giovedì 4 settembre 2014

La rappresentazione del tramonto nella storia dell'arte

Il tramonto nella storia dell’arte è stato rappresentato in diversi modi, con diverse tecniche, ed ha spesso assunto vari significati simbolici: la sua magia effettivamente si riscontra nel suo ruolo di transito tra due realtà ben definite come il giorno e la notte, che simboleggiano da sempre bene e male, bianco e nero, vita e morte. Spesso il tramonto infatti connubia il sonno dei soggetti rappresentati o preannuncia un triste destino, altre volte conclude un'azione, spesso illumina paesaggi di colori caldi e morbidi.

Come già asserito nel post propedeutico riguardante la raffigurazione del giorno nella storia dell’arte, prima dell’avvento della pittura cosiddetta latina, è praticamente raro riscontrare la presenza di un tramonto in un dipinto, essendo ormai quotato lo sfondo dorato bizantino, e ancora nel Trecento non è del tutto affermata. Ma a partire dal Quattrocento, il nuovo interesse per la natura, le attenzioni verso il clima, la luce e il paesaggio, portano il tramonto ad avere un ruolo del tutto particolare.

V. Foppa, Fanciullo che legge Cicerone, 1464,
affresco staccato, Wallace Collection, Londra
A partire dall’affresco di Vincenzo Foppa raffigurante il fanciullo che legge Cicerone. Il seguente, un tempo facente parte del Banco Mediceo di Milano ed attualmente pezzo cardine della Wallace Collection di Londra, è uno degli emblemi del Rinascimento: il fanciullo che legge Cicerone, raffigura la riscoperta delle civiltà classiche e il nuovo interesse nei confronti della filologia. Un emblema che respira un’aria particolare grazie al tramonto che fa da sfondo al dipinto murale: l’atmosfera rappresentata dal Foppa è rarefatta e multicolore, calda e così delicata da trascinare la scena in un mondo indefinito, per alcuni tratti appartenente al mondo coevo al pittore, per altri rimasto ancora agli anni della magniloquenza romana.

Il Foppa d’altronde non era nuovo alla resa del tramonto in un’opera d’arte: già circa otto anni prima, nella sua tavole de’ I tre crocifissi ora all’Accademia Carrara di Bergamo, aveva ambientato la scena in un ambiente dalle colline dolcemente scoscese e arrotondate, a cui fa da sfondo un tramonto che non è quello stemperato dell’affresco del Banco Mediceo, poiché a differenza di questo, presenta un contrasto più netto tra i colori caldi del sole ancora presente e quelli freddi della notte incombente, attraverso pennellate orizzontali di luce, parallele tra loro, su un cielo reso per larghe campiture.

Ed è interessante notare come circa un secolo dopo, Jacopo Bassano nella sua Crocifissione, riprende in considerazione alcuni elementi presenti nel dipinto del Foppa, ma al tempo stesso ne modifichi drasticamente altri. Rimane nella tela del Bassano il contrasto tra il blu della notte nella parte bassa del cielo e gli aranci e i marroni della parte alta, nonché l’andamento orizzontale delle pennellate; viene altresì modificata la resa delle nuvole, più vaporose anziché diradate e nette nella loro definizione.

V. Foppa, Tre crocifissi, 1456, tempera
su tavola, Accademia di Carrara, Bergamo
J. Bassano, Crocifissione, 1562,
olio su tela, Museo Civico, Treviso

Ma la sintesi dei due pittori analizzati, è riscontrabile agli inizi del XVI secolo nel massimo esponente della pittura tonale veneta: Tiziano. Osservando il Polittico Averoldi, che regna nella Chiesa dei Santi Nazario e Celso a Brescia, è interessante vedere come siano presenti gli elementi base presi in considerazione nelle opere del Foppa e del Bassano (la cui opera è più tarda di quella di Tiziano): simile al primo è la resa della parte bassa del tramonto del polittico (presente anche in altre opere del Tiziano come il Ritratto di Carlo V a cavallo), simile al secondo è quella nuvolosa della parte alta, per quanto, sia notevole l’influsso giorgionesco.

