martedì 23 dicembre 2014

Gli dei delle civiltà classiche, nella storia dell'arte: ZEUS / GIOVE

La storia dell’arte, nei secoli in cui si è sviluppata, ha da sempre toccato temi di varia natura, tentando da sempre sia di stimolare la curiosità ancora sconosciuta al fruitore dell’opera creata, sia di trasmettere ai posteri testimonianze visive di racconti ed aneddoti storici e mitologici.
Ovviamente, in antitesi alla sacralità del mondo vetero e neotestamentario, anche quello mitologico – pagano ha avuto una vasta eco dopo la civiltà classica, tornando fortemente in auge con il Rinascimento.

Tra gli dei facenti parte della grande famiglia che abitava l’Olimpo nell’epoca classica greca, Zeus per i greci, Giove per i romani, ricopriva il ruolo di patriarca, in quanto dio del cielo e del tuono per i primi, della religione e della mitologia romana per i secondi. Le testimonianze letterarie degli antichi ce lo raccontano come un birbante sempre in cerca di avventure amorose, fedifrago nei confronti di sua moglie Giunone, a tratti pederasta, come nel caso del suo amore verso Ganimede.

Eucharides, Zeus e Ganimede, 490 a.C., cratere,
 Metropolitan Museum, New York
Un aneddoto riscontrabile su diversi vasi greci, come il cratere di Eucharides raffigurante la scena in cui Ganimede in qualità di coppiere, versa il nettare degli dei a Zeus. Nel vaso è ben chiaro lo status generazionale dei due uomini: Zeus è adulto nella sua altezza statuaria e nella sua folta barba, nobile nella sua condizione di Dio, vestito di una tunica preziosa, seduto su un trono e imponente con il suo bastone presieduto da un’aquila simbolo della sua figura; Ganimede è ancora un ragazzino, minuto, ancora in età puberale, privo di peluria, ma in fase di crescita come dimostra il taglio corto tipico del passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Il mito di Zeus/Giove è Ganimede è uno dei più conosciuti tra quelli appartenente al padre degli dei: Zeus, ammaliato dalla bellezza del giovane figlio del Re Troo, lo rapì tramutandosi in aquila ed afferrandolo con i suoi artigli per portarlo sull’Olimpo dove lo avrebbe fatto suo amante nonché coppiere. La scena sul piano artistico ritrova diverse interpretazioni dell’aneddoto; volte a raccontare l’attimo del rapimento, come fa La Souer nel Rapimento di Ganimede o a raccontare un momento della vita dei due amanti, come nel falso affresco romano dipinto da Mengs nel 1760, per tirare un tranello a Winckelmann appassionato di arte classica.

E. La Soeur, Il rapimento di Ganimede, 1650, 
olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi
A. Mengs, Giove e Ganimede, 1760, affresco,
Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma

Ovviamente raffigurando il padre di tutti gli dei, nell’ufficialità della statuaria greca e romana, il dio non poteva che apparire nel pieno della sua maestosità e della sua potenza regale: ne sono esempio il nudo Giove Tonante, dei I secolo d.C., classico nella sua impostazione dinamica,  nella perfetta proporzione anatomica del tronco e degli arti, nella resa degli addominali e dei muscoli, dei capelli e della barba; ed il Giove di Smirne, di un secolo più tardo, avvolto in una tunica come un perfetto patriarca romano, regale nella capigliatura e nella barba di stile imperiale, divino nell’impugnatura della saetta simbolo della sua potenza.

Giove Tonante, I sec. d.C., marmo,
Museo del Prado, Madrid
Giove di Smirne, 250 d.C., marmo,
Musèe du Louvre, Parigi

D. Dossi, Giove dipinge farfalle, 1523, 
olio su tela, Castello di Wawel, Cracovia
La stessa saetta che poco più di un millennio dopo, con l’avvento del Rinascimento e del nuovo interesse verso le civiltà classiche, si riscontra nel dipinto di Dosso Dossi, raffigurante il mito di Giove e Semele. Ancora Dosso Dossi ricorderà qualche anno dopo il padre degli dei in un dipinto che lo raffigura assieme a Mercurio e le virtù, mentre dipingeva farfalle, in una visione allegorica e simbolica che voleva relegare ai coleotteri la volatilità del pensiero; nella tela di Giove e Samele però, il tema non è più di quotidianità ma tocca la sfera mitologica, raccontando il momento tragico della morte della donna per mano del Dio.

