La storia dell’arte,
nei secoli in cui si è sviluppata, ha da sempre toccato temi di varia natura,
tentando da sempre sia di stimolare la curiosità ancora sconosciuta al fruitore dell’opera creata, sia di trasmettere ai posteri testimonianze
visive di racconti ed aneddoti storici e mitologici.
Ovviamente, in
antitesi alla sacralità del mondo vetero e neotestamentario, anche quello
mitologico – pagano ha avuto una vasta eco dopo la civiltà classica, tornando
fortemente in auge con il Rinascimento.
Tra gli dei facenti
parte della grande famiglia che abitava l’Olimpo nell’epoca classica greca,
Zeus per i greci, Giove per i romani, ricopriva il ruolo di patriarca, in
quanto dio del cielo e del tuono per i primi, della religione e della mitologia
romana per i secondi. Le testimonianze letterarie degli antichi ce lo
raccontano come un birbante sempre in cerca di avventure amorose, fedifrago nei
confronti di sua moglie Giunone, a tratti pederasta, come nel caso del suo
amore verso Ganimede.
Eucharides, Zeus e Ganimede, 490 a.C., cratere, Metropolitan Museum, New York |
Un aneddoto
riscontrabile su diversi vasi greci, come il cratere di Eucharides raffigurante
la scena in cui Ganimede in qualità di coppiere, versa il nettare degli dei a
Zeus. Nel vaso è ben chiaro lo status generazionale dei due uomini: Zeus è
adulto nella sua altezza statuaria e nella sua folta barba, nobile nella sua
condizione di Dio, vestito di una tunica preziosa, seduto su un trono e
imponente con il suo bastone presieduto da un’aquila simbolo della sua figura;
Ganimede è ancora un ragazzino, minuto, ancora in età puberale, privo di
peluria, ma in fase di crescita come dimostra il taglio corto tipico del
passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Il mito di Zeus/Giove
è Ganimede è uno dei più conosciuti tra quelli appartenente al padre degli dei:
Zeus, ammaliato dalla bellezza del giovane figlio del Re Troo, lo rapì
tramutandosi in aquila ed afferrandolo con i suoi artigli per portarlo sull’Olimpo
dove lo avrebbe fatto suo amante nonché coppiere. La scena sul piano artistico
ritrova diverse interpretazioni dell’aneddoto; volte a raccontare l’attimo del
rapimento, come fa La Souer nel Rapimento di Ganimede o a raccontare un momento
della vita dei due amanti, come nel falso affresco romano dipinto da Mengs nel
1760, per tirare un tranello a Winckelmann appassionato di arte classica.
E. La Soeur, Il
rapimento di Ganimede, 1650,
olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi
|
A. Mengs, Giove e Ganimede, 1760, affresco,
Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma |
Ovviamente
raffigurando il padre di tutti gli dei, nell’ufficialità della statuaria greca
e romana, il dio non poteva che apparire nel pieno della sua maestosità e della
sua potenza regale: ne sono esempio il nudo Giove Tonante, dei I secolo d.C.,
classico nella sua impostazione dinamica,
nella perfetta proporzione anatomica del tronco e degli arti, nella resa
degli addominali e dei muscoli, dei capelli e della barba; ed il Giove di
Smirne, di un secolo più tardo, avvolto in una tunica come un perfetto
patriarca romano, regale nella capigliatura e nella barba di stile imperiale,
divino nell’impugnatura della saetta simbolo della sua potenza.
Giove Tonante, I sec. d.C., marmo, Museo del Prado, Madrid |
Giove di Smirne, 250 d.C., marmo, Musèe du Louvre, Parigi |
D. Dossi, Giove dipinge farfalle, 1523, olio su tela, Castello di Wawel, Cracovia |
La stessa saetta che
poco più di un millennio dopo, con l’avvento del Rinascimento e del nuovo
interesse verso le civiltà classiche, si riscontra nel dipinto di Dosso Dossi,
raffigurante il mito di Giove e Semele. Ancora Dosso Dossi ricorderà qualche
anno dopo il padre degli dei in un dipinto che lo raffigura assieme a Mercurio
e le virtù, mentre dipingeva farfalle, in una visione allegorica e simbolica
che voleva relegare ai coleotteri la volatilità del pensiero; nella tela di
Giove e Samele però, il tema non è più di quotidianità ma tocca la sfera
mitologica, raccontando il momento tragico della morte della donna per mano del
Dio.
