martedì 15 luglio 2014

Ernst Ludwig Kirchner e il Die Brucke: l'idea di un ponte per un'umanità migliore

Ritratto di Ernst Ludwig Kirchner 
Tra le vittime della mostra sull’Arte degenerata, manifestata dalla politica nazista negli anni ’30, oltre al già raccontato Otto Dix, configura un altro protagonista della Rivoluzione stilistico pittorica tedesca contemporanea: Ernst Ludwig Kirchner, un pittore che, nel corso della sua vita, provò, con successo postero, a raccontare la società e la vita quotidiana tedesca del suo tempo, attraverso un forte impatto cromatico.

Il pittore, nacque a Aschaffenburg, in Baviera, nel 1880, vivendo la sua formazione accademica in un periodo di forte interesse verso le novità ed avanguardie provenienti da tutt’Europa: iscrittosi alla Facoltà di Architettura di Dresda nel 1901, sicuramente incuriosito dalla forte emotività sprigionata dall’esplosione dei colori dettate dalle larghe campiture della pittura di Gauguin e Matisse, ed allo stesso tempo, dal compulsivo uso delle svirgolettate di Van Gogh, con alcuni suoi colleghi studenti (Fritz Beyl, Erich Heckel e Karl Schmidt Rottluff), nel 1905 fondò una corrente artistica, atta ad inaugurare un nuovo Espressionismo di stampo tedesco, il Die Brucke (trad.: Ponte).

E. L. Kirchner, Gruppo di artisti, 1926,
 olio su tela, Ludwig Museum, Colonia
Una corrente avanguardistica che, a differenza dell’Espressionismo fauvista francese di Matisse, Derain e De Vlaminck, era connotato da un forte accento di denuncia politico sociale. D’altronde, lo stesso nominativo della corrente, era un’esortazione a percorrere una sorta di ponte simbolico la cui meta finale sarebbe stata un futuro migliore dell’attuale (secondo i dettami nietzscheschi raccontati in “Così parlò Zarathustra”), considerando per l’appunto, il periodo di ormai abbandonata integrità morale, di alienazione degli operai sfruttati e trattati al pari di bestie da soma, di smarrimento ed insoddisfazione storico – politiche.

E l’ambiente che si respirava nel Die Brucke, era per alcuni versi simil-rivoluzionario, come si può dedurre dalla malinconica tela di Kirchner Gruppo di artisti del 1926, raffigurante tre dei quattro fondatori della corrente, più Otto Muller, pittore unitosi al contesto nel 1910. 
Bloccati in una stanza dalle pareti costrette dipinte di blu, i quattro pittori sono intenti a discutere tra loro: Muller, seduto a gambe accavallate, pare pensoso e perplesso mentre fuma la sua pipa, segue dietro, alla sua sinistra, coperto dalla parete spiovente, lo stesso Kirchner munito di giornale, ancora Heckel e Schmidt Rottluff, con le mani nella palta del pantalone; tutti rigorosamente imborghesiti nei loro abiti e nelle loro cravatte, con barba e capelli, rigorosamente precisi.

E. Nolde, La danza intorno al vitello d’oro, 1910, olio su tela,
 Staatsgalerie moderner kunst, Monaco di Baviera
Oltre a Muller, nel 1906, entrarono a far parte del Die Brucke anche Max Pechstein ed Emil Nolde; quest’ultimo in particolare, dette al gruppo già di per sé esponente di una vigorosità cromatica eccezionale, un’ulteriore spinta emotiva. Si veda uno su tutti, La danza intorno al vitello d’oro, del 1910, in cui un gruppo di donne balla freneticamente inneggiando al vitello d’oro: il movimento, la furia, l’esortazione, sono tradotte visivamente da un buon connubio stilistico cromatico; da un lato infatti una forte spinta è data dalle svirgolettate trascinate dal basso all’alto di colori pastosi e vigorosi, dall’altra l’utilizzo dei colori caldi, accende il sangue nel corpo di chi osserva.

E. L. Kirchner, Marcella, 1909,
olio su tela, Moderna Museet, Stoccolma
Il periodo del Die Brucke, durato sino al 1913, perché sciolto dai suoi componenti in seguito al problema binario del trasferimento di Kirchner a Berlino, e dello scontro di opinioni dei suoi componenti, scandalizzati sia dalla pubblicazione delle Cronache del Die Brucke dello stesso Kirchner, sia ormai indirizzati verso uno stile più individualistico che di gruppo, per il pittore coincise con la denuncia della società che guardava con i suoi occhi nelle città più popolate della Germania imperiale.
Forte impatto ebbe innanzitutto la serie dei ritratti di Marcella, (talvolta ricordata anche come Franzi), una prostituta minorenne consapevole della bellezza e della freschezza dei suoi anni, molto ambita dai signori di Dresda. Nei diversi ritratti appartenenti al biennio 1908 – 1910, Kirchner la raffigura sfrontata e spavalda nel suo sguardo sensuale, truccata esageratamente, spesso vestita,  ma anche nuda, coperta però nel pube e nel seno ancora acerbo, dalle sue braccia. Interessante è notare l’atteggiamento della ragazza, vogliosa di sedurre e sempre attenta al particolare vezzoso come il fiocco tra i capelli.