Il mito narra dell’invaghimento di Giove per Semele, rimasta incinta del dio dopo un loro incontro, e del successivo piano ordito da Giunone per punire il marito e la donna. La dea infatti, tramutandosi nella balia della ragazza, la indusse a chiedere al dio di rivelarsi nel suo divino splendore. Nonostante Giove avesse provato a dissuadere la donna a cedere, questa rimase impassibile, venendo quindi tramortita dalla folgore del Dio che non volle sottrarsi al volere di costei.

La tela attribuita a Dosso Dossi, racconta proprio il momento in cui Giove rivela la sua divinità a Semele, uccidendola. Un Dosso Dossi probabilmente giovane se il dipinto fosse effettivamente di sua mano, ancora poco deciso nella cromia e nella resa anatomica delle figure, rivelandosi fumoso e poco incisivo nel complesso. Molto più teatrale risulta la tela del 1780 di Paolo Pagani, custodita alla Moravskà Galerie di Brno in cui la donna appare sconvolta e impaurita dal Dio deciso a rivelarsi a lei, nel pieno del turbinio di un cielo rococò: dalla donna morente nascerà il piccolo Dioniso/Bacco la cui etimologia richiama il suo status di figlio di Zeus.

D. Dossi, Giove e Semele, 1520 ca, 
olio su tela, Collezione Privata
P. Pagani, Giove e Semele, 1780, olio su tela,
Moravskà Galerie, Brno

Correggio, Giove ed Io, 1533,
olio su tela, Kunsthistorisches
Museum, Vienna
Anche Io fu un’altra vittima – se così vogliamo etichettarle – delle voglie di Giove. Il mito racconta infatti che il dio invaghitosi della giovane sacerdotessa di Giunone per colpa di un incantesimo subito da terzi, la fecondò avvolgendola in una nuvola; Era scoperto l’ennesimo tradimento, punì i colpevoli dell’incantesimo e trasformò la donna in una giovenca.

Correggio nella serie degli Amori di Giove, dipinti per Federico II Gonzaga duca di Mantova, dipinse anche una tela raffigurante l’aneddoto in questione – ora custodita al Kunsthistorische Museum di Vienna – che vede la bellissima donna dal carnato delicato e dalle forme burrose e sinuose, catturata con un piglio deciso da un ammasso fumoso dalle sembianze umanoidi. Nei primi anni del XX secolo il dipinto fu anche protagonista di una spiacevole faccenda riguardante il l’Amministrazione dei Musei del Regno, che, avendo scelto il dipinto per riproporlo su alcuni francobolli di tiratura nazionale,  dovette ritirare tutti i francobolli in quanto l’opera fu ritenuta moralmente inaccettabile per le sue nudità.

Agli stessi anni del dipinto del Correggio, è ascrivibile l’affresco di Giulio Romano a Palazzo Te, raffigurante Giove che seduce Olimpiade. Il pittore non era nuovo al ciclo amoroso raffigurante gli dei della civiltà classica, infatti aveva collaborato con Raffaello e gli altri artisti della bottega del gran maestro urbinate, già nelle Logge della Farnesina a Roma: suo è per l’appunto il Giove che bacia cupido, un soggetto che ricorda per affinità erotica pederasta quello del Giove e Ganimede.

G. Romano, Giove e Cupido,1515, 
affresco, Villa Farnesina, Roma 
Il Giove che seduce Olimpiade, riprende il mito per cui Giove si sarebbe unito alla moglie di Filippo di Macedonia, sotto sembianze di un serpente, favorendo dalla loro unione la nascita di Alessandro Magno. Nel pannello dipinto da Giulio Romano, viene raccontato il momento dell’unione tra la regina e il Dio, che per l’occasione non viene rappresentato completamente tramutato in serpente, ma simbolicamente in una forma transitoria che vede il dio nelle sue fattezze umane dalle cosce in su e nelle fattezze di serpente soltanto a completamento del corpo. Peraltro nel pieno della politica erotica attuata in più riprese da Giulio Romano (si veda la svirgolettata sui Modi), il pannello ha un connotato fortemente sensuale, al limite del pornografico, nell’eccitamento del dio, riconoscibile dalla presenza dei due simboli della sua divinità: la saetta e l’aquila.