Il mito narra dell’invaghimento
di Giove per Semele, rimasta incinta del dio dopo un loro incontro, e del
successivo piano ordito da Giunone per punire il marito e la donna. La dea
infatti, tramutandosi nella balia della ragazza, la indusse a chiedere al dio
di rivelarsi nel suo divino splendore. Nonostante Giove avesse provato a
dissuadere la donna a cedere, questa rimase impassibile, venendo quindi
tramortita dalla folgore del Dio che non volle sottrarsi al volere di costei.
La tela attribuita a
Dosso Dossi, racconta proprio il momento in cui Giove rivela la sua divinità a
Semele, uccidendola. Un Dosso Dossi probabilmente giovane se il dipinto fosse
effettivamente di sua mano, ancora poco deciso nella cromia e nella resa
anatomica delle figure, rivelandosi fumoso e poco incisivo nel complesso. Molto
più teatrale risulta la tela del 1780 di Paolo Pagani, custodita alla Moravskà
Galerie di Brno in cui la donna appare sconvolta e impaurita dal Dio deciso a
rivelarsi a lei, nel pieno del turbinio di un cielo rococò: dalla donna morente
nascerà il piccolo Dioniso/Bacco la cui etimologia richiama il suo status di
figlio di Zeus.
D. Dossi, Giove e Semele, 1520 ca, olio su tela, Collezione Privata |
P. Pagani, Giove e Semele, 1780, olio su tela, Moravskà Galerie, Brno |
Correggio, Giove ed Io, 1533, olio su tela, Kunsthistorisches Museum, Vienna |
Anche Io fu un’altra
vittima – se così vogliamo etichettarle – delle voglie di Giove. Il mito
racconta infatti che il dio invaghitosi della giovane sacerdotessa di Giunone
per colpa di un incantesimo subito da terzi, la fecondò avvolgendola in una nuvola;
Era scoperto l’ennesimo tradimento, punì i colpevoli dell’incantesimo e
trasformò la donna in una giovenca.
Correggio nella serie
degli Amori di Giove, dipinti per Federico II Gonzaga duca di Mantova, dipinse
anche una tela raffigurante l’aneddoto in questione – ora custodita al
Kunsthistorische Museum di Vienna – che vede la bellissima donna dal carnato
delicato e dalle forme burrose e sinuose, catturata con un piglio deciso da un
ammasso fumoso dalle sembianze umanoidi. Nei primi anni del XX secolo il
dipinto fu anche protagonista di una spiacevole faccenda riguardante il l’Amministrazione dei Musei del Regno, che, avendo scelto il dipinto per riproporlo su alcuni
francobolli di tiratura nazionale, dovette
ritirare tutti i francobolli in quanto l’opera fu ritenuta moralmente
inaccettabile per le sue nudità.
Agli stessi anni del
dipinto del Correggio, è ascrivibile l’affresco di Giulio Romano a Palazzo Te,
raffigurante Giove che seduce Olimpiade. Il pittore non era nuovo al ciclo
amoroso raffigurante gli dei della civiltà classica, infatti aveva collaborato
con Raffaello e gli altri artisti della bottega del gran maestro urbinate, già
nelle Logge della Farnesina a Roma: suo è per l’appunto il Giove che bacia
cupido, un soggetto che ricorda per affinità erotica pederasta quello del Giove
e Ganimede.
G. Romano, Giove e Cupido,1515,
affresco, Villa Farnesina, Roma
|
Il Giove che seduce
Olimpiade, riprende il mito per cui Giove si sarebbe unito alla moglie di
Filippo di Macedonia, sotto sembianze di un serpente, favorendo dalla loro
unione la nascita di Alessandro Magno. Nel pannello dipinto da Giulio Romano,
viene raccontato il momento dell’unione tra la regina e il Dio, che per l’occasione
non viene rappresentato completamente tramutato in serpente, ma simbolicamente
in una forma transitoria che vede il dio nelle sue fattezze umane dalle cosce
in su e nelle fattezze di serpente soltanto a completamento del corpo. Peraltro
nel pieno della politica erotica attuata in più riprese da Giulio Romano (si
veda la svirgolettata sui Modi), il pannello ha un connotato fortemente
sensuale, al limite del pornografico, nell’eccitamento del dio, riconoscibile
dalla presenza dei due simboli della sua divinità: la saetta e l’aquila.