E. L. Kirchner, Marcella, 1910, olio su tela,
Minneapolis Institute of Arts, Minneapolis.
Nei ritratti più tardi del biennio, si può persino evincere come la modella bambina venga raffigurata nella sua crescita, non solo fisica ma anche psicologica: quella che era una bambina forte della sua influenza sugli uomini e divertita da tanto potere e dal gioco di posare per i pittori, diviene un’adolescente consapevole della vita sfrontata che sta alimentando. Marcella peraltro ormai è conosciuta nell’ambiente del Die Brucke, perché non è solo la modella di Kirchner: anche Max Pechstein la ritrae nella stessa posa e nelle stesse vesti indossate da lei per posare per il primo pittore.

Confrontando le due tele, è evidente che la ragazza abbia posato contemporaneamente per Kirchner e Pechstein, seppure i due abbiano reso le sue emozioni in maniera differente: Pechstein, posizionato frontalmente nella stanza, la ritrae seducente, con una mano tra le gambe incrociate, l’altra sul viso, attenta però a non coprire le labbra carnose; persino l’abito appare erotico nella cortezza della gonna e nelle forme del fondoschiena. Kirchner invece, posizionato alla sinistra di Marcella,  la ritrae sì nello stesso modo, ma ciò che ne deriva subisce una modifica percettiva: quella che è la modella sensuale di Pechstein, sembra essere più pudica agli occhi di Kirchner; l’abito appare più lungo di quanto non si direbbe nel primo, gli occhi socchiusi sembrano non raccontare erotismo ma stanchezza, la posa sensuale pare quella sciatta e casuale di una donna stesa sul divano.

M. Pechstein, Ragazza sul divano, 1910,
olio su tela, Ludwig Museum, Colonia
E. L. Kirchner, Marcella, 1910, olio su tela,
 Brucke Museum, Berlino

Pechstein peraltro non fu solo un semplice compagno del Die Brucke per Kirchner. Insieme nel 1911, convinti delle loro idee circa l’arte moderna e trasferitisi entrambi a Berlino, decisero di fondare un istituto accademico, l’Istituto MUIM, che per l’appunto si prefiggeva di inculcare nei negli iscritti della nuova generazione, una nuova metodica pittorica tipica di un’arte contemporanea in evoluzione. Ma il progetto non ebbe i successi sperati, per cui un anno dopo, nel 1912, il MUIM vedeva la sua chiusura. E a seguire, un anno dopo ancora, lo vide il Die Brucke.

P. Picasso, Les Deimoselles d'Avignon, 1907, 
olio su tela, MoMA, New York.
In quegli anni Kirchner sviluppò però le sue idee più geniali circa la trasposizione visiva della società del suo tempo. Ne sono esempio diversi dipinti esemplari, tra cui molto interessante per il soggetto e la composizione è Cinque donne sulla strada del 1913, al Ludwig Museum di Colonia.
La tela raffigura cinque prostitute, lo stesso soggetto iconografico de’ Les deimoselles d’Avignon che Pablo Picasso dipinse sei anni prima, agghindate di tutto punto e pronte ad accalappiarsi gli uomini proponendo le loro pose più sensuali. I colori acidi e freddi della tela contrapposti a quelli scuri degli abiti, i profili greci stilizzati delle meretrici, i fisici longilinei sino all’inverosimile e le linee spezzate dei loro cappelli, lasciano nello spettatore un senso di angoscia e degrado, tipico di quella realtà borghese lasciata alla deriva di se stessa che anche Otto Dix raccontava in quegli anni.

E. L. Kirchner, Cinque donne sulla strada, 1913, olio su tela, Ludwig Museum, Colonia

Emozioni avvalorate nelle due tele di Scene di strada di Berlino dello stesso anno e Postdamer Platz del 1914. In entrambe le tele, Kirchner introduce la sua visione pittorica della denuncia sociale, così come aveva fatto con le Cinque donne sulla strada. Le donne della Scena di strada a Berlino, sono donne succinte e vanitose, accompagnate dai loro mariti e fidanzati dai pastrani scuri e le bombette a tinta; tutto è frenetico, la gente sullo sfondo va e viene, si fonde in un'unica grande macchia – nitida - di colore scuro. Più angosciante Postdamer Platz, connotata dalla stessa tipologia di donne dal corpo troppo longilineo e dai copricapi dalle linee spezzate delle piume, ma arricchita del verde olivastro delle loro derma. Ancora, la città nello sfondo sembra contorcersi come risucchiata da un buco nero creatosi nello spartitraffico circolare dove sostano le due donne; il cielo è scuro e verde come la strada, gli edifici sono tetri: tutto contribuisce a rendere la piazza macabra.

