Un’opera d’arte che ha
lasciato perplessità nel pubblico che ha avuto modo di contemplarla. Se da un
lato infatti qualcuno non è andato oltre il semplice dato di fatto materico per
cui quella è e sarà soltanto una radiografia, dall’altro qualcun altro ha
appoggiato la tesi provocatoria dell’opera d’arte, esulando dal supporto e
basandosi sul suo significato: insomma, perché una vagina dipinta è arte ed un
testicolo radiografato non può esserlo?
(NB: La mia voleva essere solo una provocazione all'ormai labile senso di artisticità consegnato a qualunque opera degnamente segnalata dal mercato: Messa a nudo non è una vera opera d'arte ma solo una simpatica idea provocatoria.)
(NB: La mia voleva essere solo una provocazione all'ormai labile senso di artisticità consegnato a qualunque opera degnamente segnalata dal mercato: Messa a nudo non è una vera opera d'arte ma solo una simpatica idea provocatoria.)
Beh, nel mezzo dell’accesa
discussione si colloca l’opera d’arte di un artista inglese, Jamie Mc Cartney,
classe 1971, che ha fatto dell’organo genitale femminile la sua fortuna
artistica.
Laureato in Arte
Studio sperimentale alla Hartford Art School, che premette un atteggiamento
artistico di stampo innovativo, la peculiarità dell’arte cartneyana è senza
dubbio da riscontrarsi nel suo approccio alla produzione tridimensionale di
diverse parti del corpo.
Summa di questo lavoro
è l’intuizione di esporre su una parete a Berlino nel 2008, un fregio lungo 9
metri, riportante 400 calchi vaginali di altrettante modelle, diviso in 10
pannelli: vulve di ogni età (dai 18 ai 76 anni), dimensione e forma,
appartenenti a donne e transessuali, nonne, madri e figlie; vagine di donne già
madri o non ancora tali, soggette o meno a labioplastica.
J. Mc Cartney, The Great Wall of Vagina (pannello), 2008, calco in gesso, Berlino. |
J. Mc Cartney durante l'installazione dell'opera The Great Wall of Vagina |
L’opera d’arte in
questione si chiama The Great Wall of Vagina, e a quanto dichiarato dall’autore,
è nata con lo scopo di contrastare la convinzione sempre più preponderante nel
mondo occidentale che la labioplastica sia necessaria anche laddove non ci
siano problemi di fisicità, ma solo di un’insicurezza di fondo che porta la
donna a non accettarsi completamente. Il muro è un’evidente dimostrazione dell’armonia
e della bellezza dell’apparato genitale femminile: esporre testimonianze più
disparate porta l’utente a conoscere le diverse realtà quindi a rivalutare l’idea
di modificare inutilmente una parte di sé che va bene per com’è.
Anche sull’approccio
ai calchi tende a specificare che non ha provato alcun piacere legato ad una
sfera erotica, perché il suo lavoro ha previsto rapporti sociali con 400 donne
ancor prima che con 400 vulve: ogni donna ha raccontato qualcosa all’artista,
gli ha lasciato una parte di sé quasi come a caratterizzare di una distinta
personalità quel calco che le apparteneva, individuo di suo già nella
conformità fisica.
J. Mc Cartney, The Great Wall of Vagina, 2008, 9 pannelli con calchi in gesso, Berlino. |
Un monito questo, a
chi vuole provocatoriamente vedere nel Great Wall of Vagina un’opera erotica o
pornografica, anziché uno strumento di riflessione e conoscenza, che non guarda
in faccia a nessun tipo di discriminazione sociale o razziale, come dimostra la
decisione di lasciare il gesso neutro nel suo candore, a preservare uguaglianza
tra donne bianche e di colore.
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