“Cento, o anche solo cinquant’anni fa, ogni persona che si interessasse d’arte italiana, dilettante, storico o artista, teneva le Vite del Vasari sul comodino. Ricordo che Roberto Longhi mi raccontò che, negli anni trenta, avendo in una discussione storico – artistica fatto ad un professore tedesco una osservazione giudicata troppo elementare, si era sentito rispondere, con aria di offesa: “Ho letto il mio Vasari!” Oggi non si può dire altrettanto. Tramontata la concezione strumentale del Vasari come fonte pressoché unica per la storia del Rinascimento artistico italiano, esso viene ora raramente citato ed ancor meno letto; a dispetto degli innegabili progressi degli studi specialistici che gli sono stati dedicati, certi storici dell’arte percorrono l’intero cursus honorum senza averlo mai preso in mano, o sembrano ricordarne l’esistenza solo quando si tratta di stigmatizzare presunte tendenze “neovasariane”.
Lo stralcio citato è tratto dall’introduzione a Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri di Giorgio Vasari, che racconta duecento anni di storia dell’arte, duecento anni di cambiamenti sostanziali; duecento anni in cui avviene il passaggio dalla maniera greca di dipingere alla maniera italiana con Giotto; in cui si sviluppa il Rinascimento, sino a sfociare nel pieno Manierismo.
Il trattato, che analizza le vite degli artisti che si susseguono da Cimabue a Michelangelo, fu redatto due volte a distanza di diciotto anni: al 1550 è ascrivibile la versione torrentiniana, più scarna ma meno faziosa e banale, al 1568 la versione giuntina. Lungi da me definire la migliore, per quanto preferisca la prima.
Premessa la descrizione - decisamente irrisoria, ma destinata ad un’inquadratura generale - dell’opera, apro le danze al ragionamento che ha suscitato in me questo inciso scritto negli anni '60 del Novecento.
Per un giovane studioso di storia dell’arte quale il sottoscritto, ad un passo dalla laurea che lo consacrerà dottore a tutti gli effetti senza scuse e senza giustificazioni per ogni lacuna di cui peccherà, è sicuramente stimolante e destabilizzante riscontrare come, un’assoluta verità quale quella denunciata dal Previtali (io di certo non posso metterlo in discussione, non ne ho la competenza), sia riscontrabile se non denunciabile in modo allarmante ai giorni nostri.
A cinquant’anni da quel pensiero, girando per le università, purtroppo è doveroso affermare che Le Vite del Vasari non è più un “libro da comodino” per gli studenti di storia dell’arte, né da bibliografia per i professori emeriti.
Io stesso apporto la mia testimonianza vergognandomi non poco di aver riscoperto il Vasari solo al primo anno di Laurea Magistrale, grazie alla perseverante volontà della professoressa Sylvia Ginzburg, che tenendo un corso monografico su Giulio Romano, ha cercato quasi ad ogni lezione di strappare dieci minuti all’artista manierista per dedicarlo alla lettura de Le Vite, stimolando la comparazione la versione torrentiniana a quella giuntina in un vero e proprio lavoro filologico.
Prima di allora, nonostante abbia perseguito una laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali, non mi era mai capitato di imbattermi nel prezioso trattato, né di preoccuparmi di ricercarlo in libreria o in biblioteca per leggerne qualche pagina.
Che io non sia il primo e l’unico studente di storia dell’arte ad aver scoperto il Vasari troppo tardi (ma meglio tardi che mai), è cosa così nota da non aver la necessità di un riscontro statistico; piuttosto la mia riflessione va a quanto una simile mancanza si possa traslare all’atteggiamento verso la storia dell’arte quale costante viaggio itinerante alla riscoperta delle opere d’arte ecclesiastiche, museali e monumentali sparse in tutta Italia, in tutto il mondo.
Insomma, a conti fatti, la propensione a vivere con pigrizia l’esistenza di un testo così fondamentale senza mai trovar il tempo di leggerlo, così come i trattati di grandi storici dell’arte come Argan, Venturi, Procacci, Longhi, induce ad aver un simile modo di approcciare verso la riscoperta di musei mai vissuti e chiese e monumenti mai visti, giustificati dal “tempo che manca” e dal “ci sarà tempo per veder ciò che non ho ancora visto”.
Ricordo a me stesso, alla luce di ciò, che non ho ancora visto la Cappella degli Scrovegni a Padova; il Duomo di Milano; San Marco a Venezia; Palazzo Te a Mantova. Ci sarà tempo per veder ciò che non ho ancora visto, mi rispondo. Ma non ho neanche ancora visto i Musei Vaticani, qui a Roma, dove vivo da due anni. È il tempo che manca! Mi dico ancora.
La verità è che non ho poi così tante scuse: mi sto laureando in Storia dell’arte e di certo me ne vergogno di non aver spaziato così tanto nelle mie esperienze. Che cosa avrebbe pensato di me Cavalcaselle, che viaggiava col suo taccuino annotando e disegnando ogni sorta di opera d’arte che incontrava lungo il suo cammino e gli storici dell’arte di vecchia data, gli innominabili? Lui il tempo ce lo aveva per farlo, lo trovava.
Poi mi tranquillizzo pensando però, che avrò davvero tempo per vedere il più possibile. E me lo prometto. So che lo farò.
Intanto, ho sul comodino il mio bel Vasari, con la sua bella introduzione scritta dal Previtali, che sta lì, a ricordarmi che ci sono cose che fanno la differenza; che ci sono scelte che formano e scelte che informano.
Ed è sempre lì quella prefazione, a non farmi dimenticare la qualità delle fonti, a stamparmi nella mente il pericoloso monito di tempi andati e la triste certezza del mondo di oggi.
Che vale per tanti forse, ma non per me.
Le Vite di Giorgio Vasari |
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