L’articolo postato sul
blog di un caro amico, che si interrogava su quali fossero i fattori che hanno
portato un paese del calibro della Gran Bretagna a valorizzare i beni culturali
italiani posseduti nei propri musei, nello stesso periodo in cui l’Italia vive
un momento di crisi museale, mi ha portato ad guardare con occhio critico all’argomento.
In quell’articolo (per visualizzarlo clicca qui), su
invito del redattore, intervenivo con una mia considerazione circa l’utilità di
riportare tali beni a casa, per cui creavo un preambolo alla discussione, adducendo le motivazioni per cui quei beni fossero siti nei musei anglosassoni, ma in generale, per cui i beni del nostro Patrimonio Nazionale fossero nei musei di tutto il
mondo.
Motivazioni che a mio
dire, in una sintesi compatta, sono ragguagliabili in tre fattori: andando
a ritroso nel tempo, il primo riguarda le requisizioni napoleoniche che hanno
sventrato soprattutto lo Stato Pontificio e la Repubblica di Venezia che
furono; il secondo è dato dall’allarmante considerazione che non è mai esistita
un’effettiva legge di tutela sino al 1902 (che sarà quella del 1907 e ancora
del 1909), per cui le esportazioni erano all’ordine del giorno in un clima
volto ad una politica liberale sulle arti; il terzo è l’evidente continuum dell’esportazione,
che diviene quindi illecita dopo le leggi di tutela, ma non si attenua anche se
limitato dalla Censura Militare.
Sul piano pratico,
lavorando al Fondo della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, sito
all’Archivio Centrale di Stato, è cosa giornaliera ritrovarsi tra le mani
qualche segnalazione della Censura Militare sull’esportazione illecita di
qualche dipinto o statuetta, se non proprio dichiarazioni di vendita di opere d’arte
all’estero, previo avviso al Ministero della Pubblica Istruzione o esami
nazione delle stesse all’Ufficio Esportazione di competenza territoriale.
Solitamente i
fascicoli presentano ricostruzioni complete dell’iter a cui son soggette tali
opere. Allora quand’è così il mio animo si quieta, nella buona e nella cattiva
sorte: se lo Stato decideva di esercitare il diritto di prelazione sull’opera
in questione, per relegarla in qualche Galleria italiana, la soddisfazione è
grande; se lo Stato non avendo fondi necessari (come durante gli anni di
guerra) molla la presa permettendo la cessione ai privati residenti all’estero
dell’opera, un po’ il mio orgoglio di italiano ne risente, ma almeno riesco a
costruire comunque il percorso di quell’opera.
Poi succede come nel caso
che discuterò adesso, che venga presentata una panoramica di dipinti allo
Stato, per cui questo deve esaminare se conviene esercitare il diritto di prelazione, date le offerte ricevute dall’America, da Genova e da Parigi e la storia sembra interrompersi sul più bello.
E la cosa turba, perché non stiamo parlando
di dipinti qualunque.
Per una chiara
contestualizzazione storico – geografica della questione, è d’uopo chiarire che
la proposta fatta allo Stato, di cui sto parlando, è ascrivibile al 1919: in una
lettera privata dattiloscritta, il conte Montecuccoli Laverchi residente a
Torino, dichiarandosi delegato di un altro nobile suo amico, offriva allo Stato
dipinti, disegni e cartoni di inestimabile valore, custoditi nel suo castello
in Svizzera, stimati in migliaia, addirittura milioni in taluni casi, di lire,
da un certo Dottor Hartig della Pinacoteca di Monaco di Baviera.
La lista dei 36 dipinti offerti in vendita con diritto di prelazione allo Stato Italiano nel 1919. |
Una Sacra Famiglia del
Correggio, una Santa Maddalena di Guido Reni, un Amorino del Parmigianino, un
Angelo Gabriele di Andrea del Sarto, uno schizzo della Sacra Famiglia di
Raffaello, una Crocifissione di Giotto, una Maddalena di Annibale Carracci, una Madonna
con Gesù e Giovanni di Leonardo da Vinci, figuravano in quella lista d’oro
accanto ad altre opere di pittori stranieri del calibro di una pietà del Van
Dyck, una Resurrezione di Lazzaro del Rembrandt, una Mater Dolorosa di Van
Eyck, una testa d’apostolo di Durer.