G. Romano, Giove seduce Olimpiade, 1526 – 1534, affresco, Palazzo Te, Mantova |
F. Boucher, Leda e il cigno, 1740, olio su tela, Collezione Privata |
Questa impostazione
però non deve indurre allo scandalo: Giulio Romano infatti non è il solo a
mostrare nudità evidenti nelle sue opere pittoriche riguardanti il tema
scabroso degli amori carnali del padre degli dei. Anche Boucher infatti, nella Leda e il cigno del 1740, mostra una
Leda completamente sopraffatta dal Giove tramutatosi in cigno, che in maniera
lenta e delicata si avvicina con il becco all’organo genitale femminile della
ragazza vestita con abiti coevi al pittore, secondo lo stile compositivo tipico
dei secoli XVI – XVIII che volevano attualizzare gli eventi storico mitologici
al presente.
Infatti anche la Danae
e la pioggia d’oro di Tiziano, custodita al Prado, è una rivisitazione moderna
dell’aneddoto raccontato nelle Metamorfosi d’Ovidio, secondo cui Danae,
rinchiusa in una torre da suo padre perché secondo l’oracolo a cui si era
rivolto, il figlio di questa lo avrebbe ucciso, venne ingravidata da Zeus
attraverso la precipitazione di una pioggia d’oro.
G. Klimt, Danae, 1907, olio su tela, collezione privata, Vienna |
La scena tizianesca è
molto sensuale, avendo raffigurato il pittore una Danae nuda distesa su un
letto di lenzuola e cuscini candidi e morbidi, con una pelle perlacea e
perfetta in contrasto con quella scura e rugosa della custode della torre, di
più basso rango, intenta a catturare più monete possibili col suo grembiule nel
pieno della sua avidità. Una visione “raccontata” da buon narratore, diversa da
quella più intimistica di Klimt (d’altronde tra i due artisti ce ne passano ben
quattro di secoli) che raffigura una Danae seducente e carnale, rannicchiata su
se stessa persa in un sonno profondo, in una posizione fetale che le permette
di accogliere appieno la pioggia d’oro nel suo utero.
Tiziano, Danae e la pioggia d’oro, 1553, olio su tela, Museo del Prado, Madrid. |
G. Vasari, Giove e Alcmena, 1557, olio su tela, Palazzo Vecchio, Firenze |
Quattro anni dopo l’esecuzione
della Danae di Tiziano, anche il suo coetaneo Giorgio Vasari dipinse un olio su
tela, raffigurante un altro amore adultero di Giove: quello di Giove ed
Alcmena, anch’esso raccontato nelle Metamorfosi d’Ovidio. Il mito riguardante
questi due soggetti però è diverso dagli altri per modus operandi, perché, se
nelle altre occasioni Giove si trasformò in animali o entità, in questo caso,
data la fedeltà di Alcmena, il dio fu costretto a prendere le sembianze del
marito di costei, Anfitrione.
La tela dipinta dal
Vasari però, non racconta il momento del concepimento del piccolo Ercole, bensì
quello della tentata vendetta di Giunone, che, provò ad uccidere Alcmena ed il
piccolo figlioletto introducendo nella camera di lei due serpenti. Infatti nel
dipinto Giove ed Alcmena assistono interessati alla prodezza del piccolo figlio
di Giove, che per nulla impaurito dalla situazione, cattura i due letali
serpenti, uccidendoli.
Tintoretto, L’origine della Via Lattea, 1575,
olio su tela, National Gallery, Londra |
E con Tintoretto vent’anni
più tardi, si giungerà alla rappresentazione di un altro aneddoto legato alla
saga di Ercole, riguardante non più Alcmena ma il piccolo figlioletto simbolo
del peccato di Giove e suo padre, intento a combinarne un’altra delle sue.
Infatti il mito narra che, per far sì che Ercole potesse ambire ad ottenere la
vita eterna, doveva necessariamente bere il latte secreto dal seno di Giunone.
Sicché approfittando dell’assopimento della dea, ben consapevole che se l’avesse
svegliata avrebbe provocato un putiferio incredibile, Giove avvicinò il
piccoletto alla tetta della donna, in modo che potesse bere.
Tintoretto ne L’Origine
della Via Lattea narra proprio l’aspetto che segue a quanto detto, quando
Ercole afferrando il seno di Giunone con piglio deciso, svegliandola fece
schizzare il latte ovunque, permettendo così la creazione dei gigli con le gocce
cadute in terra, e della Via Lattea con quelle sbalzate in cielo. Originale è l’idea
del pittore di illuminare gli schizzi provenienti dal seno, con piccole stelle
luminose; necessaria è l’esigenza di identificare i personaggi con i simboli
degli animali a loro appartenenti: l’aquila con la saetta tra gli artigli per
Giove, i pavoni per Giunone.