G. Romano, Giove seduce Olimpiade, 1526 – 1534, affresco, Palazzo Te, Mantova

F. Boucher, Leda e il cigno, 1740,
olio su tela, Collezione Privata
Questa impostazione però non deve indurre allo scandalo: Giulio Romano infatti non è il solo a mostrare nudità evidenti nelle sue opere pittoriche riguardanti il tema scabroso degli amori carnali del padre degli dei. Anche Boucher infatti,  nella Leda e il cigno del 1740, mostra una Leda completamente sopraffatta dal Giove tramutatosi in cigno, che in maniera lenta e delicata si avvicina con il becco all’organo genitale femminile della ragazza vestita con abiti coevi al pittore, secondo lo stile compositivo tipico dei secoli XVI – XVIII che volevano attualizzare gli eventi storico mitologici al presente.

Infatti anche la Danae e la pioggia d’oro di Tiziano, custodita al Prado, è una rivisitazione moderna dell’aneddoto raccontato nelle Metamorfosi d’Ovidio, secondo cui Danae, rinchiusa in una torre da suo padre perché secondo l’oracolo a cui si era rivolto, il figlio di questa lo avrebbe ucciso, venne ingravidata da Zeus attraverso la precipitazione di una pioggia d’oro.

G. Klimt, Danae, 1907, olio su tela,
collezione privata, Vienna
La scena tizianesca è molto sensuale, avendo raffigurato il pittore una Danae nuda distesa su un letto di lenzuola e cuscini candidi e morbidi, con una pelle perlacea e perfetta in contrasto con quella scura e rugosa della custode della torre, di più basso rango, intenta a catturare più monete possibili col suo grembiule nel pieno della sua avidità. Una visione “raccontata” da buon narratore, diversa da quella più intimistica di Klimt (d’altronde tra i due artisti ce ne passano ben quattro di secoli) che raffigura una Danae seducente e carnale, rannicchiata su se stessa persa in un sonno profondo, in una posizione fetale che le permette di accogliere appieno la pioggia d’oro nel suo utero.

Tiziano, Danae e la pioggia d’oro, 1553, olio su tela, Museo del Prado, Madrid.

G. Vasari, Giove e Alcmena, 1557,
olio su tela, Palazzo Vecchio, Firenze
Quattro anni dopo l’esecuzione della Danae di Tiziano, anche il suo coetaneo Giorgio Vasari dipinse un olio su tela, raffigurante un altro amore adultero di Giove: quello di Giove ed Alcmena, anch’esso raccontato nelle Metamorfosi d’Ovidio. Il mito riguardante questi due soggetti però è diverso dagli altri per modus operandi, perché, se nelle altre occasioni Giove si trasformò in animali o entità, in questo caso, data la fedeltà di Alcmena, il dio fu costretto a prendere le sembianze del marito di costei, Anfitrione.

La tela dipinta dal Vasari però, non racconta il momento del concepimento del piccolo Ercole, bensì quello della tentata vendetta di Giunone, che, provò ad uccidere Alcmena ed il piccolo figlioletto introducendo nella camera di lei due serpenti. Infatti nel dipinto Giove ed Alcmena assistono interessati alla prodezza del piccolo figlio di Giove, che per nulla impaurito dalla situazione, cattura i due letali serpenti, uccidendoli.

Tintoretto, L’origine della Via Lattea, 1575,
olio su tela, National Gallery, Londra
E con Tintoretto vent’anni più tardi, si giungerà alla rappresentazione di un altro aneddoto legato alla saga di Ercole, riguardante non più Alcmena ma il piccolo figlioletto simbolo del peccato di Giove e suo padre, intento a combinarne un’altra delle sue. Infatti il mito narra che, per far sì che Ercole potesse ambire ad ottenere la vita eterna, doveva necessariamente bere il latte secreto dal seno di Giunone. Sicché approfittando dell’assopimento della dea, ben consapevole che se l’avesse svegliata avrebbe provocato un putiferio incredibile, Giove avvicinò il piccoletto alla tetta della donna, in modo che potesse bere.

Tintoretto ne L’Origine della Via Lattea narra proprio l’aspetto che segue a quanto detto, quando Ercole afferrando il seno di Giunone con piglio deciso, svegliandola fece schizzare il latte ovunque, permettendo così la creazione dei gigli con le gocce cadute in terra, e della Via Lattea con quelle sbalzate in cielo. Originale è l’idea del pittore di illuminare gli schizzi provenienti dal seno, con piccole stelle luminose; necessaria è l’esigenza di identificare i personaggi con i simboli degli animali a loro appartenenti: l’aquila con la saetta tra gli artigli per Giove, i pavoni per Giunone.