Tiziano, Polittico Averoldi, 1520, olio su tela,
Chiesa di San Nazario e Celso, Brescia
Tiziano, Ritratto di Carlo V a cavallo, 1548,
olio su tela, Museo del Prado, Madrid

Domenichino, Riposo di Venere, XVII sec., olio su tela,
 Ermitage Museum, San Pietroburgo
Si veda infatti la Venere dormiente del Giorgione, datata 1508, le cui nuvole volumetriche e ovattate disegnano forme similari a quelle di Tiziano. Il tramonto che fa da sfondo alla tela, è qui necessario perché parte integrante del racconto: il riposo del sole, concilia con quello della dea, in un tripudio di colori caldi che sfumano l’atmosfera, il paesaggio e la pelle della Venere. Ed è la stessa idea che toccherà il Domenichino circa un secolo dopo, quando raffigurerà una Venere adagiata e attorniata da putti, in procinto di riposarsi cullata da un tramonto che è un armonioso fondersi di azzurri del cielo ed aranci dei cirri e dei cumuli in piena campagna.

Giorgione, Venere dormiente, 1508, olio su tela, Staatliche Kunstsammlungen Gemalde Gallerie, Dresda
C. Lorrain, Porto con villa Medici,
1637, Galleria degli Uffizi, Firenze
Anche il Domenichino si interessa infatti alla copia del paesaggio così come tanti suoi colleghi del secolo: il Seicento infatti come si sa, vede approfondirsi un interesse mirato allo studio degli spazi aperti fra i pittori fiamminghi, ma non solo: anche in Italia, soprattutto nell’area pontificia, si sviluppa questa nuova rivisitazione del genere. Tra i massimi esponenti vi è Lorrain, che in più di un’occasione si apre allo studio del tramonto nei suoi paesaggi italiani: si veda nello specifico Porto con Villa Medici, del 1637. Quello che spicca immediatamente, decentrato ma punto luce della tela, è il sole ormai tangente allo specchio d’acqua, dal quale si dirama una luce omogenea che sfuma nell’azzurro del cielo e illumina le nuvole relegandole un volume delicato.

Rembrandt, Il mulino, 1650 ca, olio su tela,
National Gallery of Art, Washington
Ovviamente però, parlando di pittura paesaggistica del Seicento, non si può non tenere in considerazione Rembrandt; in particolare del suo meraviglioso dipinto de’ Il mulino.
Il paesaggio è semplice quanto maestoso: su una rupe a strapiombo su un lago, si erge maestoso un mulino di tre quarti, fiero delle sue quattro eliche. A chiudere l’armonia del quadro un tramonto “stratificato” perché luminosissimo nella parte centrale, molto più cupo e spento in quelle periferiche della tela, che si apre a grosse nubi scure.

Un soggetto che un giovane Mondrian riprenderà nel 1907, riproponendolo nella sua tela Mulino di sera. Per quanto l’impostazione del soggetto paia similare a quella di Rembrandt, cambia in Mondrian la concezione del tramonto, vista da questo come un’esplosione armoniosa di calda luce: il tramonto di Mondrian è poetico, tiepido, atmosferico nei leggeri tocchi di colori caldi accostati ad un bianco comunque sempre presente. Infine le sagome degli uccelli fanno da nitido contrasto al cielo, rendendo quest’ultimo ancora più luminoso di quanto dovrebbe apparire.

P. Mondrian, Mulino, 1907, olio su tela, Geemente Museum, L’Aja

Tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX, in pieno clima neoclassico e romantico, anche il tramonto diventa un simbolo cromatico del sentimento storico del tempo. È chiaro in Angelica Kauffman, che nel ritratto di Francesco e Alessandro Papafava, rappresenta un tramonto fatto di rosa, viola, blu luminosi che si fondono tra loro a creare un’atmosfera intimista e romantica; è ancora più chiaro nall’Allegoria della Russia di Veit, che trascina nella sua idea di tramonto, le stesse cromie e gli stessi effetti che sono stati della Kauffman, che sono in genere della pittura tedesca.