Purtroppo le
informazioni a riguardo si chiudevano lì. Da quel fascicolo non ci è
decisamente possibile capire se alla fine lo Stato Italiano abbia esercitato o
meno il diritto di prelazione sulle opere in vendita, né, in caso affermativo,
se solo su alcune opere o su tutte!
L’unica soluzione per
non aver l’amaro in bocca è stata quindi, provare a far una ricerca su
internet, sperando di riuscire ad individuare se non tutte, almeno parte di
quelle opere d’arte.
Fare una ricerca è
difficile ovviamente e non sempre porta ad avere risultati soddisfacenti, perché bisogna preventivare che spesso artisti di quel
calibro hanno ripetuto diverse volte l’iconografia del quadro citato e dal
documento non abbiamo riferimenti specifici atti a confermare qualunque ipotesi: la stima è soltanto indicativa di
un valore – implicito – dato dall’attribuzione dell’opera ad un genio.
Per altro l’attribuzione
data ad un’opera, non sempre veniva riconfermata dagli esperti storici dell’arte
inviati dal Ministero ad ispezionare gli oggetti d’arte. E’ forse è anche per
questo se sui 36 dipinti in vendita, son riuscito solo a confermare con
certezza la collocazione attuale di sette di quelli.
Partiamo da Van Dyck.
Pare che gli siano attribuite ad oggi due versioni della sua Pietà. Ragionando
che quella dichiarata dal conte misura circa 120 x 153 cm, addurrei che il
dipinto in questione sia Il compianto del Cristo Morto, che misura 109 x 149 ed
è sito all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. (In effetti anche nelle opere
a seguire, le dimensioni sfasano di qualche centimetro).
Non ho dubbi su Rembrandt:
La Resurrezione di Lazzaro, acquaforte e bulino del 1632 circa, è attualmente
custodita allo Staatliche Museen Kupferstichkabinett di Berlino, misurando più
o meno stessa lunghezza ed altezza di quella dichiarata sulla relazione: 36,6x
23,8.
La ricerca de I tre
sapienti di Bernardo Strozzi, iconograficamente parlando, mi riporta alla sua
opera I tre filosofi, che immagino quindi essere la citata nell’offerta.
Attualmente vedo, è sita a Palazzo Durazzo
Pallavicini, a Genova.
B. Strozzi, I tre filosofi, XVII secolo, olio su tela, Palazzo Durazzo Pallavicini, Genova. |
Giotto, Crocifissione, 1320, olio e tempera su tavola, Musèe des Beaux Arts, Strasburgo. |
Adduco allora le mie
conclusioni. Ma sia chiaro, le mie sono solo fantasiose ipotesi. Non posso
porre la mano sul fuoco sulla compatibilità delle opere che ho individuato con
quelle dichiarate dal nobile torinese.
Detto ciò, a meno che tutti
i dipinti non siano rimasti nel castello svizzero, la mia tesi sembrerebbe
dimostrare che quell’acquisto non avvenne, che alcuni dipinti siano stati
attribuiti post esame ad altri artisti (si spiegherebbe così la sparizione nel
nulla della maggior parte di quelle opere), e che a seguire gli stessi furono
venduti a privati, collezionisti e magnati italiani e stranieri.
J. Van Eyck, Mater dolorosa, 1480 - 1500, olio su tavola, Art Institute of Chicago. |
Il Dottor Hartig, magari,
valutando le opere, decise di far un’offerta per il Van Dyck.
Ai
privati di Genova, Parigi ed America, ancora, furono vendute la maggior parte
delle opere; infine altre presero il volo per Berlino, Oxford, Amsterdam e
chissà dove.
Ma
infondo mi auguro di sbagliarmi. Mi auguro di aver fatto male le mie ricerche;
che siano solo casuali le compatibilità di supporto e dimensioni dei dipinti e
sia ancora casualità che quelli da me individuati si trovino nelle città che
avrebbero comprato dal conte Montecuccoli Laverchi.
Perché se quello che tanto non vorrei, fosse vero, allora sono dinanzi alla dimostrazione effettiva che per quanto di noi italiani si dica il contrario, in materia di affari non siamo affatto furbi.
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