H. Goltzius, Giove e Antiope, 1612, olio su tela,
 Franz Hals Museum, Harleem
Anche l’incisore e pittore fiammingo Goltzius, toccherà il tema degli amori infedeli del padre degli dei nella sua produzione artistica. Di forte impatto è il dipinto conservato al Franz Harles Museum di Harleem, rappresentante Giove che seduce Antiope. Così come racconta il mito, Giove innamoratosi della principessa di Tebe, la ingravidò tramutandosi in un satiro, procurandole non pochi problemi con suo padre e con suo zio. Nella tela è ravvisabile il momento immediatamente antecedente all’approccio amoroso, quando un Antiope dai tratti fiamminghi, ricoperta solo da monili e un delicatissimo trasparente velo sui genitali, mentre dorme distesa su morbidi cuscini dalle fantasie rigate, viene avvicinata da Giove trasformato in un grottesco satiro, che lascia intravedere dalla sua espressione tutte le sue intenzioni.

Tra gli italiani dello stesso secolo, sarà Guido Reni a dare un tocco più armonioso al tema amoroso riguardante Giove, dato che più che di scene di passione amorosa spesso si trattava di abusi veri e propri ai danni delle giovincelle. Se infatti il Ratto di Europa musivo del III secolo d.C., ritrovato a Byblos, racconta di una principessa in groppa al toro, titubante e impossibilitata a scendere dall’animale in corsa, la versione omonima di Guido Reni è più pacata e bucolica, raffigurando la principessa in atteggiamenti sereni abbracciata ad un toro mansueto ricoperto di corone di fiori.

Ratto di Europa, III sec. d.C., mosaico, Byblos
G. Reni, Europa e Giove,
olio su tela, 1636, Dulwich
Picture Gallery, Londra

Ma come nelle migliori storie coniugali instabili, per quante amanti possa avere un uomo, questo tornerà sempre dalla moglie per poter stare bene. Giunone è una donna molto gelosa e spesso mette i bastoni tra le ruote alle amanti del marito, facendo passare loro le più atroci sofferenze, però è anche una moglie devota che ama il suo uomo (in questo caso anche fratello) e che si concede a lui quando questo lo richiede, mettendo da parte rabbia e rancore. È quanto racconta Annibale Carracci nel pannello della Galleria Farnese, raffigurante Giove e Giunone che, lontani da sguardi indiscreti si scambiano sguardi ed effusioni romantiche, aiutati da Cupido pronto a scoccare la sua freccia d’amore.

A. Carracci, Giove e Giunone, 1597 – 1600, affresco, Palazzo Farnese, Roma

J. A. D. Ingres, Giove implorato da Teti, 1811,
olio su tela, Musèe Granet, Aix en Provence
Ma Giove non è legato in ambito artistico solo alle sue marachelle amorose, ma anche agli aspetti più filosofici legati alla sua figura ed a quelli più figurativi.
Infatti Caravaggio nel ritrarre il padre degli dei nella pittura parietale (l’unica della sua carriera di artista) del Casino Ludovisi, gli affidò la personificazione alchemica del zolfo e dell’aria, così come affidò quelle del cloruro e della terra a Plutone, e quelle dell’acqua  e del cloro a Nettuno. Ovviamente come da buona tradizione iconografica, i tre personaggi cavalcano gli animali simbolo della loro divinità: nettuno cavalca un cavallo marino, Plutone tiene a bada il cerbero, e Giove sovrasta un aquila, il tutto sviluppandosi su un’impostazione manieristica di visione dal basso verso l’alto.


Sul piano figurativo invece, la potenza e la divinità più temuta è raffigurata da Ingres nella sua tela del 1811, riproducente Teti che implora Giove: la Nereide è intenta infatti a supplicare Giove di ostacolare i greci durante la guerra, in modo che Achille sia costretto a ritornare a combattere. Dall’austerità del Giove di Ingres si evince sia lo struggimento per non poter aver rapporti con Teti (una preveggenza aveva chiarito che suo figlio sarebbe stato più potente del padre, quindi Giove non poteva rischiare che si avverasse), sia allo stesso tempo la sua maestosità, seduto fiero sul suo trono di oro tra le nuvole, avvolto nel suo regale manto purpureo. 

Caravaggio, Giove, Nettuno e Plutone, 1597, olio su soffitto intonacato, Villa Ludovisi, Roma

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