H. Goltzius, Giove e Antiope, 1612, olio su
tela, Franz Hals Museum, Harleem |
Anche l’incisore e
pittore fiammingo Goltzius, toccherà il tema degli amori infedeli del padre
degli dei nella sua produzione artistica. Di forte impatto è il dipinto
conservato al Franz Harles Museum di Harleem, rappresentante Giove che seduce
Antiope. Così come racconta il mito, Giove innamoratosi della principessa di
Tebe, la ingravidò tramutandosi in un satiro, procurandole non pochi problemi
con suo padre e con suo zio. Nella tela è ravvisabile il momento immediatamente
antecedente all’approccio amoroso, quando un Antiope dai tratti fiamminghi,
ricoperta solo da monili e un delicatissimo trasparente velo sui genitali,
mentre dorme distesa su morbidi cuscini dalle fantasie rigate, viene avvicinata
da Giove trasformato in un grottesco satiro, che lascia intravedere dalla sua
espressione tutte le sue intenzioni.
Tra gli italiani dello
stesso secolo, sarà Guido Reni a dare un tocco più armonioso al tema amoroso
riguardante Giove, dato che più che di scene di passione amorosa spesso si
trattava di abusi veri e propri ai danni delle giovincelle. Se infatti il Ratto
di Europa musivo del III secolo d.C., ritrovato a Byblos, racconta di una
principessa in groppa al toro, titubante e impossibilitata a scendere dall’animale
in corsa, la versione omonima di Guido Reni è più pacata e bucolica,
raffigurando la principessa in atteggiamenti sereni abbracciata ad un toro
mansueto ricoperto di corone di fiori.
Ratto di Europa, III sec. d.C., mosaico, Byblos |
G. Reni, Europa e Giove, olio su tela, 1636, Dulwich Picture Gallery, Londra |
Ma come nelle migliori
storie coniugali instabili, per quante amanti possa avere un uomo, questo tornerà
sempre dalla moglie per poter stare bene. Giunone è una donna molto gelosa e
spesso mette i bastoni tra le ruote alle amanti del marito, facendo passare
loro le più atroci sofferenze, però è anche una moglie devota che ama il suo
uomo (in questo caso anche fratello) e che si concede a lui quando questo lo
richiede, mettendo da parte rabbia e rancore. È quanto racconta Annibale
Carracci nel pannello della Galleria Farnese, raffigurante Giove e Giunone che,
lontani da sguardi indiscreti si scambiano sguardi ed effusioni romantiche,
aiutati da Cupido pronto a scoccare la sua freccia d’amore.
A. Carracci, Giove e Giunone, 1597 – 1600, affresco, Palazzo Farnese, Roma |
J. A. D. Ingres, Giove implorato da Teti, 1811,
olio su tela, Musèe Granet, Aix en Provence |
Ma Giove non è legato
in ambito artistico solo alle sue marachelle amorose, ma anche agli aspetti più
filosofici legati alla sua figura ed a quelli più figurativi.
Infatti Caravaggio nel
ritrarre il padre degli dei nella pittura parietale (l’unica della sua carriera
di artista) del Casino Ludovisi, gli affidò la personificazione alchemica del
zolfo e dell’aria, così come affidò quelle del cloruro e della terra a Plutone,
e quelle dell’acqua e del cloro a
Nettuno. Ovviamente come da buona tradizione iconografica, i tre personaggi
cavalcano gli animali simbolo della loro divinità: nettuno cavalca un cavallo
marino, Plutone tiene a bada il cerbero, e Giove sovrasta un aquila, il tutto
sviluppandosi su un’impostazione manieristica di visione dal basso verso l’alto.
Sul piano figurativo
invece, la potenza e la divinità più temuta è raffigurata da Ingres nella sua
tela del 1811, riproducente Teti che implora Giove: la Nereide è intenta
infatti a supplicare Giove di ostacolare i greci durante la guerra, in modo che
Achille sia costretto a ritornare a combattere. Dall’austerità del Giove di
Ingres si evince sia lo struggimento per non poter aver rapporti con Teti (una
preveggenza aveva chiarito che suo figlio sarebbe stato più potente del padre,
quindi Giove non poteva rischiare che si avverasse), sia allo stesso tempo la
sua maestosità, seduto fiero sul suo trono di oro tra le nuvole, avvolto nel
suo regale manto purpureo.
Caravaggio, Giove, Nettuno e Plutone, 1597, olio su soffitto intonacato, Villa Ludovisi, Roma |
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