E. L. Kirchner, Scena di strada a Berlino,
1913, olio su tela, Neue Galerie, New York
E. L. Kirchner, Postdamer Platz, 1914,
olio su tela, Neue Nationalgalerie, Berlino

Con lo scoppio della I guerra mondiale, così come fece incoscientemente Otto Dix (i due pittori nel loro vissuto hanno molte cose in comune), anche Ernst Ludwig Kirchner si arruolò volontariamente nell’esercito. Ma dalla vita di guerra ne uscì psicologicamente distrutto: l’orrore a cui aveva assistito nella prima guerra di trincea ad oltranza, la visione della morte e della mutilazione, lo provarono sino allo sfinimento, tanto che nel 1915, ad un anno dall’inizio del conflitto, subì un forte esaurimento nervoso e fu congedato al fine di curarsi.

. L. Kirchner, Autoritratto da soldato, 1915,
Allen Memorial Art Museum, Oberlin
Anche dai suoi autoritratti del periodo bellico si può notare come egli avesse subito il trauma della guerra: si veda l’Autoritratto come soldato, del 1915 in cui il pittore si dipinge nella sua uniforme di soldato, accompagnato da una donna nuda, probabilmente una prostituta non necessariamente legata a lui da sentimenti affettivi.
Lo sguardo del pittore, nella tela, sembra assente, alienato probabilmente dalla consapevolezza che sul fronte la morte giunge inaspettata: a dimostrarlo il moncone ancora sanguinante, simbolo della paura provata verso la guerra e delle conseguenze che questa, quindi, può procurare: una componente riscontrata appunto anche nelle tele di Dix degli stessi anni. 
E poi l’Autoritratto da ammalato, del 1918, che mostra un Kirchner scosso, angosciato, consapevole di cos’è la paura. Dalla finestra il paesaggio si tinge di colori sgargianti, la camera sembra rimpicciolirsi a vista d’occhio e in primo piano non resta che lui, il pittore dalla pelle livida e verdognola, preoccupato sul futuro.


E. L. Kirchner, Autoritratto da ammalato, 1918,
olio su tela, Das Stadel Museum, Francoforte
Con la fine della guerra giunse un florido periodo di successi per l’artista, che però, nonostante le diverse mostre monotematiche di cui fu protagonista e l’edizione di un suo catalogo personale, risentì sempre dei forti problemi emotivi e psicologici legati alla sua esperienza di guerra, come si evince da un più pacato seppur instabile Autoritratto dipinto nel 1931. Trasferitosi dal 1918 in poi a Davos, in Svizzera, nella cittadina visse il resto della sua sino al 1938, l’anno seguente alla sua disfatta professionale, derivata dalla messa al bando di centinaia di sue opere per mano dei nazisti, nella denuncia sull’arte degenerata. Lui, che con il Die Bruck aveva tanto combattuto per un’umanità migliore, ritrovandosi invece nella mani della peggiore fattispecie. 

E. L. Kirchner, Autoritratto, 1931, olio su tela, Bunder Kunstmuseum, Coira

domenica 13 luglio 2014

Il cane nella storia dell'arte

Statua raffigurante il dio Annubi, XIII secolo A.C.,
legno, Museo di Antichità Egiziane, Il Cairo.
Il cane nella storia dell’arte ha da sempre giocato un ruolo importante, perché sin dalle prime civiltà è stato molto presente nel vissuto quotidiano dell’uomo. Così come la dea Bastet era impersonata da una gatta, secondo i dettami della religione zoomorfa egizia, il dio Annubi era impersonificato da un canide (uno sciacallo) e simboleggiava nientemeno che la morte. Da lui dipendeva la qualità della vita eterna che sarebbe toccata ad ogni egizio, ed a lui si rifacevano i sacerdoti e gli addetti alla trasposizione degli organi nei vasi canopi, che indossavano in segno di osservanza, maschere che riproducevano le fattezze di Annubi. Questo è quanto è stato desunto dalle pitture parietali riscontrate nelle diverse tombe, piramidi e costruzioni religiose; un esempio artistico lampante del dio Annubi peraltro è riscontrabile nella statua ritrovata nella Tomba di Tutankhamon.

Tiziano, Venere d’Urbino, 1538,
olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze
Ma esulando dalla divinizzazione dell’animale, che scema con l’avvento delle civiltà classiche, il cane ha da sempre rappresentato l’animale domestico protettore delle domus per eccellenza, servo fedele del proprio padrone e amico dei bambini. E nel corso dei secoli l’arte lo ha raccontato toccandolo in diversi modus vivendi e raffigurandolo e stilizzandolo a dovere. Come non pensare al cagnolino de’ Il ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, il cui cane è presente a simboleggiare la fedeltà reciproca della coppia; alla Venere di Urbino di Tiziano, ai cui piedi della seducente dea è accovacciato il dolce cagnetto addormentato o al Ritratto di Carlo V con il cane, dello stesso pittore, in cui il Re di Spagna è accompagnato dal bel cane bianco che sembra quasi innamorato del suo padrone? Must della storia dell’arte, riportati da quasi tutti i manuali.

J. Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini,
1434, olio su tavola, National Gallery, Londra
Tiziano, Ritratto di Carlo V con il cane,
1533, olio su tela, Museo del Prado, Madrid

J. da Bassano, Due cani da caccia, 1548,
olio su tela, Museo del Louvre, Parigi.
Diverse sono le considerazioni e gli studi sul cane, fatti dagli artisti nel corso delle diverse correnti. Ovviamente la copia dal vero e lo studio anatomico, fisiognomico e delle espressioni ha avuto riscontri rilevanti, soprattutto a partire dal Rinascimento. Già nel Ritratto di Carlo V con il cane del Tiziano è ben evidente uno studio mirato alle muscolature ed al “sentimento provato dall’animale domestico”, ma nella tela dei Cani da caccia, Jacopo da Bassano raggiunge livelli encomiabili: il pelo dei due animali, uno scuro e uno bianco, riporta la lucentezza e la foltezza tipica della razza, lo sguardo è fiero e guardingo, la resa delle zampe, del muso e degli occhi è eccezionale.

G. Dou, Cane dormiente, 1650, 
olio su tela, collezione privata. 
Sempre ricordando il cagnolino addormentato de’ La Venere di Urbino di Tiziano, non possiamo non guardare al seicentesco Gerrit Dou, che riproduce il suo Cane dormiente in una posa molto simile al primo. Il cane di Gerrit Dou riposa accovacciato su una tavola, a finire una natura morta composta da un’anfora di terracotta, un cesto di vimini ed un fascio di rami, bellissimo e perfetto nel suo pelo rado e macchiato. È inutile negare che dalla sua posa e dalla sua espressione sognante traspare una dolcezza infinita, surplus interessante in un’epoca in cui l’effetto naturale, aveva la meglio sul resto.

E a seguire George Stubbs, nel pieno del XVIII secolo continua lo studio del cane nella sua anatomia, riproducendo esemplari interessanti di diverse razze. Molto ben riuscito è il Cavalier King, che sembra quasi fotografato durante una passeggiata. Lo sguardo del cane di piccola taglia è fiero e curioso, le pupille sono animate e lucenti; il pelo non è reso tramite piccole e sottili svirgolettate, ma attraverso larghe campiture: ciò nonostante il risultato resta comunque stupefacente.

Stupefacente come il Cavalier King riprodotto da Edouard Manet nel pieno della sua tecnica impressionista. Il cane riprodotto dal pittore, a differenza di quello di Stubbs sembra meno coinvolto nell’azione ritrattistica, quasi confuso da quanto sta accadendo; anche gli occhi di questo trasudano un’anima canina, nonostante in questo caso basti un piccolo punto bianco di luce in una pupilla completamente nera, piuttosto che un mirato studio anatomico dell’occhio, come in Stubbs. E ancora il pelo, che qui viene reso con svirgolettate vigorose e indefinite, che mischiando bianco, grigio, nero e un marroncino chiaro piuttosto acceso, creano l’idea di un pelo lungo, folto e molto arricciato.

G. Stubbs, Cavalier King Charles Spaniel, 1776,
olio su tela, collezione privata
E. Manet, Cane Maltese, 1866, olio su tela,
Collezione Mellon Bruce, New York. 
Continuando la strada dello studio naturalistico del cane e del suo vissuto quotidiano anche a contatto con l’uomo, un tema interessante da analizzare è l’eliminazione delle pulci dall’animale ad opera del suo amico umano. Due casi sono interessanti da analizzare a riguardo: il primo è il Ragazzo che spulcia il cane di Gerard ter Borch, sito all’Alte Pinakothek di Monaco, in cui il ragazzo è intento a spulciare il suo cagnolino, che vive passivamente la scena, che avviene in un ambiente povero e minimalista (una sedia, un tavolo ed un mobiletto su cui è poggiato un cappello chiaro). Da apprezzare in questo dipinto, è come il pittore ha sicuramente saputo riproporre lo sconforto del cane, infastidito e rattristito dal pizzicore provocato dallo staccamento delle zecche dalla pelle. Stessa cosa è ravvisabile nel secondo dipinto, opera di Nunez de Villavicencio, seguace spagnolo del Murillo. Anche nel suo Ragazzo che spulcia il cane, è ravvisabile lo sconforto del cane, che, però, a differenza di quello della tela di Borch è visibilmente spazientito e infastidito, a differenza del ragazzo che munito di sconfinata pazienza, si mette all’opera per la pulizia del suo amico.

 G. Borch, Ragazzo che spulcia il cane, XVII secolo,
olio su tela, Alte Pinakothek, Monaco.
P. De Villavicencio, Ragazzo spulcia un cane, 1650,
olio su tela, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

Una storia di dolcezza quella che lega il cane al suo padroncino, ripresa agli inizi del Novecento da Pablo Picasso nel suo Ragazzo con cane. Nella composizione è ben evidente il rapporto di amicizia che lega i due soggetti, impoveriti nel loro aspetto così come lo sono nel loro modo di vivere. Mentre il bambino appare scalzo e coperto solo da un enorme giacca, sconfortato e annichilito nel volto mentre mangia un tozzo di pane, così il suo cane appare sporco e tignoso, con lo sguardo diffidente. Eppure ciò nonostante entrambi dimostrano dignità e onestà, consci del fatto che si bastano reciprocamente per superare ogni difficoltà.