A. Kauffmann, Ritratto di Alessandro e Francesco Papafava,
1803, olio su tela, Palazzo Papafava, Padova
P. Veit, Allegoria della Russia, 1840, olio su tela,
Ermitage Museum, San Pietroburgo
L’idea di tramonto quindi, come fattore utile a rivelare un sentimento, come simbolo di un sentire comune o di un avvenimento. È quanto accade peraltro nella Zattera della Medusa di Gericault, in cui la tragedia della nave coloniale si apre ad una visione tragicamente drammatica e cruda in cui la morte e la disperazione sono le protagoniste assolute. Il tramonto qui, con i suoi colori, non solo fa da triste cornice cromatica al triste avvenimento, ma quasi ne preannuncia la tragedia, simboleggiando esso per primo una fine: quella del sole, che è vita, e l’irruento intercedere della notte, che è buio, notte, oscurità.

T. Gericault, La zattera della Medusa, 1818, olio su tela, Museo del Louvre, Parigi

J. F. Millet, L’Angelus, 1858,
olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi
Il tramonto visto come fine della giornata, fine di un momento, sarà ripreso quarant’anni dopo da Millet nel suo L’Angelus, un dipinto dai forti connotati sacrali. Quello di Millet però, non è un tramonto esplosivo come quello di Rembrandt, né caldo come quello di Lorain, né romantico come quello di Veit: è un tramonto intimistico, educato e silenzioso. In punta di piedi, arriva e sancisce la fine della giornata dei due contadini che vivono alla giornata e vivono secondo la giornata: la loro sveglia coincide con l’alba, il pranzo con il sole alto nel cielo, e la fine dei lavori con il tramonto e la recita dell’Angelus, secondo un incastro solido ed una convivenza  equilibrata tra religione e natura.

V. Van Gogh, Seminatore al tramonto, 1888,
olio su tela, Museo Kroller Muller, Otterlo
Al dipinto di Millet si rifà Van Gogh nel suo Seminatore del Museo Koller Muller di Otterlo. Dal primo, il pittore olandese riprende la concezione della sacralità del lavoro nei campi, ma nulla di più. Perché il tramonto di Van Gogh è esplosione di vita, è l’irradiamento materico e vigoroso della luce emanata  dal centrale disco d’oro, che sfuma nella bionda distesa di grano. Il seminatore di Van Gogh non sembra accettare serenamente la fine della giornata come quello di Millet, ma pare non curarsene per continuare pacificamente il suo lavoro: d’altronde come potrebbe con un gioco di luci e calore così intenso?

E. Munch, L’urlo, 1893, olio su tela,
Galleria Nazionale, Oslo.
In fondo ogni pittore ha visto nel tramonto l’interpretazione che meglio ha preferito. E se per Millet il tramonto è la dolce fine di una serena giornata e per Van Gogh è l’esplosione di luce prima della notte, per Munch il tramonto è stato la rivelazione della sua angoscia esistenziale.
Infatti, celeberrimo è il suo dipinto de’ L'Urlo, che questo eseguì nel 1893, il cui protagonista fermo su un ponte, emana un urlo lancinante:
 “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.” 
Ben chiare allora, a lettura della descrizione, diviene l’atipica resa del tramonto, attraverso larghe pennellate ondulate di gialli, rossi e azzurri.


In totale antitesi Lusso Calma e Voluttà di Matisse, dipinto circa dieci anni dopo l’Urlo. In perenne ricerca della luce ideale, approdato sulle coste del sud della Francia, Matisse dipinse questa tela cercando di assorbire le influenze di Seurat per quanto riguarda la tecnica del puntinismo, e di Manet e Cezanne per quello dei soggetti (La colazione sull’erba del primo e le bagnanti del secondo). E Lusso Calma e Voluttà è il suo esperimento riuscito, l’esatto connubio tra la luce ideale – quella del tramonto – e il soggetto giusto, per arrivare al concetto di armonia, felicità e tranquillità, in un accostamento metodico di lingue di colore gialle, rosa, viola, rosse e azzurre, al fine di rappresentare quel luogo dove, come recita la poesia di Baudelaire a cui si era ispirato il pittore: “..tutto è ordine e beltà, lusso, calma e voluttà”.

H. Matisse, Lusso, Calma e Voluttà, 1904, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi

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