca propensione dell’emigrato ad
insegnare alla propria prole i sentimenti e la cultura della patria d’origine.
Se qualcosa dovesse
ricondurvi a reminiscenze di stampo fascista, con lo stralcio a riportare, non
avrete più alcun dubbio:
“Fino a quando la patria trascurerà l’educazione nazionale, e
l’orgoglio di patria non è inculcato in quelli che abitano nella penisola, è
inutile parlare di diffusione di lingua, che non riusciamo ad insegnare alle
migliaia di emigranti che lasciano il suolo natio. Le masse analfabete che
formano, senza forse, la parte spiritualmente più sana e fisicamente più forte della nazione, e della quale essa si disfà,
porta in sé congenite le ragioni del deprezzamento di una lingua che non
conoscono, e di una storia che ignorano. Ma di chi è la colpa? Quale differenza
coll’America ove, persino i neri, si sentono superiori a tutti, perché
americani, ed ove, un centinaio e mezzo d’anni di tradizioni gloriose, sono
riuscite a sovrapporsi, nelle nuove generazioni, a quelle decine di secoli di
nazione che ha dato al mondo civiltà e fede.”
L’invettiva al
Governo, che non forma l’emigrante in modo tale che questo possa diffondere
lingua e cultura d’origine è densa di quelli che erano i capisaldi dell’ideologia
fascista: la patria, l’educazione nazionale (nel 1922 ad essa viene dedicato
quello che era il Ministero della Pubblica Istruzione), spirito e fisico. E
ancora razzismo, orgoglio e consapevolezza dell’appartenenza ad una civiltà
illustre nei secoli.
Ovviamente da buona propaganda
quale faceva tal giornale, lo sfogo PERSONALISSIMO dell’autore dell’articolo si
dilungava nella necessità dell’istituzione di una buona educazione nazionale, che
se ci fosse stata, avrebbe risparmiato la disfatta di Caporetto. E quindi, avendolo servito su un piatto d'argento, seguiva l’elogio
al Generale Diaz, quale unico salvatore della patria, avendo, dopo l’onta
subita sul Piave, guidato magistralmente un esercito di giovani ben formati, ma
non acculturati.
Sembrava essere parere
dell’autore dell’articolo infatti, che la situazione decantata non sarebbe
stata tale, se solo si fosse inculcato nell’emigrante, il vero spirito
patriottico, ottenuto, - ultima postilla – grazie alla "Grande Vittoria italiana", dovuta alla presenza del suo "massimo
fattore, il DIAZ!"
L'articolo dell'Italian American Review, del 24 dicembre 1921, custodito presso l'ACS di Roma |
Insomma che dire, alla
vigilia del ventennale governo fascista, sembrerebbe che persino in America si
facesse propaganda.
Anche perché, a conferma della volontà di poter definire quella appena letta, “Propaganda subliminale”, indovinate chi
sarà poi nominato Ministro della Guerra?
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