P. Picasso, Ragazzo con cane, 1905, pastello su cartone, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

Sul piano della composizione invece, il cane configura come animale di compagnia delle dame di ogni epoca, così come il gatto. Prendendo in esame qualche dipinto esemplare, è chiara l’impostazione ritrattistica della dama con l’animale tra le braccia, come si può notare nella Donna con piccolo cane del Bronzino, sita allo Stadelsches Kunstinstitut di Francoforte.
Quieto tra le braccia della padrona, risaltante con il suo manto bianco e marroncino sul vestito di uno sconvolgente rosso acceso della donna, il piccolo cagnolino posa regalmente per dipinto. Dalla tela, traspare tutto l’ingegno del pittore nel saper raccontare l’animale, dalle giocose ondulazioni del pelo scompigliato, alla precisione anatomica del musetto e degli occhi vispi.

E qualche decennio più tardi è Lavinia Fontana, figlia del più noto Prospero, a presentare un’altra Dama con cagnolino. Nella piena fase riformista della Chiesa, la dama di Lavinia è ritratta in abiti rigorosamente casti, ma decisamente sfarzosi; la sua espressione è seria, ma serena. Tra le vesti color ocra e bianche spunta il suo cagnolino, che a differenza di quello del Bronzino, non spicca per contrasto, ma si mimetizza, quasi fosse un accessorio in pendant con l’abito. E sempre paragonandolo al dolce cagnetto del pittore fiorentino, quello di Lavinia non è anatomicamente preciso: le zampette sono molto esili rispetto al resto del corpo paffuto; il muso allungato ed il naso rosa lo rendono quasi irreale.

A. Bronzino, Donna con piccolo cane, 1530, olio su tavola,
Städelsches Kunstinstitut, Francoforte
L. Fontana, Ritratto di donna con cane, II metà XVI sec.,
olio su tavola, Auckland Art Gallery, Auckland

E Rembrandt, un  secolo dopo, nella sua Dama con cane, riprende l’idea cromatica che era stata del Bronzino, contrapponendo il rosso delle vesti della donna, alla bicromia bianco – marroncino chiaro del cane, che però, si perde nelle chiare braccia della sua padrona. Il cane di Rembrandt, essendo creatura nata dal suo tocco pittorico, è indefinito nella sua completezza: non un cenno di virtuosismo naturalistico nel pelo, che viene reso con campiture larghe ed omogenee, a malapena di distingue la zampetta che trova spazio tra le dita della mano di lei.

Decisamente più ovattato e incipriato, così come l’epoca artistica a cui appartiene, è il Ritratto di ragazza con cagnolino, di Francois Boucher, che raffigura una dama che tiene ad un guinzaglio di raso azzurro il suo piccolo carlino. Il cane, dal manto grigio, si contraddistingue nettamente sull’abito rosa confetto della dama: il suo sguardo appare stranito, confuso, come si evince dagli occhi sgranati; il suo pelo è lucido e così raso che sembra non esserne provvisto.

Rembrandt, Dama con cane, 1665, olio su tela,
Art Gallery of Ontario, Toronto
F. Boucher, Ragazza con cagnolino, 1740 ca., olio su tela,
Art Gallery of New South Wales, Sidney

Un cane di piccola taglia, il carlino ritratto da Boucher con la sua padrona, così come lo è Itzcuintli, che introduce alla tematica dell’Autoritratto degli artisti con il proprio cane.
Itcuintli era infatti il piccolo chihuahua di Frida Kahlo, che, ne’ Il cane Itzcuintli ed io del 1938, si fa ritrarre con lei. Due pose nette e distinte eppur unite dalla stessa espressione pacata e indagatrice: Frida vestita di nero, ricorda probabilmente uno dei numerosi lutti della sua vita travagliata; Itzcuintli con le sue orecchie aguzze resta in tema, ricordando per alcuni versi Annubi, il dio egizio della morte.

E se la donna Frida Kahlo, non soffre di problemi legati alle dimensioni, esibendosi con un cane grande poco più di una mano, gli artisti uomini esibiscono nei loro autoritratti, cagnoni di stazza enorme. Si veda l’Autoritratto con cane di Rembrandt, nel quale il pittore seicentesco si esibisce in un vistoso costume orientale, esibendo una posa altezzosa ed austera ed accompagnandosi ad un cane di grossa statura, dai lunghi ricci. È degna di lode la rifinitura di ogni riccio, un lavoro che nel complesso rende la copia del cane quanto più verosimile all’originale; curiosa è ad ogni modo la tosatura della parte posteriore dell’animale, evidentemente una moda in voga del momento.

F. Kahlo, Il cane Itzcuintli con me, 
1938, olio su tela, collezione privata
Rembrandt, Autoritratto con il cane, 1631,
olio su tela, Musèe du Petit Palais, Parigi

G.Courbet, Autoritratto con cane nero, 1842,
olio su tela, Musèe du Petit Palais, Parigi
Anche Gustave Courbet ha lasciato testimonianze del suo cane, nel suo Autoritratto con cane nero del 1842. Alcuni studi sostengono la tesi per cui alcuni cani tendano a somigliare fisiognomicamente ed espressivamente ai loro padroni dopo averne assorbito le abitudini: dopo aver visto Itzcuintli con Frida Kahlo, anche il cane nero di Courbet sembra avere lo stesso sguardo di serenità e supponenza del suo padrone, nonché le sue orecchie, prendere la stessa forma dei capelli dell’uomo e il suo manto, le stesse fattezze della giacca del pittore.

A. Ligabue, Autoritratto con il cane, 1957,
olio su faesite, Collezione privata, Brescia
E se con Courbet ammiriamo lo spettacolo della fisiognomica legata all’empatia, con Antonio Ligabue ne abbiamo una versione calzante e simpatica.
Accompagnato dal suo cane da caccia nel suo Autoritratto con il cane del 1957, il pittore si dipinge afflosciato nelle vesti così come l’animale lo è nella sua pelle rugosa: l’espressione simpatica e strana è la stessa, così come le rughe e le solcature.

Non si può però chiudere questo post senza toccare gli studi contemporanei sul cane. Studi scientifici, come quello fatto da Giacomo Balla sui cani, per testare le teorie sul dinamismo, ad esempio. Nella tela custodita alla Albright Knox Art Gallery di Buffalo del 1912, Dinamismo di un cane al guinzaglio, è interessante notare la sequenza continua che si crea nel trascinamento del lungo pelo del cagnolino, quasi come se in un andirivieni delle zampette, il movimento non abbia mai fine proprio grazie ai peli: la teoria perfetta per un cultore dell’energico Futurismo come Balla!

G. Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, olio su tela, Albright Knox Art Gallery, Buffalo
Ma, grande protagonista è Franz Marc, pittore che amava ritrarre gli animali nelle loro sfaccettature psicologiche e caratteriali. Fra tutti, di grande tenerezza è Il cane bianco del 1912, che preso di spalle, è intento ad ammirare e a scoprire il mondo. È interessante il contrasto tra i colori variopinti dell’ambiente sullo sfondo ed il candore del cane, innocente nella sua ingenuità: nonostante è girato, è possibile notare l’espressione di incertezza dell’animale, che, accovacciato sul suo sedere, contempla l’inizio della sua avventura.

Un’avventura che sembra poi ultimare Renato Guttuso nel suo Cane Randagio, bianco come il cane di Marc, ma a differenza del primo, esausto dalla vita piena di sofferenze e privazioni e saturo degli insegnamenti consegnategli dalla vita. il cane di Guttuso è un cane stanco, stremato, che si regge a malapena sulle sue gambe, magro sino all’inverosimile e probabilmente in procinto di morire. E per quanto non sia possibile guardare i suoi occhi e la sua espressione, quella profonda campitura blu scura sul volto, preannuncia un dolore provato da molti anni.

F. Marc, Cane bianco, 1912, olio su tela,
collezione privata, Svizzera
R. Guttuso, Cane randagio, 1959, 
olio su tela, collezione privata
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mercoledì 2 luglio 2014

Il gatto nella storia dell'arte

Gatto di Gayer – Anderson,
VII – IV sec.
A.C., bronzo,
 British Museum, Londra
L’amore per i gatti si perde agli albori delle prime civiltà riconosciute. Per gli egizi, questi assunsero persino un valore divino: basti pensare alla dea Bastet, impersonata proprio dal gatto (in alcune varianti anche dalla personificazione antropomorfa di una gatta). D’altronde non era poi così strano che un gatto fosse visto come un elemento divino, dato che questi padroneggiavano ogni casa, tempio ed edificio, con lo scopo di salvaguardare chi ci abitava dalla presenza dei topi. La statua bronzea del Gatto di Gayer - Anderson, conservata al British Museum, ben testimonia questo attaccamento votivo del popolo egizio al gatto: in una posa regale ed austera, la dea gatta Bastet, munita di orecchini pendenti e anello al naso d’oro, longilinea ed anatomicamente perfetta, osserva - quasi supervisiona - quelli che erano gli abitanti della struttura in cui fu rinvenuta.

Xenia - soggetto di gatto, II sec. A.C.,
 mosaico, Museo Archeologico, Napoli
Già trascinandosi avanti con le civiltà greca e romana, devote ad un politeismo di stampo antropomorfo, il gatto perde di quella divinità acquisita con gli egizi, per ridimensionarsi a semplice animale domestico, il cui compito principale non cambia: quello di cacciare topi. Nel mosaico dello Xenia con soggetto di gatto, proveniente dalla Casa del Fauno di Pompei e conservato attualmente al Museo Archeologico di Napoli, ben si evidenzia la spensieratezza del gatto, intento ad agguantare un uccello. È strabiliante la resa precisa dell’animale domestico nel suo manto striato e nell’azione della cattura: gli occhi sgranati, le zampe posteriori indietro per darsi lo slancio e quella anteriore sinistra sul collo dell’uccello.

Pantaleone, Raffigurazione di gatto, 1165, mosaico,
Cattedrale di Santa Maria Annunziata, Otranto
Un altro mosaico raffigurante un gatto rossiccio, è riscontrabile nella Cattedrale di Otranto. Esso fa parte di un ciclo musivo che decora interamente il pavimento dell’edificio religioso, voluto nel 1163 - 1165 dal vescovo della città ed eseguito dal monaco Pantaleone. Come si può notare, l’esecuzione del Gatto di Otranto perde quella perfezione raggiunta con i romani e dimenticata a seguito delle orde barbariche, a vantaggio di una resa più semplicistica e stilizzata. Secondo alcuni pareri, quello raffigurato potrebbe non essere un gatto, ma una lonza, felino molto simile al suo parente domestico. Ad ogni modo è interessante notare come l’animale sia stato in alcuni punti “umanizzato”: le zampette diventano mani, gli occhi diventano amigdaloidi,  addirittura su due zampe indossa un paio di calzature.

G. Romano, Madonna della gatta, 1523,
olio su tela, Museo di Capodimonte, Napoli
Con l’avvento della pittura cosiddetta moderna (da Giotto in poi per intenderci) è molto più riscontrabile la presenza del gatto nei dipinti degli artisti, soprattutto quelli di stampo religioso. Ne sono esempio le diverse madonne, talvolta rinominate “della gatta” per via dell’animale presente.
Una gatta che non sempre è il soggetto protagonista del quadro o è ben visibile nella composizione, ma che, per via di un particolare atteggiamento o di una particolare curiosità trasmessa, diviene il punto d’attenzione.

È così ad esempio nella Madonna della gatta di Giulio Romano, conservata a Capodimonte. La scena è complessa, perché si apre a diversi ambienti di un edificio abitativo, nel migliore dei giochi prospettico - volumetrici, e vede protagonisti una Sacra Famiglia con Sant’Anna in primo piano assieme alla Vergine, il Bambino e il San Giovannino, e Giuseppe ben visibile in un'altra stanza, attraverso una porta aperta. Tutto sembra tranquillo e appartenente ad un mondo che non ci riguarda e di cui siamo solo passivi spettatori, se non fosse per il gatto ai piedi della vergine, in basso sulla destra, che fissandoci con uno sguardo scettico e profondo, ci coinvolge completamente nella scena.

F. Barocci, Madonna della gatta, 1598, 
olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Non accade lo stesso nella Madonna della Gatta di Federico Barocci, dove l’ambiente raccontato è molto più colloquiale e scenico di quello di Giulio Romano. Quello che nel primo dipinto era il ruolo della gatta, adesso è del San Giovannino, mentre proprio la gatta ha un ruolo di protagonista, trovandosi al centro della tela, stesa nel suo splendido manto grigio, in contrasto con il tessuto rosa della Madonna. È una gatta, quella del Barocci, consapevole di essere la padrona degli ambienti in cui abita, amata dagli altri coinquilini e ormai abituata alla presenza di tutte quelle persone.

Tutt’altro fa Lorenzo Lotto nella sua Annunciazione di Recanati, ambientata anch’essa negli interni della casa di Maria. Tutto è da racconto del Vangelo: Maria serena riceve l’arcangelo annunciante la buona novella con la supervisione di Dio (su una nuvola come nel Dio de’ La creazione di Adamo di Michelangelo). Ma quel che è da notare è la reazione del gatto accanto all’Arcangelo, che, spaventato visibilmente dal suo arrivo, non riconoscendone l’entità fugge a zampe levate guardandosi indietro.


L. Lotto, Annunciazione di Recanati, 1534, olio su tela, 
Museo Civico Villa Colloredo Mels, Recanati. 

Un atteggiamento animalesco, perché in fondo di animali si tratta, seppur addolciti dalla vita domestica. Lo sa bene Francisco Goya, che nel suo dipinto degli anni ’80 del Settecento, raffigura due gatti intenti a litigare tra loro. Tutto racconta uno studio mirato del pittore, agli atteggiamenti dei due felini irati: la schiena esageratamente arcuata, le zampe irte, il muso spalancato con denti in bella vista, quasi si potesse sentire il miagolio fastidioso, lo sguardo sbarrato che avvisa dell’aggressione pronta per essere sferrata.


F. Goya, Due gatti che litigano, 1786, olio su tela, Museo del Prado, Madrid

E. Manet, Olympia, 1863, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi
Oltre a Goya anche altri pittori si lasciano andare al racconto del gatto nella sua quotidianità, nei suoi istinti animaleschi. Lo racconta Edouard Manet nella sua Olympia, dove un gatto nero si erge sul letto della donna sensuale. Anche questo, sembra irritato da quanto gli sta accadendo intorno: la sua posa è sull’attenti, con il posteriore ben più sollevato della zona anteriore, gli occhi aperti, la coda in alto e il pelo rizzato. E ancora Pablo Picasso, nel suo Gatto che divora un uccello del 1939, racconta di un animale che si lascia andare al suo istinto bestiale, che, ben saldo al suolo con i lunghissimi artigli, squarta un uccello, affamato più che mai.


E. Manet, Olympia (part.),
1863, olio su tela, Musèe
d’Orsay, Parigi
P. Picasso, Gatto che divora un uccello, 1939, 
olio su tela, Musèe Picasso, Parigi. 

Oltre che come soggetto di un quadro e in un quadro, il gatto diviene parte essenziale anche della ritrattistica a tema. Diverse sono le tavole e tele che raffigurano personaggi di spicco della società del loro tempo, o semplici modelli, posare con il gatto in grembo o tra le braccia. Due esempi su tutti sono la Dama con il gatto di Francesco Bacchiacca, e la Julie Manet con il gatto, di Pierre Auguste Renoir.

La prima è ritratta di profilo, con lo sguardo ammiccante verso lo spettatore, consapevole della sua beltà e della meraviglia dei suoi abiti e dei suoi gioielli. È il gatto che tiene tra le braccia, dimostra la stessa sensualità della sua padrona, accavallando le zampette quasi come se fosse stato educato a farlo, smuovendo leggermente la testolina verso un lato e guardando con occhi sornioni anch’esso lo spettatore. La seconda racconta di una ragazza molto più ingenua, un’adolescente, che nella dolcezza del suo volto sereno, mostra piacevolezza ad accarezzare il gatto tigrato che ha tra le braccia; gatto che ricambia la sensazione positiva, contraendosi in smorfie di piacere.


F. Bacchiacca, Dama con gatto, 1525,
 olio su tavola, Collezione privata, New York
P. A. Renoir, Ritratto di Julie Manet con il gatto,
1887, olio su tela, Musèe d’Orsay, Parigi

Il dipinto ricorda non poco nell’impostazione della ragazza, la ritrattistica cinquecentesca della dama accompagnata da un animale tenuto tra le braccia. Nella fattispecie due dame, entrambe però munite di un animale atipico o persino fantastico: la Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci e la Dama con il liocorno di Raffaello. Particolarmente il primo animale ricorda però l’eleganza e l’anatomia longilinea del felino, che segue quella della sua padrona, sinuosa nelle sue magre forme.


Leonardo, Dama con l’ermellino, 1489,
olio su tavola, Castello di Wawel, Cracovia
Raffaello, Dama con liocorno, 1505,
olio su tavola, Galleria Borghese, Roma

T. A. Steinlen, Tournèe
du Chat Noir avec
Rodolphe Salis, 1896,
 litografia, Zimmerli Art
 Museum, New Brunswick
La sinuosità di un corpo agile e longilineo in fondo è sempre stato il riconoscimento del gatto; elementi che convergono tutti, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nelle opere d’arte contemporanee francesi e tedesche. Si paragonino ad esempio il poster di Theophile Alexandre Steinlen della Tounèe du Chat Noir, con il Gatto nero di Ernst Ludwig Kirchner: entrambi i soggetti sono gatti neri, fieri della loro possanza e del loro carattere. Il gatto de’ Tournèe du Chat Noir, ha uno sguardo più malizioso, aiutato dall’andamento verticale delle sopracciglia finissime, dal pelo irto e dagli artigli rifiniti; il gatto nero di Kirchner invece, nelle sue forme un po’ più burrose e nella dolcezza del suo sguardo dai tratti mistici, ricorda non poco la statua egizia di Gayer - Anderson.





E. L. Kirchner, Gatto nero, 1926,
olio su tela, collezione privata
Gatto di Gayer – Anderson, VII – IV sec. A.C.,
bronzo, British Museum, Londra

M. Chagall, Parigi dalla finestra, 1913, olio su tela,
Peggy Guggenheim Museum, Venezia
Ma il gatto è stato anche fonte di studi mirati a carpirne il lato più astratto della sua personalità. Già con Picasso abbiamo visto come il suo Gatto che divora l’uccello, sia fortemente stereotipato nella sua natura animalesca. Con Marc Chagall invece, assistiamo all’esatto contrario: l’umanizzazione del gatto. Si veda nello specifico la tela de’ Parigi dalla finestra, in cui il gatto all’esatto centro della composizione, mostra un viso ed una malinconia di stampo umano, quasi come fosse una nuova creatura mitologica contemporanea, che mischi i sentimenti dell’uomo alla natura zingara ed indipendente del gatto.

E ancora, Andy Warhol, che si divertì ben bene a ritrarre il gatto Sam, colorandogli il manto e gli occhi di diverse tinte. Nella serie omonima, si può ravvisare come lo stesso gatto passi dal rosa acceso all’arancio ed i suoi occhi si colorino di viola, giallo e rosso. In fondo Andy Warhol fu quell’artista che serigrafò con diverse tonalità grandi personalità dello spettacolo come Marylin Monroe e Liz Taylor, quindi perché non fare lo stesso con il gatto Sam?  


A. Warhol, (4 esempi di) Sam cat , 1954, litografie, Sims Reed Gallery, Londra
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